Minima Cardiniana 459/7

Domenica 17 marzo 2024
V Domenica di Quaresima
San Patrizio, patrono degli Stati Uniti d’America

ARTE, ARTE E ANCORA ARTE
IL TOCCO DI PIGMALIONE. RUBENS E LA SCULTURA A ROMA
di Eleonora Genovesi

Sono un semplice uomo che sta da solo con i suoi vecchi pennelli, chiedendo a Dio di dargli ispirazione” (Pieter Paul Rubens)

Questa frase di Rubens credo racchiuda la sua vera essenza: quella di un uomo umile, come tutti i grandi, che, pur cosciente del suo talento, non smise mai di imparare dai più grandi. Perché Rubens temeva fortemente la mancanza di ispirazione che è alla base di qualunque lavoro creativo. E credo proprio che Dio gli abbia dato una grandissima ispirazione. Perché dico questo? Perché ammirando le sue opere nella mostra appena terminata alla Galleria Borghese dal titolo “Il Tocco di Pigmalione. Rubens e la Scultura a Roma” ho davvero toccato con mano quanto grande fosse la sua ispirazione. Parliamo di una mostra davvero speciale che ospita circa cinquanta opere realizzate dal pittore fiammingo, provenienti dai più grandi musei internazionali quali British Museum, Louvre, National Gallery di Londra e quella di Washington, il Prado ed il Rijksmuseum di Amsterdam, opere che entrano in dialogo con i capolavori del Bernini e non solo. Ed è proprio questo dialogo l’elemento affascinante di questa esposizione, così diversa dalle altre.
La mostra, suddivisa in 8 sezioni, che animano due piani del museo, deve il suo titolo Il tocco di Pigmalione alla volontà dei curatori di evidenziare lo stile innovativo di Rubens e la sua personale reinterpretazione dell’antico. Inoltre l’esposizione indaga il ruolo preminente che ebbe Roma nell’elaborazione di un nuovo linguaggio artistico europeo, grazie anche al copioso contributo della Galleria Borghese.
Ma prima di iniziare questo viaggio è doveroso dire due parole sulla figura di Rubens.
Peter Paul Rubens (Siegen, 1577 – Anversa, 1640) è stato uno dei pittori precursori dell’arte barocca. Secondo lo storico dell’arte Giuliano Briganti la sua opera “può considerarsi l’archetipo del ‘barocco’”, il barocco europeo, nordico e francese. Rubens riformulò la concezione spaziale, del colore e delle figure, operando così una rivoluzione che, partendo dalla conoscenza e dalla rielaborazione dei modelli del passato, dà luogo ad una nuova grammatica del linguaggio visivo.
Nel 1600 viaggiò in Italia ed in Spagna, godendo del mecenatismo di nobili e re. Un ruolo particolarmente importante sulla sua crescita lo ebbe la permanenza a Roma, la “calamita per artisti del Nord europa” come l’ha definita Francesca Cappelletti, Direttrice della Galleria Borghese e curatrice della mostra. Rubens a Roma conobbe l’antico, ma non solo. Conobbe anche le opere di Carracci e di Caravaggio e quelle della collezione Borghese, collezione fortemente voluta dal cardinale Scipione Borghese nipote di quel Papa Paolo V Borghese. Una collezione straordinaria, quella dei Borghese, che viaggiava dall’antico al “moderno” con i gruppi scultorei del Bernini, e che per questo motivo divenne motore del nuovo linguaggio naturalistico dell’Europa.
La Roma di Rubens, fra i pontificati Aldobrandini e Borghese, è il luogo più idoneo dove studiare l’antico, ma è anche il luogo dove iniziare a conoscere i capolavori della pittura contemporanea di un Annibale Carracci nella Galleria Borghese e di un Caravaggio nella Cappella Contarelli.
Così nel corso del Seicento Rubens eccelle come uno dei maggiori conoscitori delle antichità romane.
Ma la vera grandezza di Rubens sta nell’aver vivificato i soggetti sia nell’ambito del ritratto che in quello delle opere storiche.
E sarà proprio questo suo approccio innovativo al disegno ad anticipare le mosse di quegli artisti che negli anni successivi alla sua permanenza romana verranno definiti barocchi. Iniziamo così il nostro viaggio con la prima sezione dal titolo “Il mito del barocco” che introduce al contempo un tema generale ed un tema specifico della mostra. Il già menzionato storico dell’arte Giuliano Briganti asserisce che Rubens è stato il “padre spirituale” di artisti quali Gian Lorenzo Bernini che con le loro opere avevano celebrato e magnificato il pontificato di Urbano VIII Barberini (1623-1644).
Parliamo di artisti barocchi. Ma è proprio sul significato di questo termine che ruota questa prima sezione.
Il termine “Barocco” coniato poco più di due secoli fa per indicare criticamente e cronologicamente l’arte italiana ed europea del XVII secolo in realtà ancora oggi non assume un significato univoco. I suoi confini cronologici e la sua geografia risultano ancora complessi e problematici.
Di certo però sappiamo che all’origine di questo nuovo e travolgente linguaggio artistico c’è proprio il fiammingo Peter Paul Rubens. Dunque la scelta di allestire questa mostra sulla sua arte all’interno del contesto della Galleria Borghese, significa non fermarsi al mito del Barocco, alla sua definizione teorica, bensì cercare di leggere le componenti di questo nuovo linguaggio europeo nel periodo della sua formazione e della sua iniziale propagazione.
Appare dinanzi ai miei occhi lo straordinario Prometeo incatenato, olio su tela realizzato da Rubens tra il 1611 ed il 1618, in cui l’artista riscopre la natura. Prometeo, il titano amico dell’umanità e del progresso, poiché ruba il fuoco agli dèi per darlo agli uomini, subisce la punizione di Zeus, che lo incatena a una rupe ai confini del mondo per poi farlo sprofondare nel Tartaro. Questo giovane eroe diviene così un simbolo di ribellione e di sfida alle autorità o alle imposizioni.
Il Prometeo di Rubens è un giovane uomo dal corpo muscoloso che soffre terribilmente, incatenato per sempre agli scogli, con un’aquila dalle ali spiegate che, mentre gli becca il fegato, tiene la zampa avvinghiata sul suo volto. La torsione del corpo di Prometeo e quella dell’aquila imprimono al dipinto grande forza e dinamismo. L’uso del colore è vibrante e drammatico, con toni rossi e oro che evidenziano l’intensità della sofferenza di Prometeo. Rubens attraverso quel corpo muscoloso così incredibilmente bello e teso riesce a trasmettere, a trasmettermi con grande potenza il dolore sperimentato da Prometeo.
Ma a dispetto di tutta questa sofferenza, il titano amico dell’umanità lotta con tutto se stesso per liberarsene.
Il Prometeo di Rubens visualizza l’idea dell’artista sulla costante lotta tra l’uomo e tutto ciò che lo rende prigioniero.
Ma il nostro eroe non si arrende, il suo spirito si ribella e non viene sconfitto… A ben vedere mi sento anch’io un po’ Prometeo… Ma in fondo credo ci sia un Prometeo in ognuno di noi. Il percorso di questa prima sezione prosegue con la visione dei disegni, o studi che dir si voglia, realizzati da Rubens tra il 1606 ed il 1608 tra cui spiccano lo Studio del Centauro cavalcato da Amore e lo Studio dal Vaso Borghese.
Ma non si tratta di una semplice riscoperta dell’antico, no… Quei corpi costituiscono una vera e propria rivoluzione formale. L’artista dà inizio ad una nuova codificazione iconografica di soggetti storici e mitologici, partendo da un’attenta rilettura del rinascimento italiano e della statuaria antica. Ed è proprio qui la grandezza di Rubens: nell’aver saputo dare una nuova linfa vitale all’antico senza perdere di vista la realtà del suo presente.
Passiamo ora alla seconda sezione intitolata “Rubens e la storia” che ripercorre il legame tra l’artista e la storia portando l’ignaro visitatore in Italia. Rubens era uomo erudito come lo definisce nel 1672, circa 30 anni dopo la sua morte, Giovanni Pietro Bellori. Nelle natie Fiandre il giovane Rubens entrò in contatto con il filosofo del diritto Justus Lipsius che diffuse gli scritti di Tacito, curò l’edizione critica delle opere di Seneca, e ammirò, come Machiavelli, le virtù della Roma Repubblicana.
Dunque Rubens quando giunge in Italia è già un artista dotto. Conosce il latino e greco, le Vite del Vasari. Ma sarà a Roma che conoscerà la scultura romana, assimilando l’impronta eroica della ritrattistica d’età imperiale. A Roma studierà con passione il Seneca morente, una scultura in marmo bigio (oggi al Louvre ma appartenente alla collezione Borghese) che mette in scena il suicidio del filosofo così come descritto da Tacito. E i risultati di questo studio appassionato sono visibili nel dipinto dal titolo La morte di Seneca del 1612 in cui Rubens ci restituisce una scena statuaria, di forte monumentalità, ispirata alle sculture che aveva ammirato nel soggiorno romano. Ma attenzione, la sua non è una pura trasposizione della statuaria in pittura, è molto di più.
Rubens dà una personale interpretazione al tema, trasformando come per magia il marmo borghesiano in carne.
Oltre a disegni preparatori per il Seneca morente troviamo due dipinti: Decio Mure esorta le legioni e l’Allegoria della guerra che ci fanno capire come l’autorità morale della storia antica consenta a Rubens anche di commentare il presente.
Nel 1618 scoppia la Guerra dei Trent’anni che devasterà l’Europa, in particolar modo i Paesi Bassi spagnoli dove vive l’artista. E con l’Allegoria della guerra, realizzata nel 1628, Rubens esterna il suo pensiero a riguardo.
In primo piano troviamo una figura femminile vestita all’antica, con la testa abbassata sorretta dalla mano che esprime il suo profondo dolore dinanzi ad una battaglia estremamente attuale, soprattutto oggi alla luce dell’odierno contesto storico.
Passiamo ora alla terza sezione dal titolo “Corpi drammatici” in cui si approfondisce la grammatica del corpo umano in Rubens. Corpo studiato dal vero, analizzato a partire dall’Antico e interpretato alla luce della lezione dei maestri del Rinascimento, tra cui spiccano i nomi di Michelangelo e di Leonardo. Dal primo Rubens riprende la monumentalità delle forme come si può ben vedere nello Studio dal torso del Belvedere, dal secondo l’indagine anatomica ed il senso del moto. Nell’Ercole che combatte il leone Nemeo, lo sforzo muscolare michelangiolesco si sposa splendidamente con la forza di Leonardo, anticipando le torsioni berniniane dei corpi che caratterizzeranno la scultura barocca, come posso constatare ammirando il Ratto di Proserpina di Gianlorenzo Bernini ubicato nella stessa stanza. Vedere gli studi di Rubens accanto allo splendido gruppo scultoreo berniniano mi fa capire come effettivamente il maestro fiammingo con le posture e l’anatomia dei suoi corpi anticipi il movimento dei corpi berniniani che si pongono come dei Tableau Vivant.
Così come Bernini osservando il suo Ratto di Proserpina ci dona l’illusione del movimento, anche Rubens rende vivi i suoi corpi.
L’uno in pittura e l’altro in scultura cercano di dar vita a quei corpi. Ed eccoci arrivati alla quarta sezione dal titolo “Corpi statuari”. Come detto poc’anzi, per Rubens come per molti altri artisti che ne hanno seguito l’esempio, lo studio della scultura classica non si limitava ad offrire l’occasione per scoprire nuovi soggetti mitologici, esaminare gli usi dei romani o ancora il poter copiare muscolose anatomie umane, no, an-dava ben oltre. Lo studio del classico costituiva una via per imparare come dare alle forme pittoriche un nuovo vigore statuario in modo che i suoi protagonisti risaltino come figure viventi all’interno della composizione. E questo è ciò che percepisco ammirando il San Sebastiano curato dagli angeli (della Galleria Corsini) e il Cristo Risorto (di Palazzo Pitti) di Rubens.
I corpi, realizzati plasticamente con un morbido chiaroscuro, con il loro inquadramento in primo piano riempiono la superficie pittorica, emergendo da questa come sculture piene di vita che coinvolgono visivamente ed emotivamente lo spettatore. Questo dialogo fra le Arti operato da Rubens ne fa un modello anche per scultori come Georg Petel di cui si può ammirare il San Sebastiano, scultura in avorio del 1630, alta circa 30 cm, le cui morbide gradazioni tonali gareggiano con il perlaceo dell’incarnato delle figure rubensiane.
Per giungere alla quinta sezione della mostra passo nella Sala VI dominata dal gruppo scultoreo di “Enea, Anchise e Ascanio”, opera giovanile di Gian Lorenzo Bernini del 1618, e “La Verità” dello stesso. Ma non bastasse tanta bellezza ecco apparire dinanzi ai miei occhi lo straordinario Studio di Rubens, datato 1612, dal titolo Giovane uomo seduto in preghiera. Tra lo Studio di Rubens e il gruppo di Bernini intercorrono solo 6 anni, ma quel corpo dalla perfetta, realistica anatomia anticipa con il suo plasticismo i corpi berniniani. E il mio viaggio nella bellezza continua con la quinta sezione intitolata “Rubens e Caravaggio”.
Che Rubens avesse un fiuto spiccato per capire con largo anticipo il valore di un artista, ce lo dice il fatto che insistette con il duca Vincenzo Gonzaga, grande collezionista d’arte, affinché acquistasse la tela dal titolo Morte della Vergine, realizzata da Caravaggio nel 1605, consiglio seguito dal duca che acquistò il dipinto. Ma torniamo un attimo indietro.
Il dipinto, commissionato nel 1601 dal giurista Laerzio Cherubini per la propria cappella in Santa Maria della Scala, la chiesa più importante dell’ordine dei Carmelitani Scalzi a Roma, suscitò un vero e proprio scandalo, venendo rifiutata dal clero, perché l’iconografia della Vergine era assolutamente irrispettosa del ruolo della madre di Cristo, privata com’era di qualsiasi attributo mistico.
Caravaggio dipinse il corpo di una donna provata, una dei tanti ultimi, emarginati come diremmo oggi, per i quali Cristo era venuto su questa terra. E a suffragare il crudo realismo dell’opera circolarono voci che Caravaggio avesse scelto come modella per la Vergine il corpo di una prostituta annegata nel Tevere. E qui lascio la parola ad alcuni contemporanei di Michelangelo Merisi da Caravaggio, il collezionista Giovanni Pietro Bellori ed il pittore e biografo Giovanni Baglione.
Secondo Baglione, la tela fu ritenuta oltraggiosa “perché havea fatto con troppo poco decoro la Madonna gonfia, e con gambe scoperte” e per questo motivo “fu levata via”.
E il Bellori conferma questa tesi asserendo che l’opera fu rifiutata “per havervi troppo imitato una donna morta gonfia”.
Tuttavia Rubens, che, oltre che grande artista, era un grande intenditore di arte, dotato di una visione più ampia che gli consentiva di oltrepassare la funzione dell’opera e la sua destinazione, si rese subito conto della straordinaria novità del dipinto con il quale Caravaggio attualizzava la storia religiosa. Ma il suggerimento dato da Rubens al suo mecenate Gonzaga di acquistare l’opera di Caravaggio, un quadro straordinario per la sua collezione, fu molto di più di un consiglio prezioso. Rubens fece un gesto raro e profondamente significativo: suggerì, di cambiare la destinazione d’uso dell’opera, da un ambiente religioso ad uno laico come quello di una galleria d’arte.
E, contemporaneamente al Gonzaga, anche il lungimirante cardinale Scipione Borghese acquisterà dalla confraternita dei Palafrenieri la Madonna con il bambino e Sant’Anna di Caravaggio ancora oggi presente in questa stanza.
Eh sì, perché la storia si ripete. Così come la Morte della Vergine fu rifiutata dalla chiesa in quanto giudicata priva di quel decoro che caratterizza la tradizionale iconografia mariana, anche la Vergine della Madonna dei Palafrenieri con le sembianze della Lena Antognetti, amante e modella del Merisi, dalla scollatura provocante, fu ritenuta inadeguata dalla Confraternita dei Palafrenieri… A questo si aggiungeva l’età di Gesù, ritenuto troppo grande per essere ritratto nudo.
Dunque ancora una volta una Vergine troppo umana, davvero troppo per i dettami della Chiesa. Ma in fondo a ben guardarla questa immagine è un po’ atipica anche per noi.
Così quando il 16 giugno del 1606 viene deliberata la vendita della tela, a richiederla è il cardinal nepote Scipione Borghese, nipote (appunto) di quel Camillo che un anno prima era asceso al soglio pontificio con il nome di Paolo V.
Sicuramente un bell’affare quello del cardinale Scipione che con soli 100 scudi si assicura un capolavoro.
Del resto Scipione Borghese non era solamente un noto collezionista di opere d’arte ma anche una persona piuttosto disinibita che riusciva sempre ad avere quel che voleva.
Ed è ciò che mi viene in mente ammirando il Bacchino Malato e il Fanciullo con canestro di frutta, rimasti fino al 1607 nella bottega del Cavalier d’Arpino, maestro di Caravaggio, quando, per motivi fiscali, furono entrambi requisiti dagli emissari di Papa Paolo V (Borghese) e consegnati al Cardinale Scipione Caffarelli-Borghese, entrando così a far parte della collezione di famiglia.
E Rubens fu molto attratto dalla modernità di Caravaggio, come testimonia il suo inchiostro su carta del 1615 dal titolo Deposizione di Cristo nella tomba frutto dello studio della Deposizione realizzata dal Merisi nel 1601, opera gentilmente prestata dal Rijksmuseum di Amsterdam.
In questo disegno Rubens riesce a catturare le espressioni dei personaggi intensificandole, avvicinandosi così al modello caravaggesco ma al contempo reinterpretandolo.
Questa mostra su Rubens è caratterizzata da un efficace percorso di accostamenti teso ad analizzare il complesso rapporto esistente fra i concetti di naturalismo e di barocco.
Se il grande fiammingo Peter Paul fu tacciato di eccessivo naturalismo, Caravaggio fu sempre considerato il caposcuola di un potente realismo. Tuttavia in questa stanza questo realismo ci appare in modo totalmente diverso. Che si tratti del Bacchino Malato o del David con la testa di Golia o della Madonna dei Palafrenieri, tutto appare statico, come se i personaggi fossero bloccati dai contrasti luce-ombra in un preciso momento della loro vita.
E molto probabilmente fu per questo motivo che Rubens si esercitò sulla Deposizione di Caravaggio, opera in cui la gestualità delle figure costruisce del movimento, per realizza re il suo Compianto sul Cristo morto del 1601-1602.
Si tratta di un’opera giovanile, ma piena di energia, facente parte della collezione Borghese, che compendia ed evidenzia quella che è la sintesi operata da Rubens dei più disparati influssi da lui recepiti nel corso del suo soggiorno italiano. Dalla luminosità ispirata da Tintoretto alla grazia della Maddalena di matrice correggesca, allo studio dei rilievi antichi che, grazie al suo pennello, prendono vita nel sepolcro in marmo che tanto ricorda i sarcofagi romani.
E le stesse figure, fortemente scultoree nel loro plasticismo, si ispirano alla statuaria classica.
Di caravaggesco abbiamo invece i bagliori di luce provenienti dal cielo. Ma attenzione Rubens non copia, bensì si ispira e reinterpreta in modo espressamente personale l’arte con la quale viene a contatto. E nel suo Compianto per conferire maggior naturalezza agli elementi presenti nell’opera, sperimenta tutte le varie gradazioni cromatiche come, ad esempio le diverse tonalità di bianco adottate per dipingere il sudario e il sepolcro. A fine Settecento inizi Ottocento l’opera è stata ingrandita su tutti i lati mediante l’aggiunta di strisce di tela forse per adattarla a una nuova cornice. Il Compianto di Cristo morto arrivò nella collezione Borghese solo all’inizio dell’Ottocento, insieme ad altri quadri nordici comprati dal principe Camillo.
Ed eccomi giunta alla sesta sezione intitolata “La nascita della scultura pittorica” in cui si prende in esame il rapporto tra la scultura di Bernini e la pittura di Rubens.
Per i viaggiatori del Nord Europa che arrivavano a Roma a fine Settecento era fuori di dubbio che tra i due artisti intercorressero delle affinità formali. E a suffragare questa convinzione troviamo lo scrittore tedesco August Wilhelm von Schlegel secondo il quale le mani di Plutone affondate nella carne di Proserpina erano una prova di “fiamminghità”.
In effetti le donne di Rubens sono decisamente reali poiché la loro bellezza risiede nella verità dei loro corpi.
Nelle figure femminili rubensiane la generosità dei contorni delle membra, così come le pieghe della pelle, modellati da un colore che esalta la luminosità degli incarnati, conferiscono alla figura una forte valenza espressiva.
Rubens assecondava così l’esaltazione dei sensi cercando di rendere costantemente la sensazione del tatto.
Dunque se la pittura rubensiana si fa scultura, la scultura berniniana si fa pittura. Eh sì Bernini, nell’aver gareggiato con la pittura a livello tematico e formale, nell’aver aderito al dato naturale e all’espressività, viene accusato di aver travalicato i confini propri della scultura per sconfinare in quelli pittorici. Tuttavia riguardo all’origine della definizione di barocco va detto che por molti aspetti il rapporto tra Rubens e Bernini rimane ancora sfuggente.
Si sa che negli anni Trenta del Seicento Rubens, che allora viveva vicino ad Anversa, continua ad informarsi costantemente su quanto accade in Italia, quell’Italia in cui Bernini ha appena realizzato per Papa Urbano Barberini il Baldacchino di San Pietro.
Ma viene da chiedersi perché Rubens sia così attento alla scultura. Be’, probabilmente questa attenzione non è solo una questione di natura antiquaria, ma coinvolge anche lo studio di oggetti plastici diversissimi tra loro: antichi e moderni, marmorei e metallici. Più complicato è invece capire in che modo Bernini negli anni venti del Seicento si accosti alle novità rubensiane.
Come afferma Lucia Simonato, una delle due curatrici della mostra, “In questa sfida tra le due arti, Rubens dovette sembrare a Bernini come un campione di un linguaggio pittorico estremo con il quale confrontarsi”. E questo confronto lo riscontriamo nella raffigurazione del moto e dei cavalli in levade che caratterizzano lo straordinario Studio del San Giorgio uccide il drago, penna e inchiostro bruno, del 1606, oggi al Louvre, ispirati dalla grafica di Leonardo da Vinci. E come Rubens anche Bernini nelle sue opere senili affronterà il problema del moto con la stessa leonardesca furia del pennello che il Bellori riconobbe al maestro di Anversa. Ma il confronto tra i due artisti continua anche a livello di ritrattistica dove entrambi cercano il dialogo con lo spettatore, come possiamo vedere nel ritratto realizzato da Rubens nel 1627 del medico e antiquario Ludovicus Nonnius, in cui la professione dell’uomo è rimarcata dalla presenza alle sue spalle del busto di Ippocrate e dall’avere in mano il suo libro relativo allo studio sistematico degli alimenti dal punto di vista medico-igienico. Il ritratto di Rubens è genialmente posizionato in mostra fra i due busti berniniani del cardinale Scipione Borghese, suo vecchio mecenate, datati 1632.
Ed è veramente sorprendente vedere come lo sguardo del cardinale berniniano, e ancor più quello del medico rubensiano puntino l’osservatore cercando di calamitarne l’attenzione… Si può davvero parlare di Somiglianza parlante.
Ed eccoci giunti alla settima sezione dal titolo “Il Tocco di Pigmalione”, che poi è il titolo della mostra.
Pigmalione era il mitico scultore che ottenne dagli dèi la vita per una statua di cui si era innamorato.
Voi vi chiederete cosa possa entrarci Pigmalione con Rubens. Be’, i due personaggi sono legati dalla capacità di dar vita a materiale inerte: come Pigmalione riuscì a dar vita ad una statua così Rubens riesce a trasformare nei suoi disegni e nelle sue tavole l’inerte marmo antico in vibrante materia pittorica. Ed è lo stesso Rubens a spiegare in due fondamentali pagine del suo trattato sull’Imitazione delle statue come avviene questo processo “transmediale” ovvero di trasposizione di valori formali da una scultura a una pittura.
Per prima cosa vietato imitare in modo pedissequo il modello antico che avrebbe portato alla raffigurazione di statue dipinte anziché soggetti ripresi dal vero. E sarà proprio lo stesso Rubens a mettere in pratica in modo esemplare questo consiglio con le sue prove grafiche in cui traduce il marmo in carne mediante le “maccaturae”: le morbide pieghe della pelle sia degli uomini che degli animali, come si può vedere nello Studio del Toro Farnese e nello Studio di un’Aquila, entrambi realizzati dall’artista con matita nera.
In questi straordinari disegni Rubens, accentuando le maccature rende le figure vive e non scolpite.
Dunque l’Antico da cui Rubens parte è in realtà già di per sé vitale come ci mostrano i disegni succitati posti dinanzi allo Spinario, una statuetta di fine cinquecento di autore ignoto, che imita il bronzo capitolino. Questa statuetta raffigura un giovane seduto mentre, con le gambe accavallate, si sporge di fianco per togliersi una spina dalla pianta del piede sinistro. In fondo in Rubens lo studio della statuaria classica non è assolutamente in conflitto con l’indagine sul naturalismo.
E se la posa della Susanna protagonista dell’opera Susanna e i vecchioni, realizzata da Rubens nel suo soggiorno giovanile in Italia e facente parte della Galleria Borghese, probabilmente prende spunto dallo Spinario, la Susanna realizzata al rientro dell’artista ad Anversa è caratterizzata da una maggiore intimità, pur mantenendo sempre lo stesso morbido incarnato del nudo femminile.
E mentre mi accingo ad uscire dalla settima sezione, ecco l’autoritratto del 1623 del giovane Bernini dal quale mi sento fissata, con quegli occhi così vivi e pulsanti, quasi mi stesse chiedendo: “Sei cosciente del luogo in cui ti trovi? Sei in un luogo sacro, il luogo dell’Arte”.
Ed io gli sorrido confermandogli la mia percezione della sacralità del luogo… Così giungo all’ottava ed ultima sezione dal titolo “Rubens e Tiziano”.
Durante la sua permanenza in Spagna, a cavallo tra il 1628 ed il 1629, Rubens realizzò numerose copie di Tiziano, pittore che aveva catturato l’interesse dell’artista. In questa stanza troviamo, l’Amor sacro e Amor profano, il bellissimo capolavoro giovanile di Tiziano e la Venere che benda amore che aiutano a capire come la pittura di soggetto profano del tardo Cinquecento attirasse tanto l’interesse di artisti fiamminghi come Antoon van Dyck ed altri. E facendo riferimento a Tiziano si può affermare che l’elemento di questa attrazione è la sensualità con cui l’artista raffigura i personaggi del mito, in particolar modo Venere e Cupido. E Rubens eredita e condivide le pitture e sculture di soggetto profano del tardo Cinquecento come si può constatare ammirando i suoi due olii su tela: le Tre Grazie ed il Giudizio di Paride (Prado, Madrid), un soggetto quest’ultimo, che ripete più volte nel corso della sua carriera. Questa versione del Prado ci mostra un altro aspetto della sua indagine dell’antico: troviamo figure eleganti e allungate, che farebbero pensare a una rivisitazione in chiave manierista e nordica della contesa fra le dee, finita, ancora una volta, con la vittoria di Venere. Ma non solo, il dipinto è pieno di nudi femminili e putti, la cui moda era esplosa a Roma nel 1598 quando, dal castello di Ferrara arrivarono alla Collezione Aldobrandini i Baccanali di Tiziano.
E sono proprio i putti i protagonisti di alcuni pregevoli rilievi presenti nella mostra come il Baccanale di putti di Giovanni Campi (marmo nero e lapislazzuli, 1649-1650, Galleria Borghese) ed il Sileno ebbro con Egle e putti di Duquesnoy e Michele Sprinati (bronzo dorato e lapislazzuli, 1664-1665, Anversa, Rubenshuis).
Sono così giunta alla fine di questa mostra davvero gradevole, per l’armonia creatasi tra le opere esposte e quelle della collezione permanente. Ma non solo. Si tratta di una mostra che, se da un lato consente di toccare con mano lo straordinario contributo dato da Rubens alle soglie del Barocco grazie alla sua nuova concezione dell’antico e della sua idea di naturale ed imitazione, dall’altro offre l’opportunità di approfondire un periodo aureo della storia artistica di Roma, quando grazie ai pontificati Aldobrandini e Borghese, la città diviene letteralmente una “calamita” per gli artisti del Nord Europa.
Esco appagata da tanta bellezza ma soprattutto accresciuta di conoscenze… E più conosco e imparo più ho voglia di imparare… Eh, il potere dell’Arte!

Il mio talento è tale che nessuna impresa, per quanto vasta di dimensioni, mai supererà il mio coraggio” (Pieter Paul Rubens)