Domenica 24 marzo 2024, Domenica degli Olivi, o delle Palme
LA LIBERTÀ: UNA VISIONE SERIAMENTE LAICA
Ripubblichiamo qui l’articolo di Franco Cardini già edito su “La Stampa” del 20.3. u.s. per aprire un dibattito sul tema del corretto concetto di Libertà.
ODIO LE TUE IDEE: TI PREGO, ESPRIMILE
“Venite pure avanti – graziose mascherette! – È aperto a tutti quanti: Viva la Libertà!”. Siamo verso la fine del primo atto del “dramma giocoso” KV 527, Il dissoluto punito, ossia Don Giovanni, musica di Wolfgang Amadeus Mozart su libretto in italiano di Lorenzo Da Ponte, rappresentato la prima volta allo Stavovské Divadlo di Praga il 29 ottobre del 1787. Alla vigilia della Rivoluzione francese, appare quasi profetica questa gloriosa apologia della libertà posta sulle labbra di un impenitente libertino assuefatto all’omicidio, al tradimento e allo stupro.
È evidente che il “libertino” qui presentato poco ha a che fare con la pur contestabile eppur nobilissima filosofia d’origine scettico-razionalistica di Pierre Bayle, di Pierre Gassendi e di Cyrano de Bergerac, il libertinage erudit; ma è pur vero che alla fine del XVIII secolo, quel termine era comunemente inteso come un atteggiamento segnato da un disprezzo delle norme e delle convenzioni spinto fino all’eccesso, alla bestemmia e al crimine; ed è pensando a quest’insieme di antivalori che la povera, buona Madame Marie-Jeanne Roland denunziava nel 1793, ai piedi del patibolo giacobino, con la frase destinata a restar celebre: “Oh, Libertà! Quanti delitti si compiono in tuo nome!”. Erano passati appena sette anni da quando il “Viva la Libertà!” del grande seduttore era risuonato per la prima volta in quel teatro di Praga, capitale di un regno il sovrano del quale era il fratello di un’altra illustre decapitata del ’93, Maria Antonietta.
Oggi, a quasi due secoli e mezzo da quegli eventi, si continua a discutere della libertà, delle sue molte accezioni, degli immensi valori e degli enormi malintesi ch’essa comporta. La Libertà assoluta e illimitata dei libertini era qualcosa d’inattingibile o frutto di privilegi iperbolici che si traducevano nell’ingiustizia diffusa e nella schiavitù delle moltitudini. La vita democratica dei nostri giorni, vissuta nella diffusa consapevolezza della sua eterna e insopprimibile imperfezione eppure nella non meno generalizzata convinzione della sua necessaria perfettibilità, può svilupparsi e affermarsi solo nella misura in cui se ne tracciano limiti espliciti e condivisi. Sub lege Libertas è antico e inaggirabile motto latino: non esiste libertà senza confini; e negare questi significa, in realtà, negare quella.
La cronaca di questi giorni ci pone con inesorabile generosità dinanzi a questi vecchi problemi, mai risolti in quanto in realtà irrisolvibili se non affrontati alla luce di equilibrio e concretezza. È evidente che siamo di fronte a un problema storico, che come tale non può non essere che relativo. E affermare ciò non è affatto relativismo: è relatività. Gli assoluti lasciamoli alla metafisica e al massimo alla filosofia: il regno della Storia (e della politica) è quello del relativo, quindi del possibile e del sostenibile. Quando si parla seriamente di storia e di politica, ci sono due avverbi che non si possono né si debbono usare: il sempre e il mai.
Ammettiamo adesso che nella democratica Italia esista una scuola nella quale la maggioranza degli studenti segua una religione che interessa milioni di persone ma non è la più diffusa del Paese e pertanto celebra ad esempio ricorrenze religiose di cui il Paese non riconosce il valore festivo. È evidente che non si possono a cuor leggero proclamare nuove festività, e che in date del genere nessun dirigente scolastico ha diritto di chiudere i battenti sospendendo un pubblico esercizio e ledendo quindi i diritti dei cittadini nel loro complesso. Tuttavia l’autorità scolastica, e a fortiori il ministero, possono riconoscere come legittime le tradizioni e le aspirazioni religiose di minoranze, e alla luce di ciò, senza chiudere alcun istituto scolastico, riconoscere esplicitamente come assenze giustificate quelle di studenti le famiglie dei quali desiderino o comunque accettino che i loro ragazzi si astengano dalla scuola in coincidenza con quella che per loro è una festività o una ricorrenza importante. Solo nel caso in cui le condizioni attuali cambiassero, si potrebbe pensare alla codifica del quadro giuridico di fondo, ma ciò non è per ora necessario, né è prevedibile lo divenga a breve.
Diverso è il discorso a proposito di quel ch’è legittimo condannare e proibire in termini giuridici nel campo della libertà di pensiero e d’espressione. Anche in quel caso, il quadro di riferimento non può prescindere dai condizionamenti della relatività storica e politica. La nostra Costituzione datata 27 dicembre 1947, ad esempio, prevede in chiusura 18 Disposizioni transitorie e finali (espressione caratterizzata in verità da due aggettivi, il contemporaneo uso dei quali può dar adito ad ambiguità), la dodicesima delle quali vieta “la ricostituzione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Va riconosciuto che i termini del divieto sono perentori, ma per nulla chiari. Si allude al PNF del 1921-1943 o al PFR del 1943-1945, o si considerano globalmente entrambi? E alla luce del dettato della dodicesima disposizione, sino a che punto la sua transitorietà veniva riconosciuta valida, e in che rapporto ciò stava con l’uso del successivo aggettivo “finale” (in senso propriamente “definitivo” o semplicemente “conclusivo”?).
Ad ogni modo, è evidente che quella disposizione non ledeva in nulla il diritto di libertà d’opinione: si era perfettamente liberi di dirsi e di considerarsi fascisti, anche se il divieto colpiva la volontà di organizzarsi politicamente in modo coerente rispetto alla propria libera opinione. Ma il divieto di libera organizzazione non lede forse in qualche modo concretamente la libertà d’opinione? E anche se così non fosse, resterebbero dei dubbi su provvedimenti legislativi più tardi presi in conseguenza di quella disposizione costituzionale – dall’apologia di fascismo della cosiddetta “legge Scelba” in poi – che lasciavano in ombra quel che concretamente poteva venir punito, configurando de facto un costituzionalmente illegittimo “delitto d’opinione”. Concludiamo. Si afferma di solito, anche con molta baldanza, che tutte le opinioni sono degne di rispetto: il caso del “fascismo” (che alla luce dell’odierno dibattito tra gli specialisti e della polemiche mediatiche d’ogni genere è in realtà un Oggetto Misterioso sempre più ambiguo e difficile da definire, uno spettro che si aggira nell’opinione pubblica mondiale ancor più terribile ma anche ben più refrattario a definizioni condivise di quanto il comunismo non fosse nel 1848) dimostra che così non è. Ed, esattamente come Marx ed Engels osservavano nel 1848 a proposito del comunismo, non c’è nessuno o quasi che non sia stato almeno una volta trattato da fascista dai suoi avversari, e non abbia magari ricambiato la cortesia.
Bene, io no. Io non ci sto. Secondo me non è affatto vero che tutte le opinioni siano ugualmente degne di rispetto. Ve ne sono certe che io non ho alcuna intenzione di rispettare, e mi vergognerei se lo facessi. Quel che bisogna sempre e comunque rispettare è la persona umana: e rispettare significa non già accettare come plausibile qualunque credo religioso, o posizione ideologica, o opinione politica, bensì consentire a chiunque di esprimer liberamente e serenamente il suo pensiero, chiedergliene conto con rigore, nel quadro di leggi che siano esplicitamente accettate e condivise e i limiti delle quali non siano negoziabili. In ciò io, cattolico e uomo d’ordine, mi riconosco. Non già nel laicismo peloso di chi scandalizzato cerchi di vietare le idee che non gli piacciono, ma nella schietta laicità di chi, prendendo atto delle opinioni altrui ch’egli non condivide, le sottoponga a libera e rigorosa discussione.
(La Stampa, 20 marzo 2024)