Minima Cardiniana 460/5

Domenica 24 marzo 2024, Domenica degli Olivi, o delle Palme

VELA A MOMPRACEM
LO SPAGNOLO
di Luigi G. de Anna
Non ho mai saputo come si chiamasse. A dire il vero non glielo avevo neppure mai chiesto. Per me era semplicemente “lo Spagnolo”. Parlava un italiano perfetto. Solo una lievissima inflessione nell’accento rivelava la sua origine ispanica. Di media statura, di corporatura robusta, che però degenerava in una pinguedine accentuata, aveva due baffetti grigi che ne incorniciavano il viso affilato come hanno spesso gli andalusi. Camminava ciondolando, e questo non so se fosse per via di qualche acciacco che aveva alla sua età, o perché avesse navigato per tanti anni. Era stato infatti imbarcato sulle petroliere che fanno la spola tra gli emirati e l’America. Aveva iniziato da giovane, come marinaio, poi via via era salito di grado, fino a diventare comandante.
O almeno questo era quanto mi aveva raccontato. A dire il vero a volte pensavo che quanto mi raccontava dei suoi viaggi non fosse tutto frutto di una sua esperienza personale, ma anche, non dico soprattutto, di letture fatte durante le lunghe ore di guardia su una petroliera.
– In Congo avevo un’amante.
Non mi precisò in quale Congo fosse stato o come ci fosse arrivato.
– Quando in Africa sbarcavamo in un porto, il rappresentante dell’armatore ci consegnava due chiavi. Una era per il bungalow nel residence e l’altra per la Land Rover. Nel bungalow aspettava una negra.
Non mi piaceva che parlasse degli africani come “negri”, ma il suo riferimento non aveva nulla di offensivo, del resto aveva vissuto da giovane gli anni dell’ultima colonizzazione. Un giorno mi confessò che era stato nella Legione straniera spagnola. Anche questo lo presi senza crederci troppo, anche se sull’avambraccio aveva un tatuaggio con la scritta “Que viva el Tercio”. Quel tatuaggio lo avevo del resto visto, e poteva averlo visto anche lui, a Ceuta, dove nei bar sostavano i Legionari fuori servizio.
L’età dello Spagnolo non era facile da definirsi, il sole ne aveva inscurito la pelle, il viso era solcato da profonde rughe e da macchie, i capelli bianchi, ma ancora senza traccia di calvizie.
– Ho ottant’anni – ammise quella sera mentre bevevamo una seconda caraffa di sangria sulla veranda di un ristorante di Macao.
Lo ripeté in portoghese, lingua che gli era pure familiare.
– Mia madre era una de Gomera.
Io pensai subito a Yanez, l’eroe di cui avevo tanto letto da ragazzo. Si era inventato anche questo?
Gli feci i miei complimenti, non li dimostrava affatto.
– Obrigado… ma tanti sono e altri verranno…
Disse questo con un sorriso che non nascondeva una punta di amarezza.
Gli chiesi se era sposato.
– No. O meglio, lo sono stato. Avevo una moglie a Siviglia, ma morì alcuni anni fa.
– E figli?
– Una figlia sposata da qualche parte da voi, in Italia.
Mi sembrava che non fosse particolarmente interessato a parlare della famiglia. Chi sta per lungo tempo lontano dalla propria casa ha di queste reticenze.
– Ho una donna a Singapore.
– Giovane?
– Ha cinquant’anni meno di me. Ci vediamo di tanto in tanto. Quando arrivo a Singapore la chiamo, e andiamo insieme da qualche parte, Bali, Giava, il Borneo…
Lo Spagnolo doveva aver maturato una buona pensione per permettersi questi viaggi, ma non solo i viaggi. Anche le donne. Infatti, quando ci incontrammo, questa volta per caso, all’hotel Nana di Bangkok (eravamo seduti sulla veranda e ci passavano davanti vecchi farangs che tenevano per mano giovani donne ingaggiate lì all’angolo del Nana) mi disse che presto sarebbe andato in un’isola del sud della Thailandia con una ragazza.
Ero incuriosito.
– Chi è?
– È quella dalla pelle scura, quella che sta giù davanti alla porta del parlour dell’hotel.
– Mi pare di conoscerla. Si chiama Tau?
– Sì, è lei.
E lo Spagnolo mi disse che ogni volta che veniva al Nana ne ingaggiava una e la portava in vacanza con lui in qualche posto di mare.
– Naturalmente la pago.
Il prezzo che mi disse era piuttosto salato, ma le ragazze del Nana sono giovani e belle.
– E la donna di Singapore?
– La vedo alla fine del mese, andiamo per due settimane a Phuket.
Lo Spagnolo amava il mare, evidentemente, ma anche le donne. Soprattutto quelle giovani, infatti…
– A Vientiane mi aspetta Dan, la vedo il mese prossimo.
Cominciavo ad essere un po’ confuso. Cercai di fare il conto: una a Singapore, una lì al Nana, un’altra in Laos. Scherzando dissi:
– E in Vietnam non hai nessuna?
– Certo, si chiama Veronica.
– Un nome strano per una indocinese.
– È cattolica. I cattolici prendono un nome cristiano.
È vero: in Vietnam i missionari avevano seminato bene.
– Veronica è una Hmong.
Gli Hmong, un’etnia delle montagne, avevano combattuto a fianco degli Americani durante la guerra, una buona parte di loro lasciò il Vietnam dopo il 1975.
Lo Spagnolo guardava nervosamente l’orologio.
– Devo andare, l’insegnante mi aspetta.
– Prendi lezioni di thai?
Lo Spagnolo rise di gusto.
– Non proprio…
A questo punto avevo decisamente perduto il conto.
– Permettimi di dirtelo: ma come puoi gestire tutte queste donne?
– Quando comandavo la nave dovevo programmare accuratamente la mia attività – rispose con sicurezza.
– Ma destreggiarsi tra tante donne non deve essere semplice, anzi alquanto impegnativo, e, direi, anche alquanto costoso…
– Ci sono abituato qui in Asia. Sono soldi ben spesi, del resto.
– Ma le Thai e le Indocinesi in generale sono possessive e tendono a desiderare di stringere un legame definitivo con il farang.
– Lo so benissimo.
– Non pensi che le stai ingannando?
– No, pago per il tempo che mi dedicano.
– E la maestra? Lei certamente non prende soldi.
Lo Spagnolo alzò le spalle. Non doveva porsi il problema.
– Insomma – insistetti – non mi pare molto onesto un comportamento del genere. Giochi con i loro sentimenti.
Lo Spagnolo sembrava leggermente adombrarsi per le mie osservazioni.
– Lo faccio perché ho ottant’anni.
La risposta non mi sembrava essere molto congruente.
– Appunto, ma non sarebbe opportuno alla tua età trovare la donna adatta che ti stia accanto negli anni della vecchiaia? Le Thai e le Indocinesi sanno prendersi molto bene cura di un compagno anziano – dissi, forse pensando proprio a me stesso.
– Ma io non sono anziano.
Non replicai (non volevo fargli ribollire il sangue andaluso) che a ottant’anni si è decisamente anziani.
E continuò:
– Dopo la morte di mia moglie lasciai Siviglia, viaggiai in Spagna e Portogallo. Ma non mi bastava. Volevo qualcos’altro.
– Una donna?
– Molte donne – rispose con sicurezza. – Sto vivendo una nuova vita.
Non lo dissi, ma pensai che a ottant’anni una nuova vita non è facile da inventarsi, esistono limiti biologici.
– Mi fanno ringiovanire.
E lo Spagnolo concluse la nostra conversazione. Infilò sotto la tazzina del caffè una banconota da mille baht (avevo notato che non badava a spese) e si alzò.
– La mia maestra mi aspetta.
E se ne andò con la sua andatura ciondolante da vecchio marinaio.
Non lo rividi per molto tempo. Ma qualche volte ripensavo allo Spagnolo. Spesso, avevo l’impressione che la mia vita a Chiang Rai si dividesse solo tra un ospedale e una clinica, pensavo ai miei acciacchi, al mio corpo che andava corrompendosi per il peso degli anni, e pensavo a quanto lo Spagnolo aveva detto congedandosi: “Mi fanno ringiovanire”. No, caro amico, non esiste la fontana della giovinezza da nessuna parte, e soprattutto non lo sono queste giovani donne.
Ero in convalescenza. Il Covid, quel dannato virus, mi aveva colto, e per alcuni mesi non feci altro che tossire, il naso colava come un vecchio rubinetto, i muscoli mi dolevano.
Quella sera me ne stavo sulla veranda di casa nostra. L’inverno è addirittura freddo a Chiang Rai. Una coperta di lana mi teneva al caldo le gambe. Teeng aveva preparato la cena, leggera, perché il mio stomaco non era ancora del tutto a posto.
Al cancello, che lasciamo aperto, apparve una figura. Un uomo di bell’aspetto, sulla quarantina, o almeno così mi sembrava. Con incedere sicuro attraversò il giardino.
Ora la luce della veranda lo illuminava. Ma chi era? Mi sembrava di conoscerlo, c’era qualcosa di familiare in lui.
Era… sì certo, era…
I capelli scuri, la pelle del viso liscia seppur abbronzata. I muscoli delle braccia straripavano dalla polo. Non sentiva freddo, Una folta barba nera gli incorniciava il viso.
Lo Spagnolo si avvicinò.
– Comandante, chiedo il permesso di salire a bordo – disse con una voce profonda dal timbro metallico.
– Permesso accordato.
Lo guardai con invidia.
Aveva veramente trovato la fonte della giovinezza.

CARTOLINE DA BANGKOK
di Paolo Piazzardi
Pubblichiamo un ricordo “thailandese” di Paolo Piazzardi, già Addetto culturale presso l’ambasciata d’Italia a Bangkok, autore di articoli e monografie sugli italiani che vissero ed operarono in Siam.
Vivere di ricordi quando non si è mai partiti non è cosa semplice.
Un solo esempio sia sufficiente: Marcel Proust.
Se non avesse lasciato la piccola Combray delle sue vacanze, non avrebbe ricordato con tanta nostalgia la fragranza delle sue “petites madeleines”.
Né, aggiungiamo noi, scrivere un giorno al parroco “I veri paradisi sono i paradisi perduti”.
Ma dopo tutti questi anni trascorsi in Thailandia – ricchi di fatti, di volti, di situazioni – non ci si può esimere dal ricordo. Anche se, è stato detto, non si è mai veramente partiti.
Ma procediamo con ordine.
Ritorna in mente il commento di casa sul mio trasferimento da Los Angeles a Bangkok: “In Thailandia? Dov’era morta la povera Vincenzina Virando?”.
Ecco: quando si parte alla volta di altri mondi, quando forte è il timore di perdersi, tra genti e strade sconosciute, si avverte forte il bisogno di un’iniezione di ottimismo. L’avevo avuta? Non è dato sapere, neppure anni dopo.
Ma chi era la “povera” dalla quale stavo per ricevere un simbolico “passaggio di consegne”?
Italia, fine anni trenta. Non si è ancora placata l’eco del “caso Bruneri-Canella”, ossia dello “smemorato di Collegno”, che il Piemonte torna prepotentemente alla ribalta della cronaca giudiziaria.
Il 23 novembre 1938 la moglie del diplomatico Ettore Grande viene trovata esanime a Bangkok. Tre ferite di arma da fuoco avevano posto fine alla vita della fragile Vincenzina Virando, “madamin” della buona borghesia torinese, figlia di noto e facoltoso gioielliere.
Con ben poco entusiasmo, aveva seguito il marito in oriente, viceconsole nel Siam. In pratica era un addio alla “Torino-bene”, con i suoi rassicuranti rituali: “bicerin” da Peyrano, agnolotti al Cambio – ristorante preferito di Cavour – “effervescente” al Parco del Valentino.
Il tutto aggravato da un clima pestifero, da stormi di zanzare, da una residenza che non reggeva il confronto con la sua villa sulle colline torinesi. Il fatto è che nella donna c’era – come si potrebbe dire? – una tendenza alla lamentazione, al bicchiere mezzo vuoto.
E dire che le cose non stavano proprio così: altre memorie – di artisti ed architetti suoi concittadini (Tamagno, Manfredi, Rigotti, Ferro), giunti nel Siam prima di lei per creare opere di rara bellezza – evocano sentimenti opposti: stupore e nostalgia di un regno di fiaba.
In questo quadro, a tinte fosche dicevamo, viene perpetrato un crimine che, considerato lo stile di vita appartato di Vincenzina, si direbbe maturato in ambito ristretto. Sarà davvero così? Il processo che si celebra in Italia contro Ettore Grande vede il ritorno in aula dei due schieramenti di Bruneri e Canella. Sempre gli stessi: innocentisti o colpevolisti.
Il primo verdetto è di condanna. Poi, alla Corte d’Assise di Novara il colpo di scena: Ettore Grande assolto con formula piena e reintegrato in servizio, con il calcolo delle spettanze arretrate.
Cos’era successo? Il perito balistico era riuscito a rovesciare il verdetto, dimostrando l’“indimostrabile”: con tre colpi di pistola si può ancora parlare di suicidio.
Per uno scherzo del destino la morte (naturale) di Grande sarebbe stata “triplice” anche per lui: fonti d’archivio ed agenzie di stampa lo avevano collocato “ad eterno riposo” con decorrenze diverse. La confusione regnava sovrana.
Questi i ricordi furono a me affidati da una “fonte” d’eccezione: Khun Maly, figlia dell’arch. Ercole Manfredi, artefice dei maggiori edifici della Bangkok del primo Novecento.
– Ma se non è stato lui, allora chi? – incalzavo io, avido di indiscrezioni, svelate a me soltanto.
– Luí! (con accento francese)
– Lui chi?
– Lui, luí: le chauffeur. Comme on dit en Italie?
Il segreto, ormai non più tale e alla portata di tutti, mi lascia perplesso, per non dire deluso.
I miei sospetti, dopo i romanzi di Agatha Christie, erano tutti puntati sul maggiordomo.
Una triste storia, ça va sans dire.
Un viatico per la mia “missione culturale” in questo Paese.