Minima Cardiniana 460/6

Domenica 24 marzo 2024, Domenica degli Olivi, o delle Palme

ARTE, ARTE E ANCORA ARTE
LA DOMENICA DELLE PALME NELLA PITTURA
di Eleonora Genovesi

Se un pagano viene e ti dice: Mostrami la tua fede!, tu portalo in chiesa e mostragli la decorazione di cui è ornata, e spiegagli la serie dei quadri sacri” (Giovanni Damasceno)

Siamo così giunti alla Domenica delle Palme che celebra l’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme per poi andare incontro alla morte. Una giornata dalla celebrazione potente, che ci entra dentro non lasciandoci indifferenti.
È allo stesso tempo l’ora della luce e l’ora delle tenebre. La Luce dell’istituzione del sacramento della comunione, la tenebra del tradimento che simboleggia la fragilità umana.
La Domenica delle Palme, il momento più festoso delle celebrazioni quaresimali, rievoca l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme in sella ad un asino, in mezzo ad una folla osannante, che al suo passaggio stende mantelli per terra agitando festosamente rami di palma e di ulivo.
La celebrazione di questa domenica che precede la Pasqua, che accomuna cattolici, protestanti e ortodossi, riproponendo l’ingresso del Nazareno a Gerusalemme è antichissima, datata IV secolo.
La tradizione di festeggiare le Palme si diffonde soprattutto in Oriente, fra l’Egitto e la Palestina, mentre a Roma, perché la processione diventi una consuetudine bisognerà attendere il X secolo. Protagonisti di questa domenica sono la palma e l’ulivo accomunati dall’avere una forte valenza simbolica.
La prima mette una foglia al mese ed indica quindi l’anno solare sin dal tempo degli Egizi. Ma il motivo per cui è fortemente legata ai riti della Resurrezione dalla morte è dovuto al termine greco con cui la palma viene indicata: phoenix, cioè fenice, animale mitologico che rinasce dalle sue ceneri. In quanto all’ulivo, che compare nelle celebrazioni anche per motivi geografici (è molto più diffuso della palma nell’Europa mediterranea), esso è legato alla figura di Cristo: Kristòs in greco significa unto ed è proprio con l’olio che la Chiesa unge battezzandi e infermi.
Dunque anche in questo caso vi è un forte legame fra la pianta e i riti di nascita e morte.
Il tema della Domenica delle Palme è un soggetto molto trattato in arte.
L’Arte e la religione hanno da sempre avuto un rapporto molto stretto, dai minareti islamici alle incisioni del Buddha, passando dalle opere cristiane, copte, greche, tibetane, divenendo così simbolo di adorazione, ammirazione e talora polemica. E non solo: possiamo ritrovare atavici connotati religiosi già nelle pitture rupestri. Ma parlando del profondo legame tra l’Arte e la religione cristiana va detto che nel Cristianesimo, a differenza della religione islamica, l’espressione artistica ha tessuto un legame molto profondo tra l’uomo e Dio: un legame così potente e libero al punto di essere stato spesso oggetto di critiche, censure e persecuzioni da parte degli stessi esponenti religiosi.
Arte e religione sono entrambe profonde espressioni della libertà dell’uomo, una libertà che si spinge oltre i confini dell’animo umano, arrivando talora a percorrere terreni caotici ed inesplorati. In altre parole, arte e religione sono la manifestazione di quella libertà espressiva così esclusiva e rivoluzionaria dell’essere umano, una libertà che cerca di dare ordine e senso all’infinito caos dell’esistenza.
E questo profondo legame tra l’arte ed il sacro prosegue anche oggi, in un’epoca di pluralismo culturale e rivoluzioni digitali, grazie ad artisti contemporanei che stanno reinterpretando la simbologia religiosa con modalità che riflettono le sfide e le complessità del nostro tempo.
Dunque anche l’arte contemporanea, vista molto spesso come un terreno di sperimentazione e di rottura con il passato, si sta avventurando in un dialogo con il sacro, che è tanto audace quanto rispettoso.
Fatta questa necessaria premessa torniamo ora al tema iconografico della Domenica delle Palme.
Gesù viene accolto come un re al suo ingresso a Gerusalemme. Un sovrano che ha a cuore gli ultimi e i poveri e si pone al loro stesso livello visto che entra in città, non in groppa ad un cavallo, ma a cavalcioni di un asinello, segno di mitezza ed umiltà. Un’immagine questa impressa nella storia dell’arte.
Ed ora iniziamo questo nostro viaggio nel tempo esaminando opere che hanno come soggetto iconografico la Domenica delle Palme. Si tratta di opere importanti, non solo per la loro intrinseca valenza artistica, ma anche per l’essere un importantissimo registro documentario, poiché descrivono, specialmente nella comparazione fra le varie epoche, la variazione della concezione culturale e sociale delle materie spirituali.

La Domenica delle Palme nel mondo dell’arte
La Passione di Cristo ha inizio con il Suo ritorno a Gerusalemme. Questo episodio viene narrato da tutti e quattro i Vangeli canonici ed è proprio in quel momento che si realizza la profezia messianica di Zaccaria: “Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”.
Partiamo dal Sarcofago di Giunio Basso, praefectus urbis morto nel 359 d.C., opera di autore ignoto, ospitata nel Museo del Tesoro di San Pietro, in Vaticano.
Si tratta del più antico sarcofago cristiano di concezione classica, decorato su tre lati da rilievi con episodi biblici ed evangelici. Le scene, ripartite su due registri, sono inquadrate, secondo uno schema di origine orientale, all’interno di ricercate cornici architettoniche e colonne che dividono la parte frontale in tante piccole scene nelle quali prendono posto le figure, in genere non più di tre, che si presentano quasi a tutto tondo. Si tratta di una partizione ritmica dello spazio tipica dell’arte classica.
Tra le scene, tratte dal Vecchio e dal Nuovo Testamento, troviamo l’ingresso del Cristo a Gerusalemme che ci presenta Gesù con le sembianze di un fanciullo imberbe che cavalca un umile asino, mentre un uomo stende un mantello ed un altro si arrampica su un albero per poter vedere meglio.
La figura di Cristo, per i suoi lineamenti giovanili, per la rotondità del viso, per la pettinatura a paggio e per l’espressione raccolta, rientra nell’iconografia che si afferma intorno alla metà del IV secolo.
Molto bello anche il pannello centrale di un trittico in avorio, proveniente da Costantinopoli, risalente al X secolo in cui è riportata l’Entrata di Cristo a Gerusalemme, pannello che si trova nel Museo di Arte Bizantina a Berlino.
All’interno di un’elegante cornice costituita da 2 colonne che sorreggono un arco, vediamo, seguito dalla folla, Gesù in groppa ad un asino che sta per entrare a Gerusalemme.
Due giovani gli mettono un tappeto a terra mentre altri 2 salgono su un albero per poter vedere questo re che avanza. Sulla destra, con le mura di Gerusalemme sullo sfondo, troviamo un nutrito gruppo di persone. Osservando questa straordinaria opera si resta colpiti dal naturalismo con cui l’autore raffigura i personaggi: dall’espressività dei visi al realismo del panneggio fino alla disposizione delle figure in profondità servendosi, mi verrebbe da dire di una prospettiva intuitiva, così rara per l’epoca. Proseguendo il nostro viaggio nell’iconografia della Domenica delle Palme nell’arte, eccoci arrivati a Palermo nella bellissima Cappella Palatina del Palazzo dei Normanni. La Cappella, realizzata per sintetizzare le necessità liturgiche del rito latino e di quello greco, costituisce l’esempio più alto dal punto di vista storico-artistico, della convivenza tra culture, religioni e modi di pensare apparentemente inconciliabili, poiché, grazie alla sapiente gestione del potere di Ruggero II, furono coinvolte maestranze bizantine, musulmane e latine. Dire Cappella Palatina equivale a dire Mosaico poiché la Cappella ne è completamente rivestita.
La bellezza dei Mosaici della Cappella Palatina di Palermo è il risultato dell’incontro con Dio: ecco l’invisibile che si rende visibile all’occhio umano, per essere contemplato ed ammirato grazie all’intera sequenza di tutti i mosaici che rivestono interamente l’interno della Chiesa.
Qui l’elevazione dell’anima si coniuga con l’estasi del divino.
Nella parete meridionale del transetto, integralmente occupata dalla raffigurazione degli Episodi della vita di Gesù Cristo, troviamo l’episodio dell’ingresso di Cristo a Gerusalemme, un pregiato mosaico del XII secolo di un anonimo bizantino.
L’iconografia della festa della Domenica delle Palme risale al IV secolo e nel VI secolo prende la forma definitiva del gruppo degli Apostoli che seguono Cristo che cavalca l’asina verso il gruppo di ebrei che escono da Gerusalemme mentre dei fanciulli tagliano rami da un albero al centro della composizione ed altri che stendono drappi sotto la cavalcatura. Il gruppo di abitanti che va incontro a Cristo è raffigurato come un’immagine collettiva dell’esultanza del popolo fedele. Da notare la diversità delle espressioni dei volti: alla drammatica tensione del volto degli apostoli si contrappone la luminosità e la gioia dei volti del popolo che accoglie Cristo, esattamente come annunciavano le antiche profezie che in questo giorno si compiono.
I due gruppi dei discepoli e degli ebrei richiamano alla mente il concetto di Giovanni Crisostomo riguardo il popolo che si eleva spiritualmente divenendo uguale agli apostoli.
Dunque Cristo entra a Gerusalemme come il vero agnello, staccandosi dal bellissimo sfondo dorato con imponenza ma al contempo con umiltà, oggi Messia del nuovo regno, a breve vittima sacrificale. E allora: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!” (Marco 11).
Ma ora inizia il cambiamento: si passa dalla ieraticità dei mosaici bizantini ad un nuovo naturalismo come ci mostra l’Entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme, realizzata nel XIV secolo dal Maestro di Subiaco e ubicata nella Basilica Superiore del Sacro Speco di Subiaco. Questo affresco realizzato con grande abilità e passione ci restituisce una scena estremamente vitale in cui Gesù è accolto da fanciulli in festa, di cui uno suona con la sua piccola tromba, e da canti di giovani. Ma nei volti dei notabili della città è alquanto evidente il presentimento della imminente sciagura.
E il cambiamento prosegue con Giotto, la cui rivoluzione parte dalla pittura bizantina e dagli scultori delle cattedrali nordiche per giungere ad una prospettiva che, sebbene sia solo intuitiva, riesce a dare l’illusione di profondità in uno spazio bidimensionale. La massima espressione di questa rivoluzione del linguaggio pittorico apportato da Giotto è visibile negli affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova del 1303-1305, considerati espressione della maturità artistica di Giotto. Qui l’artista liberatosi da alcune esitazioni stilistiche presenti nel ciclo di Assisi, rende più sfumato il chiaroscuro dei suoi dipinti, ammorbidisce il suo modellato ed acquisisce maggior sicurezza nella resa anatomica dei corpi e nell’uso della prospettiva empirica ed intuitiva. Negli affreschi degli Scrovegni Giotto raggiunse un naturalismo eccellente nella rappresentazione della vita reale. Lo spazio immaginato si razionalizza e le architetture non sono più sfondi teatrali ma diventano immagini di ambienti concreti in cui gli uomini vivono.
Giotto ci racconta l’ingresso di Gesù a Gerusalemme per la Domenica delle Palme con grande naturalezza evidenziando la figura di Cristo che avanza verso la Porta d’Oro di Gerusalemme. La sua figura sovrasta le altre. Lo sguardo è fermo: Gesù è consapevole del suo destino che, una volta entrato in città, lo condurrà alla cattura e alla crocifissione.
La scena vede collocato sulla sinistra il gruppo dei discepoli preceduti da Gesù a cavallo di un asino e sulla destra la folla festante che esce dalla porta di Gerusalemme salutandolo con lo sventolio di rami di ulivo e di palma.
Sullo sfondo troviamo dei ragazzi che si arrampicano sugli alberi di olivo per raccoglierne i rami, quegli stessi rami di ulivo che ancora oggi vengono raccolti e benedetti nella Domenica della Palme nel mondo cristiano.
Tra la folla si vede una persona che si sta sfilando la veste, mentre un’altra prostrata a terra sta stendendo il suo mantello dinanzi a Gesù. Lo stendere i mantelli dinanzi a Lui è un’allusione al suo stato regale, così come avveniva in Oriente nei riti riservati ai personaggi importanti quale riconoscimento del loro status regale.
Da sempre la religione ha utilizzato il linguaggio dell’Arte per raggiungere gran parte delle persone, l’Arte quale Biblia Pauperum, perché attraverso l’arte il messaggio arriva in modo diretto ad ogni persona, senza alcuna mediazione.
Ma raramente nella storia dell’Arte, un artista è stato così incline come Giotto di Bondone a guardare all’umanità dei propri personaggi con tanta accondiscendenza.
Tuttavia questo specchio di vita non è fine a sé stesso perché la conquista della realtà cui è giunto l’artista ha per lui una chiara finalità morale. Il naturalismo di Giotto è messo interamente al servizio dell’uomo, della sua vita, delle sue emozioni.
Giotto volle e riuscì a calare l’evento divino in una dimensione umana che l’osservatore medievale poteva facilmente riconoscere e sentire propria.
Solo qualche anno dopo, siamo nel 1308-1311 sarà Duccio di Boninsegna a dipingere l’ingresso di Cristo a Gerusalemme, uno dei pannelli che l’artista realizza per le Storie di Cristo, all’interno della grande Maestà per il Duomo di Siena.
La novità di questo dipinto è nella modalità di rappresentazione. La scena dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme è raffigurata in verticale – non in orizzontale come Giotto – e, quindi, sottolinea la struttura architettonica delle mura della città. L’artista sfrutta la maggiore verticalità per dare maggiore spazio alla rappresentazione di un paesaggio che è un contesto urbano con chiari rimandi alle architetture della Siena dell’epoca.
Duccio di Boninsegna si rifà al Vangelo di Luca dove si narra che gli apostoli, ubbidendo a Cristo, presero un puledro ed un’asina e, dopo aver steso i mantelli sul cavallo fecero salire Gesù. Nell’Entrata a Gerusalemme del senese Pietro Lorenzetti, facente parte delle Storie della Passione di Cristo che l’artista affrescò nella Basilica inferiore di San Francesco d’Assisi fra il 1310 e il 1319, Gesù, avvolto in un mantello blu lapislazzuli bordato d’oro, catalizza l’attenzione dello spettatore mentre, benedicente, procede sul dorso di un asino. Lo seguono compatti i 12 apostoli. In prima fila si riconoscono, mentre discutono fra loro, il vicario Pietro ed il traditore Giuda già privo di aureola.
Dalla porta della città esce un’umanità variegata ritratta, come tutti i personaggi, con grande realismo.
Lorenzetti, come molti altri artisti che si sono confrontati con il medesimo soggetto, riprende l’iconografia del Cristo che avanza da sinistra verso destra, mentre, accompagnato dagli Apostoli, si dirige verso la porta di Gerusalemme da cui gli viene incontro una folla festante.
Così sulla destra del dipinto troviamo un uomo con il braccio allungato per staccare un ramo di ulivo al fine di rendere omaggio al re che sta avanzando. Ma c’è anche un bambino curioso che fa capolino tra le vesti delle persone che gli sono vicino. E poi altri che stendono a terra i propri mantelli, in segno di riverenza. Sullo sfondo di un cielo blu oltremare si staglia in uno scorcio, decisamente ardito per l’epoca, il contesto architettonico al cui interno si svolge la scena.
Lorenzetti grazie all’utilizzo di una gamma cromatica pregevole ci restituisce un clima gioioso che richiama alla mente le parole pronunciate dal profeta Zaccaria.
Decisamente particolare l’Entrata in Gerusalemme, uno dei pannelli dipinti dal Beato Angelico tra il 1451 ed il 1453 per l’Armadio degli Argenti, un porta-ex voto della basilica della Santissima Annunziata di Firenze. L’artista concentra la scena sul Cristo a cavalcioni sull’asino con accanto un piccolo puledro e sui due gruppi, apostoli a sinistra e folla che lo accoglie a destra, lontano dalle mura della città.
Per il frate domenicano Giovanni da Fiesole l’attenzione andava focalizzata sulla figura di Cristo e sul suo percorso e non sulla città. Molto particolare è poi l’Entrata di Cristo in Gerusalemme realizzata da Jacopo Zanguidi detto il Bertoja tra il 1568 ed il 1569, custodita nella Galleria Nazionale di Arte di Parma. Rappresentante dell’elegante Manierismo parmense derivato dal Parmigianino, Jacopo Zanguidi in questo piccolo dipinto rappresenta Gesù mentre entra a cavalcioni di un asino in Gerusalemme: la sua figura è al centro della scena e a sinistra si nota una figura femminile in posa statuaria. Accanto a lei due persone stendono per terra le stoffe per il passaggio di Cristo.
A destra, di spalle, un uomo sembra togliersi le vesti per sistemarle a terra. Tutt’attorno una folla di persone, alcune appena abbozzate, come fantasmi illuminati dalla luna.
Sullo sfondo le case della città, le colline ed un paesaggio che si rifà a quelli dei pittori fiamminghi che spesso il Bertoja prendeva come riferimento. In lontananza il cielo si accende di bagliori che vanno dai toni freddi dei verdi a quelli degli azzurri, come spesso accade nelle sue opere.
In questo dipinto l’artista si serve di una tecnica di grande libertà nei passaggi cromatici e pittorici, dosandoli con grande maestria per esaltare gli effetti di contrasto, mentre le figure allungate dai caratteri lievi e minuti sono frutto della Bella Maniera. Questa tela, commissionata a Bertoja da Alessandro Farnese, fratello del duca di Parma Ottavio, per l’oratorio romano dell’arciconfraternita di Santa Lucia del Gonfalone, di cui il cardinale era il protettore, testimonia la compresenza di diversi modelli figurativi da cui l’artista trae ispirazione e costituisce un’importante testimonianza dei suoi rapporti con la committenza romana.
Passiamo ora a parlare dell’Entrata a Gerusalemme di Anton Van Dyck, 1617, che si trova al Museum of Art di Indianapolis. Il pittore fiammingo aveva solo 18 anni quando dipinse quest’opera, eppure, a dispetto della sua giovane età, mostra già un’assoluta padronanza dei pennelli.
La cromia vivace risente della forte influenza di Rubens, del quale fu il principale assistente per diversi anni.
Cristo, così come ci viene raccontato dai Vangeli, fa il suo ingresso in città a dorso dell’asino circondato dai suoi discepoli e dalla folla che posa sul suo cammino dei rami, ma, a differenza di altri autori, Van Dick fa venire Cristo da destra e non da sinistra. Inoltre non si scorgono persone sugli alberi, manca il puledro sostituito da un uomo che porge un ramo di ulivo. Allievo di Rubens, Anton van Dick, in quest’opera, interpreta alla perfezione la corrente barocca insieme al luminismo caravaggesco.
Mi piace ora parlare dell’affresco realizzato tra il 1842 e il 1848 da Jean-Hippolyte Flandrin nell’abbazia di Saint-Germain-des-Prés a Parigi. Questo affresco, facente parte di un ciclo di affreschi con episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento, si trova su un lato del presbiterio della chiesa. L’intero programma iconografico è stato immaginato da Flandrin su consiglio del padre gesuita Charles, studioso specializzato in arte medievale: per questo motivo si notano negli affreschi, e in questo in particolare, elementi ispirati all’arte medievale, come per esempio la composizione prospettica e il fondo oro. Ma l’accurato studio dei gesti e degli atteggiamenti di ciascun personaggio insieme alla resa tecnica della figura umana sono la risultante dell’insegnamento di tradizione classica che Flandrin ricevette dal suo maestro Jean Auguste Dominique Ingres.
La scena evangelica, dipinta su fondo oro e impreziosita da arabeschi, evidenzia il centro di tutto: Cristo ripreso di profilo, sta entrando su un puledro, senza ostentazione, ma con autorevolezza, in una Gerusalemme di cui si vedono mura e costruzioni. “Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada. Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto”. Ogni personaggio esprime in modo diverso, estremamente personale la consapevolezza di star vivendo l’incontro della vita. A sinistra gli apostoli seguono il Maestro con passo solenne; a destra c’è chi prega, chi canta, chi si prostra a terra, chi alza il figlio; al centro guardano devoti; tutti cantano: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore”.
Del tutto diversa è L’entrata di Cristo a Bruxelles realizzata nel 1889 dal belga James Ensor, precursore dell’Espressionismo tedesco.
Ensor (1860-1949) è un pittore caratterizzato da una pungente carica satirica, amaro, dissacrante, dal forte simbolismo che talora sfocia nel grottesco.
Nel suo Ingresso di Cristo a Bruxelles Ensor opera una trasposizione temporale collocando il fatto in epoca moderna, in una città brulicante di folla, alla presenza di una banda di militari in divisa, in mezzo ad una eterogenea moltitudine di figure-fantoccio mascherate (la maschera, elemento surreale per eccellenza, ricorre spesso nei dipinti di Ensor), pupazzi inespressivi gelidamente ed ambiguamente sorridenti, mentre gli striscioni con le scritte ed i cartelli colorati conferiscono all’insieme l’atmosfera di una moderna manifestazione di piazza.
Al centro della grande tela, la figura del Cristo, l’unico personaggio dal volto umano perché coerente con il suo pensiero, avanza cavalcando un asino, il capo circondato da una anacronistica aureola, sommerso da una folla chiassosa e scomposta che lo priva di ogni carisma. Cristo, l’unico essere pensante, frustrato da una folla beffarda e irridente, seppellito dal grottesco corteo, non è più il simbolo della fede cristiana ma perde ogni valore ideologico per divenire pretesto di una critica della società moderna ridotta ad una congrega di fantocci urlanti e indifferenti, personaggi caricaturali volutamente volgari. Quest’opera altro non è se non una grande metafora dell’esistenza, in chiave parodistica, beffarda satira della società borghese, della vita, della morte, della fede e dell’ipocrisia, parafrasi dell’assurdità e dell’ambiguità della condizione umana.
Del 1915 è La vita di Cristo: entrata in Gerusalemme del danese Emile Nolde, esponente dell’Espressionismo tedesco. Nolde si interessò spesso a soggetti religiosi. Tuttavia fedele alla sua estetica conferisce all’immagine di quest’opera un tono quasi caricaturale al limite del grottesco.
Alla deformazione delle figure umane si aggiunge il modo inusuale con cui viene trattato il colore, pur restando aderente all’iconografia dei Vangeli.
Chiudo questo excursus con Gesù Cristo entra in Gerusalemme opera realizzata da Renato Guttuso nel 1987.
L’artista siciliano più che la processione evidenzia la festa movimentata. La tavola dai colori accesi e simbolici è costruita intorno allo sguardo che il Nazareno, in abito bianco, scambia con la donna in nero, al centro, sulla destra: il Cristo è luce per ogni persona.
In primo piano, sulla sinistra, una donna di bianco vestita, tra le palme, implora innalzando le mani al cielo quasi disegnando quelle del Cristo sulla croce. Con questa immagine Guttuso opera un evidente riferimento con la Maddalena della Crocifissione di Masaccio a Napoli.

Arte e Religione: un rapporto antico quanto forte
Credere e creare sono due atti fondamentali che l’uomo adotta per raggiungere la trascendenza, come affermava suggestivamente il poeta Paul Valéry, quando scriveva nei Cattivi pensieri che “il pittore non deve dipingere quello che vede, ma quello che si vedrà”. In questa luce, arte e fede fanno germogliare e custodiscono nel loro grembo un messaggio, una verità alta ed efficace; non interpretano soltanto, ma rivelano e “creano un mondo”, per usare un’espressione del filosofo Martin Heidegger.
Concludo con le parole della Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II: “La vostra arte contribuisca all’affermarsi di una bellezza autentica che, quasi riverbero dello Spirito di Dio, trasfiguri la materia, aprendo gli animi al senso dell’eterno”.

L’ardente desiderio, infatti, può, anche quando la realtà sperata è lontana, mettere in comunione con essa attraverso l’immaginazione” (Isacco di Ninive monaco, mistico, religioso, vescovo di Ninive, 640-700).