Domenica 7 aprile 2014
Domenica in Albis o “della Divina Misericordia”
Seconda Domenica di Pasqua; San Giovanni Battista de La Salle
VELA A MOMPRACEM
PASQUA
di Luigi G. de Anna
Teeng non è sicura dove deve svoltare.
– Segui quel pick-up.
Mi pare il consiglio più utile. Sul pianale dell’Hilux svettano copricapi colorati.
– Vanno anche loro alla chiesa di Mäe Chan.
Nel Paese del 98 per cento della popolazione saldamente buddhista, la Pasqua cattolica è un evento colorato.
– Lusia mi ha detto che ha finito di colorare di rosso altre uova. Ci aspetta.
Teeng ha appena risposto al cellulare.
Ed eccoci al bivio. Si vede bene svettare su un poggio la sagoma della chiesa di Mäe Chan, protetta da una enorme statua del Cristo benedicente. Un Cristo caucasico, biondo, forse ha anche gli occhi azzurri, e qui di biondi caucasici non ce n’è neppure uno. Neppure i due sacerdoti officianti, che sono di I-san.
La strada sterrata che porta alla chiesa si riempie di polvere; lunga la fila dei pick-up. Convergono qui gli Akha delle montagne vicine, ma vengono anche da villaggi più lontani e isolati. A Chiang Rai c’è la diocesi, ma nella sua chiesa ci vanno i Thai e i Filippini. La Pasqua è un affare di famiglia, e qui a Mäe Chan le famiglie si ritrovano.
La chiesa è già piena, ma Lusia ci ha riservato un posto. Teeng è un po’ imbarazzata, è già stata con me alla Messa di Natale, ma qui è come entrare in una sagra che non le appartiene, lei fedele devota del Theravada. Ma i Thailandesi sono persone discrete, ti mettono subito a tuo agio.
– Quell’affresco rappresenta Gesù che…
Teeng non è interessata alle mie spiegazioni iconografiche, guarda piuttosto in giro. Dove è finita Lusia?
– Eccola!
Lusia è un po’ deludente. Non è vestita da Akha.
A dire il vero poche sono le donne col completo tribale, il vestito con la casacca colorata, la gonna al ginocchio, i gambali. Vedo solo pochi copricapo, quelli con le monete e le palline d’argento e i fiocchi che scendono sulle spalle.
– Pesano…
La spiegazione di Lusia è logica, ma penso ci sia anche un altro motivo. Il copricapo degli Akha è l’elemento costituente della loro identità etnica (più semplice quello degli uomini), un’identità che per secoli passava per l’animismo, per lo sciamano del villaggio, per i sacrifici rituali.
– Forse non vi volete più identificare con questa vostra tradizione.
Con Lusia, anche per motivi prettamente linguistici, è difficile fare discorsi troppo articolati, e poi siamo già in chiesa, meglio non disturbare.
La questione del copricapo mi incuriosisce. Insomma, mi pare evidente: quel monumentale orpello, che Lusia mi ha detto può pesare anche cinque chili per via di tutto l’argento che il benessere familiare ci ha investito, è eredità tribale; se vogliamo, eredità pagana. E alle cattolicissime donne Akha si adatta meglio il velo delle nostre fedeli, di pizzo bianco o nero. Che molte hanno. Ma in altre, l’identità riappare sotto forma di scialli annodati intorno al capo, colorati come una tovaglia da trattoria. Il paragone è un po’ dissacrante, ma non ne trovo uno migliore. Segno distintivo comunque lo è, infatti lo vedo anche nelle donne che vanno a fare la spesa al vecchio bazar di Chiang Rai.
– Che belle borse!
Teeng ammira di sottecchi le borse che portano, sia le donne, sia gli uomini.
Sono quelle policrome che si vendono oggigiorno ai turisti nei negozi e nei bazar di Chiang Rai e di Chiang Mai, anche loro adorne di monete (false) d’argento e di palline, perline e conchiglie. Uomini e donne hanno in grande maggioranza anche casacche listate di nastri colorati, con ricami che devono impegnare, quando fatti a mano, per molte sere dell’inverno.
Lusia nota che sono più interessato all’abbigliamento che alla liturgia e mi dà col gomito un leggero segnale. Che cattolico sono?
È la prima volta da quando vivo qui che mi sento orgoglioso di essere cattolico. Entro spesso nei wat, i templi buddhisti, e mi sento un estraneo, non capisco nulla del loro pali, e non riesco neppure a starmene in ginocchio. Qui almeno gli affreschi della Via Dolorosa mi sono familiari, ne seguo la sequenza, che cerco di spiegare sommessamente a Teeng. Nel wat guardo gli affreschi, e le storie del Gauthama non riesco proprio a decifrarle.
– Come cantano bene.
Teeng ha ragione, e non è solo un canto, è un inno di gioia, potente, robusto, in una lingua virile, assolutamente convincente di una Fede che, temo, da noi, abbiamo perduto, in una Chiesa distratta da temi e argomenti terribilmente mondani. Qui si va al sodo, alla Fede che viene dal cuore.
Li ammiro. Cantano come un esercito prima della battaglia, rombano, veloci, come un fiume in piena.
Passata la colletta, molti si dileguano.
– Dove vanno?
– Aspetta un momento – dice Lusia.
Ed eccoli che tornano. Tanti.
– Portano cibi per i bambini dell’orfanatrofio, quello dietro la Chiesa.
E vedo sciamare verso l’altare vassoi di uova rosse, sacchetti di bevande colorate, carne essiccata, erbe cotte, dolciumi, ma non tutti se lo possono permettere, e qualcuno porta, dignitosamente nella sua povertà, anche i suoi pacchetti di “mama”.
La predica è, come sempre, troppo lunga, stando almeno ai criteri dell’impaziente cattolico d’Occidente. Tutti ascoltano devotamente. Già, ma quanti capiscono? E non dico solo quanti capiscono il thailandese, ma anche quella storia di un Cristo e di una Maria Maddalena, di un Sepolcro che sta in una Terra che neppure sanno dove si trova. Cuius regio eius religio. Non sarebbe più giusto continuare la religione degli avi, quella appunto del numen loci, degli spiriti buoni e meno buoni, dei tabù, anche crudeli, come quelli che obbligavano ad uccidere i bambini nati gemelli o deformi? Che ne sanno questi contadini del peccato, loro che beatamente a quindici anni fanno già figli dopo una rapida visita nel bosco, queste ragazze che una volta giravano nel villaggio a seno scoperto, ma, arrivato il missionario, gli ha messo il reggipetto.
Quest’ultimo pensiero, decisamente disdicevole, mi riporta alla realtà che mi sta intorno. Una nuova Fede, radicata qui solo da decenni e non da secoli, che ha portato dignità alla donna, speranza agli uomini di essere uguali agli altri abitanti di un Paese che non era il loro. Una Fede che spinge, come un rigoglioso torrente, questa gente a prendere la Santa Comunione.
– Vanno alla Santa Comunione.
– Santa Papà?
Teeng ha capito male.
Katai, nel parlour dove lavora Teeng, tiene sul muro il ritratto del Santo Padre. Lo indicò un giorno a Teeng e disse: “Santa Papà”. Insomma, il Santo Padre era diventato un incontro tra Santa Claus e un benevolo papà, che poi è il padre di tutti gli Akha.
Arriva il segno della pace. E qui invidio questo popolo felice, che invece di darsi scioccamente la mano o, peggio, di abbracciarsi, congiunge le mani nel wai, il saluto thailandese.
La Santa Messa finisce.
Fuori vengono distribuite le uova colorate di rosso. Rapidamente gli Akha risalgono sui pick-up e ripartono.
Noi, con Abu, la vicina di Lusia venuta da Bangkok (si avvicina la grande festività, questa sì pagana, del Songkram, la festa dell’acqua lustrale che si passa in famiglia e con gli amici), andiamo a salutare il padre di Lusia. Vive nel villaggio di Mäe Khatom. Ci sono solo Akha. Il padre di Lusia ha 77 anni, ancora in buona salute, coltiva un pezzo di terra. La terra delle montagne fu distribuita ai contadini delle Hill Tribes grazie a Bhumibol Adulaydej il Grande, o Re Rama IX. E per riconoscenza il padre di Lusia ne tiene sulla veranda il ritratto.
Abu ha una casa dignitosa, non più la capanna dove viveva in Burma prima di fuggire dalla guerriglia.
Non restiamo molto. Abu non parla thai, ma burmese e naturalmente akha.
Spero che Lusia faccia presto, il silenzio è un po’ imbarazzante.
Lusia è laggiù, sotto il declivio. Piante di bambù altissime che il vento scrolla in un’armonia di musica silvestre, cespugli intricati, qualche albero di ciliege selvatiche. È andata a raccogliere erbe per Teeng e me. Pare che bollite e condite siano squisite.
Le porge a Teeng.
– Questa è ottima per il malditesta, e questa per lo stomaco, di questa ne fai un decotto, ma devi prima recitare…
È bello vedere come il cristianesimo si sia fermato alle soglie di un bosco.