Domenica 14 aprile 2024, III Domenica di Pasqua
Santi Tiburzio, Valeriano e Massimo martiri
LE VERE VITTIME DI UN CONFLITTO
LA GUERRA CONTRO LA PALESTINA
di Valeria Poletti
Il 7 ottobre 2023 Hamas e il Jihad islamico palestinese (PIJ), le milizie della Striscia di Gaza, hanno lanciato un attacco su più fronti contro Israele, un’incursione via terra, mare e aria nelle zone meridionali del Paese che ha implicato assalti nei villaggi, uccisioni indiscriminate di civili[1] e cattura di ostaggi. Il bilancio è stato di almeno 1200 morti e 130 persone prese in ostaggio. Hamas ha prodotto una svolta nel conflitto israelo-palestinese in corso da più di 70 anni imponendo il passaggio dalla resistenza difensiva per la liberazione dall’occupazione ad una strategia offensiva per ottenere una vittoria politica contro l’occupante e l’egemonia sul movimento resistenziale palestinese.
Prevedibile la ferocia – e non ci sono parole per definire e non c’è cuore per raccontare – della reazione di Tel Aviv: bombardamenti a tappeto, incursioni dell’esercito casa per casa, distruzione di ospedali, infrastrutture e di oltre il 40% degli edifici, assassinii nelle strade, blocco degli aiuti internazionali che hanno lasciato, ad oggi, più di 32.000 morti civili e un impressionante numero di feriti e amputati. Hanno lasciato una inimmaginabile devastazione del territorio e una popolazione che vaga affamata e malata.
Israele non sta solamente rispondendo ad una aggressione armata, sta attuando un piano articolato, peraltro perseguito negli anni con sempre maggiore determinazione, per rendere stabile ed espandere la sua impresa coloniale.
Nel marzo del 2009, dopo la fine dell’operazione “Piombo Fuso” (27 dicembre 2008 – 18 gennaio 2009), condotta da Israele nella striscia di Gaza in risposta al ripetuto lancio di razzi di Hamas contro il territorio israeliano, scrivevo io stessa parole che sottoscrivo identiche ancora oggi. Eccole:
“La ‘sinistra’ intera, e dentro questa anche i commentatori più integri e coerenti, concentrano ora la loro attenzione quasi esclusivamente su quanto sta accadendo a Gaza, e, di fatto, distraggono lo sguardo dal nodo fondamentale che era e resta il fatto che la Questione palestinese è emblematica e centrale nel conflitto storico che ha opposto il progetto della ‘rinascita araba’ – e il suo portato di esperienza ‘verso’ un progetto socialista – a quello imperialista in cui lo Stato sionista è attore protagonista in Medioriente, ma pur sempre inquadrato in una regia globale che è quella del Capitalismo occidentale. Era e resta emblematica e centrale nel quadro dell’attuale momento storico che oppone le ragioni dei popoli oppressi e ri-colonizzati, e con esse le ragioni del proletariato mondiale, a quelle dell’assolutizzazione del dominio capitalista, le ragioni dell’umanità a quelle del profitto. In questo senso abbiamo sostenuto e dovremmo sostenere ogni guerra di liberazione nazionale contro ogni guerra imperialista. La barbarie dei bombardamenti israeliani su Gaza, ma soprattutto l’esibizione mediatica dei suoi tragici effetti, hanno fatto una vittima che resta innominata nelle cronache e nelle analisi politiche: la Palestina. Tanto più si parla di Gaza, tanto più si nomina Hamas – per demonizzarla gli uni e per accreditarla come la vera, se non unica, forza resistente gli altri – tanto più si dimentica che Israele conduce da 60 e più anni una guerra contro la Palestina, non contro Hamas. Così come i movimenti storici della guerra di liberazione nazionale palestinese, dall’OLP al Fronte Popolare, ma anche Hamas, non combattono contro l’uno o l’altro governo israeliano, ma contro uno Stato colonialista che occupa il loro territorio, lo Stato sionista combatte per impedire la costituzione dello Stato palestinese – arabo, indipendente e sovrano – indipendentemente da quale formazione politica sia – formalmente – insediata nel palazzo governativo. Le manovre diplomatiche, le pressioni internazionali, le operazioni di intelligence, compreso il finanziamento e l’appoggio a fazioni e movimenti politici, hanno, così come i bombardamenti, questo fine, non quello di insediare un ‘governo amico’ con il quale stringere accordi”[2].
I protagonisti sul campo
Israele
Per tutto il corso della sua esistenza, Israele ha mantenuto la sua granitica potenza economica e militare grazie agli ingenti finanziamenti esteri (in particolare americani), alla coesione sociale – garantita tanto dal sentimento identitario della sua popolazione ebraica quanto dal relativamente alto standard di vita della stessa – e alla mancanza di unità dei vicini Paesi arabi. Negli ultimi anni, però, la pressione demografica, la crescita delle contraddizioni ideologiche tra una gioventù sempre più laica e una significativa corrente della destra tradizionalista e di quella ultra-ortodossa, così come la scelta (o la necessità) di orientare il tessuto produttivo più verso l’esportazione che verso il mercato interno (abbassando i livelli di benessere e generando inflazione) hanno minato la compattezza sociale. Il Paese è oggi attraversato da una profonda crisi costituzionale – che vede il premier di estrema destra Netanyahu sempre più contestato e delegittimato – mentre la crescita economica rallenta[3].
Per rigenerare la propria condizione di stabilità interna e sviluppare l’economia bisogna che questa si integri nella rete dei Paesi arabi vicini diventando un nodo essenziale nei corridoi commerciali in evoluzione del ventunesimo secolo. L’adesione agli Accordi di Abramo[4], mediati dagli Stati Uniti nel 2020, cioè l’adesione ad una serie di accordi bilaterali tra Israele e alcuni Stati arabi (Emirati Arabi Uniti, Bahrein i primi, con la prospettiva di coinvolgere l’Arabia Saudita) che ristabilisce le relazioni diplomatiche reciproche, ha costituito il primo passo in questa direzione.
“Nella sua forte ricerca di legami con il Golfo, Israele si è fatto promotore anche di una specifica attenzione a comuni interessi ad ampio raggio: economici, culturali, scientifici, sportivi e medici. La pandemia del Covid-19 ha fornito un’ulteriore opportunità per fare fronte comune nella lotta contro la diffusione del virus. Un altro interesse condiviso riguarda la commercializzazione di prodotti israeliani hi-tech di avanguardia nei settori della sicurezza e dello spionaggio, che ai Paesi del Golfo servono nella lotta contro i nemici sia all’estero sia in patria. D’altra parte, nell’orizzonte degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrain non trovano posto soltanto i prodotti del dinamismo israeliano nell’economia, nella scienza, nella medicina, nell’industria e nella sicurezza: c’è anche la consapevolezza che, dal momento che essi non vengono più visti come una minaccia per Israele (cioè, del più stretto alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente), ne verranno ricompensati anche con una maggiore libertà di acquistare merci prodotte dagli Usa, armi incluse”[5].
Un secondo passo, di rilevantissima importanza per Tel Aviv, è il lancio di un nuovo Corridoio India–Medio Oriente–Europa (IMEC), una rete di rotte di trasporto marittime, stradali e ferroviarie che consentano il transito di beni e servizi da, per e attraverso India, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Giordania, Israele ed Europa. Una rete che dovrebbe integrare anche la connettività digitale e la trasmissione di idrogeno verde. Insomma una “ri-globalizzazione” economica (di materie prime, manifattura e commercio) riguardante un blocco geo-politico. Gli Accordi di Abramo ne sono la premessa.
Il terminale israeliano di questo corridoio agevolerebbe anche l’esportazione del gas dal giacimento di Gaza Marine di fronte alle coste di Gaza[6] verso l’Europa. È evidente come il sequestro delle ricchezze naturali della striscia rappresenti un obiettivo cardine di Tel Aviv per il prossimo futuro: Gaza e la Palestina, infatti, non sono uno stato sovrano e quindi non hanno il diritto di rivendicare la sovranità sulla Zona Economica Speciale secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, o UNCLOS (acronimo del nome in inglese United Nations Convention on the Law of the Sea). Nel concreto, la realizzazione del corridoio comporterebbe l’opera di scavo di un canale che, attraversando il Negev, collegherebbe Eilat sul golfo di Aqaba (Mar Rosso) con il Mediterraneo: si tratta di realizzare quel “Canale Ben Gurion” progettato, dopo la crisi di Suez del 1956, per creare una via d’acqua alternativa al Canale di Suez e colpire così l’Egitto governato dal panarabista Nasser[7]. Il Cairo subirebbe anche oggi un danno di proporzioni gigantesche venendo privato degli ingenti introiti incassati grazie al traffico commerciale che costantemente attraversa il suo canale.
Così come fortemente penalizzata sarebbe la Turchia esclusa dalle direttrici dei commerci Est-Ovest[8].
La politica dei blocchi, inaugurata dall’Amministrazione Biden, rende gli Stati Uniti particolarmente sensibili al successo di questo progetto che ostacolerebbe la cinese Belt and Road Initiative (la nuova Via della seta) e legherebbe l’India al blocco occidentale. Una buona ragione per continuare a sovvenzionare lo scomodo alleato israeliano cui Biden cerca di evitare brutte cadute nel generale conflitto con il mondo arabo.
La grande Israele
Per risolvere il problema demografico, inoltre, anche in considerazione della minaccia costituita dal veloce incremento della popolazione palestinese, l’orientamento è verso la moltiplicazione degli insediamenti nei Territori occupati della Cisgiordania e, perché no, un domani anche nella striscia di Gaza[9]. La tecnica usata è quella del trasferimento forzato della popolazione palestinese – indotto attraverso l’intimidazione, la distruzione di campi, la sistematica demolizione delle abitazioni e il taglio delle infrastrutture vitali in Palestina – per aprire la strada allo stanziarvisi dei coloni[10] israeliani e ad un futuro processo di annessione.
L’espulsione dei palestinesi – in grande numero impiegati nelle fabbriche e nei cantieri dentro Israele – dalle loro abitazioni e dalle loro terre non pregiudicherà, comunque, il progetto di espandere la propria capacità produttiva e commerciale integrando l’economia del Paese con quella degli Stati arabi: per far fronte alla mancanza di manodopera, “il governo israeliano afferma che porterà 65.000 lavoratori stranieri dall’India, dallo Sri Lanka e dall’Uzbekistan per riprendere la costruzione bloccata dal 7 ottobre, quando i lavoratori palestinesi furono rimandati a casa in seguito all’attacco mortale contro Israele da parte di Hamas”[11].
“Dal 1967[12] lo Stato ebraico ha intrapreso in Cisgiordania molte azioni che vengono considerate in termini di ‘annessione strisciante’ o ‘annessione di fatto’ – ad esempio l’espansione di insediamenti e avamposti e il loro collegamento con Israele mediante infrastrutture, insieme a restrizioni e demolizioni delle costruzioni palestinesi nell’area C (il 60% della Cisgiordania, sotto controllo militare israeliano). La mossa in discussione fornirebbe un quadro giuridico per legittimare tale realtà di fatto: battezzandola ‘de iure’ e radicandola”[13].
L’espulsione dei palestinesi dalla Striscia di Gaza e la ricostruzione o l’espansione degli insediamenti ebraici illegali nell’enclave non sarebbe che un passo intermedio, dall’occupazione all’annessione. E non è solamente l’estrema destra al governo a chiedere il ripristino di nuovi insediamenti ebraici a Gaza e per l’espansione nella Cisgiordania occupata[14]. “L’idea che gli insediamenti e la sicurezza siano due facce della stessa medaglia è una parte naturale del pensiero israeliano”, ha spiegato Mairav Zonszein, analista dell’International Crisis Group. “Il concetto secondo cui è necessario mettere le persone sul posto – coloni e soldati – per garantire la sicurezza è sempre stato parte della visione israeliana di come fare le cose”, ha detto Zonszein[15].
Del resto, la legge approvata dalla Knesset (il parlamento israeliano) il 19 luglio 2018 che definisce Israele “Stato nazionale del popolo ebraico” e dichiara che “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivamente per il popolo ebraico” non ne circoscrive i confini entro gli attuali, dunque include, quanto meno in linea di principio, i Territori palestinesi occupati (Tel Aviv li definisce “contesi”) di Giudea e Samaria preconizzandone l’annessione[16]. Del resto, è di tale attualità l’idea dell’annessione che, in Israele, si fanno e si pubblicano sondaggi riguardo l’opinione pubblica in proposito: il Time of Israel riferisce che “secondo un sondaggio, la maggioranza degli israeliani si oppone all’idea di annettere e reinsediare la Striscia di Gaza. Secondo l’indagine dell’Università Ebraica, mentre il 56% è contrario a tale mossa, il 33% la sostiene e l’11% è incerto”[17].
Hamas
Per contro, gli statuti di Hamas ribadiscono che la lotta per la liberazione della Palestina è “una battaglia di religione e di fede” tra musulmani ed ebrei, piuttosto che una lotta nazionale. “Pertanto, con tutto il nostro apprezzamento per l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e per ciò che potrebbe ancora diventare, e senza sminuire il suo ruolo nel conflitto arabo-israeliano, non possiamo rinunciare all’identità islamica della Palestina nel presente e nel futuro per adottare l’ideologia laicista – perché l’identità islamica della Palestina fa parte della nostra fede, e chi è negligente con la sua fede è perduto. ‘Chi disprezza la religione di Abramo se non chi si è reso stolto?’ (Corano, 2:130)” recita l’articolo della Carta di Hamas del 18 agosto 1988[18]. “Il 1° maggio 2017 Hamas ha pubblicato un documento politico approvato da tutti i leader del movimento. I leader hanno chiarito che il documento non sostituisce la Carta di Hamas ma mira ad adattare la posizione del movimento all’epoca attuale. Il documento è stato presentato dai portavoce di Hamas come uno sviluppo che non compromette i loro principi”[19]. Neppure il documento Our Narrative… Operation Al-Aqsa Flood, pubblicato nel gennaio 2024 e concepito per descrivere le ragioni dell’attacco del 7 ottobre e che propone una visione più pragmatica e “nazionalista” del movimento, rettifica i principi precedentemente esposti[20]. Obiettivo di Hamas, dunque, è sì la fine dell’occupazione, ma non è l’indipendenza della Palestina e della nazione araba dal dominio imperialista, quanto piuttosto l’imposizione secolare dell’Islam sul mondo arabo.
Hamas, fondato nel 1987 come filiazione della Fratellanza Musulmana – dalla quale ha recentemente preso le distanze – pretende di essere allo stesso tempo un movimento di resistenza e un organo di governo. Nato durante la prima Intifada e sostenitore della lotta armata per la liberazione della Palestina, ma da sempre in aperto conflitto, tanto ideologico quanto per visione strategica, con la allora principale organizzazione della resistenza (la laica Fatah), Hamas è una struttura di potere che è emersa dalla vittoria armata di una fazione palestinese sull’altra dopo quella ottenuta dalla forza islamista nelle elezioni del 2006 a seguito delle quali Hamas ha espulso con la forza tutti i politici di Fatah da Gaza. Da allora non si sono più svolte elezioni e Hamas mantiene il governo della striscia, esercitando un controllo settario oppressivo e violento sulla popolazione.
Prendendo il potere a Gaza nel 2006, Hamas ha, infatti, realizzato un obiettivo di grande importanza nel quadro del progetto dell’Islam politico, quello cioè del controllo di un territorio, obiettivo non raggiunto dalla Fratellanza in Egitto. Gaza, quindi, doveva diventare non soltanto un punto di riferimento ideale, ma una base territoriale della “nazione islamica” nel mondo arabo[21].
Hamas ha, imprevedibilmente, adempiuto alla funzione per la quale i governi di Tel Aviv, supportati dagli Stati Uniti, ne avevano, fino dagli anni ’80 del ‘900, favorito[22] la nascita e la crescita: contrastare, allora, una leadership orientata al socialismo agevolando una formazione dichiaratamente anticomunista, e, soprattutto, minare l’unità della Resistenza palestinese, indebolire l’OLP e in tal modo impedire la creazione di uno Stato Palestinese. Ad ammettere che questo fosse il disegno israeliano è, tra gli altri, il quotidiano online The Times of Israel: “Per anni, i vari governi guidati da Benjamin Netanyahu hanno adottato un approccio che divideva il potere tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, mettendo in ginocchio il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas e compiendo mosse che sostenevano il gruppo terroristico Hamas. L’idea era quella di impedire ad Abbas – o a chiunque altro nel governo della Cisgiordania dell’Autorità Palestinese – di avanzare verso la creazione di uno Stato palestinese. Pertanto, nel tentativo di indebolire Abbas, Hamas è stato promosso da semplice gruppo terroristico a organizzazione con cui Israele ha condotto negoziati indiretti attraverso l’Egitto e a cui è stato consentito di ricevere infusioni di denaro dall’estero. […] Israele ha permesso a valigie contenenti milioni di contanti del Qatar di entrare a Gaza attraverso i suoi valichi dal 2018, al fine di mantenere il suo fragile cessate il fuoco con i governanti di Hamas della Striscia”[23].
L’intento di interventi israeliani su Gaza precedenti all’attuale può essere stato quello di ridimensionare la forza militare di Hamas, ma non certamente quello di contrastarne l’influenza politica almeno fino a quando Hamas ha rappresentato un ostacolo all’unità della Resistenza ed ha avuto la capacità di attrarre – grazie ai programmi di assistenza sociale e alla denuncia della corruzione di Fatah – l’apprezzamento dei giovani palestinesi sottraendoli alla sinistra interna all’OLP che sarebbe stato un antagonista ben più pericoloso e capace di avere influenza anche sui palestinesi della diaspora.
Seguendo la norma islamica, già negli anni ’80 Hamas iniziò a costruire la sua rete militare, scolastica, sociale, assistenziale e politica e, da quando è al potere, governa con la forza attraverso la sua polizia interna Tanfithya (che non ha esitato a sparare su manifestazioni e raduni pubblici[24]), ma anche con un efficiente sistema assistenziale. L’ala militare è costituita dalle Brigate Izz al-Din al-Qassam, ben organizzate e ben armate[25], che godono di una relativa indipendenza e hanno acquistato prestigio tra i palestinesi di Gaza, ma anche in Cisgiordania, grazie alle azioni armate (non solamente terroristiche) contro Israele. Un prestigio molto maggiore rispetto a quello tributato alla formazione politica[26].
Porta la firma del loro comandante in capo, Muhammad Dayf, il comunicato che, lanciando l’operazione “Diluvio di al-Aqsa” iniziata il 7 ottobre, chiama i musulmani negli Stati arabi e non arabi al Jihad: “O gente della Giordania e del Libano, dell’Egitto, dell’Algeria e del Marocco arabi, del Pakistan, della Malesia e dell’Indonesia, e di tutte le parti della patria araba e islamica, iniziate ora e non domani la vostra avanzata quotidiana verso la Palestina, e non lasciate che confini, regimi o restrizioni vi privino dell’onore del jihad e della partecipazione alla liberazione della Moschea di al-Aqsa. ‘Lanciatevi dunque in battaglia, armati con armi leggere, armati con armi pesanti! Combattete con i vostri beni e con le vostre persone sulla via di Dio! Questo è il meglio per voi, se voi lo sapeste!’ (Cor. 9,41). Oggi, proprio oggi, chiunque possieda un fucile lo tiri fuori, questo è il momento, e chi ne è sprovvisto tiri fuori la mannaia, l’ascia, la scure, le bombe molotov, il camion, il bulldozer o l’automobile”[27]. Bisogna, però, tenere conto che, a differenza delle formazioni del jihadismo radicale di al-Qaeda e dell’ISIS, Hamas non professa una visione globalista del jihadismo e, dunque, non promuove azioni armate e attentati in campo internazionale.
Nel settembre 2023, rappresentanti di Hamas, Jihad Islamica e FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) si incontravano a Beirut dove il delegato del Fronte, Jamil Mezher, dichiarava che “le fazioni palestinesi non hanno altra scelta che intensificare la resistenza in Cisgiordania” e che “‘rafforzare l’unità del fronte di battaglia è importante per proteggere i combattenti della resistenza contro l’occupazione’, perché ‘il percorso di risoluzione e negoziazione [con Israele] non ha portato altro che delusioni e battute d’arresto al nostro popolo’”. Ha aggiunto che “L’Arabia Saudita è uno Stato centrale nel mondo arabo e islamico e il suo coinvolgimento nella normalizzazione causerà gravi danni”, ed ha spiegato che “ciò che viene richiesto alla parte palestinese è di respingere qualsiasi offerta di normalizzazione in cambio di denaro e privilegi, e di aderire a una posizione politica chiara su questo tema”[28], chiarendo bene come uno degli scopi fondamentali di una mobilitazione fosse quello di ostacolare gli Accordi di Abramo e riportare la Questione Palestinese al centro dell’attenzione dei Paesi arabi.
All’appello di Hamas hanno immediatamente risposto le maggiori organizzazioni palestinesi tanto a Gaza quanto in Cisgiordania. Lo stesso 7 ottobre, giorno dell’attacco su Israele, l’FPLP pur parlando di “nazione araba” (ribadendo, così, la propria distanza ideologica da Hamas) dichiara: “Questo è il giorno [7 ottobre] in cui rivendichiamo la natura della nostra lotta e la dignità della nazione araba. […] Il Fronte Popolare esorta il nostro eroico popolo in tutta la Palestina a partecipare attivamente alla battaglia “Diluvio di al-Aqsa”[29].
Anche i Leoni di Nāblus[30], i militanti di ‘Arīn al-‘Usūd, della Fossa dei Leoni, i giovani palestinesi che hanno rotto con le fazioni storiche di Ḥamās, della Jihād islamica e di Fatḥ e che acquisiscono sempre maggior consenso sia in Cisgiordania che a Gaza, hanno dichiarato che si sarebbero uniti all’azione e hanno chiamato alla mobilitazione generale[31]. Insieme a loro i giovani della Brigata Jenin. Probabilmente la speranza di questi giovani è che la leadership dell’Autorità Palestinese, che governa gran parte dei 3,1 milioni di abitanti, si dissolva: questo è anche l’esito che Israele teme maggiormente.
Oggi, dunque, Hamas si candida a guidare la resistenza palestinese e a mobilitare le masse musulmane a suo sostegno. Oggi, con il lancio dell’operazione “Diluvio di al-Aqsa”, ha unito dietro di sé le diverse anime della resistenza, ma ha anche portato a termine quel processo di distruzione della Palestina come nazione araba, come motore del movimento di liberazione dei popoli arabi dal dominio imperialista del quale Israele era ed è parte.
Ma una nuova generazione resistente sta crescendo e potrebbe dar vita ad una “terza Intifada” capace di riprendere e reindirizzare verso esiti di libertà e giustizia sociale il percorso storico della lotta per la liberazione della Palestina. Una prova della potenzialità e della rilevanza di queste forze giovanili è rappresentata dal fatto che la stessa Hamas ha dovuto includere Marwan Barghouti[32], esponente di Fatah che ebbe un ruolo di primo piano nella prima Intifada e leader riconosciuto tanto a livello popolare quanto tra le nuove formazioni armate, nella lista dei prigionieri che Israele detiene nelle sue carceri.
Gli sponsor
Il patrocino americano
Gli Stati Uniti annualmente stanziano 3,8 miliardi di dollari all’anno per la difesa di Israele sulla base di un memorandum d’intesa del 2016. “Il 2 novembre la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato un piano repubblicano per fornire 14,3 miliardi di dollari in aiuti a Israele nella lotta contro Hamas. […] Mercoledì il Congressional Budget Office, apartitico, ha affermato che i tagli all’IRS e gli aiuti a Israele nel disegno di legge autonomo aggiungerebbero quasi 30 miliardi di dollari al deficit di bilancio degli Stati Uniti, attualmente stimato a 1,7 trilioni di dollari”[33]. Ron Kampeas, dalle colonne del The time of Israel, ci informa che “‘questo serve a Israele per difendersi in una guerra su più fronti ed essere sicuro di poter scoraggiare una guerra su più fronti’, ha detto il funzionario alla Jewish Telegraphic Agency. […] Il resto dei soldi per Israele, più di 4 miliardi di dollari, vanno a una priorità americana: rifornire le armi che gli Stati Uniti tengono immagazzinate nella regione, incluso Israele, su base contingente”[34]. Gli USA hanno una base militare permanente in Israele. Non è difficile intendere che Washington si aspetta un allargamento del conflitto nella regione e che “non esclude” un intervento statunitense diretto, nonostante sia intenzionato ad evitarlo.
Tra parentesi non risulta che gli USA abbiano stanziato un dollaro a favore della popolazione di Gaza colpita dai bombardamenti benché sbraitino perché Israele limiti le vittime civili. Anzi, vietano che qualsiasi aiuto raggiunga l’Agenzia delle Nazioni Unite per il lavoro e il soccorso, l’agenzia umanitaria palestinese UNRWA, che secondo Israele agisce in collusione con Hamas. Non sarà la consegna via mare di “aiuti umanitari” progettata dagli USA da realizzarsi nei prossimi mesi a sostituire efficacemente una rete di distribuzione che operava sul posto.
Al di là dell’ovvia considerazione che le guerre è sempre meglio farle con il sangue degli altri – e anche sottacendo il fatto che, una volta sfumata l’influenza sovietica su alcuni grandi Paesi mediorientali, Israele non è più un baluardo americano contro il mondo arabo – per i governi statunitensi è ora di primaria importanza concretizzare la normalizzazione dei rapporti tra Tel Aviv e la monarchia saudita avviata con gli Accordi di Abramo del 2020[35], accordi stipulati tra Israele e alcuni stati arabi nella totale indifferenza alle sorti della popolazione palestinese e senza alcun coinvolgimento delle sue rappresentanze.
Dopo la, possiamo dire, disastrosa conclusione delle avventure belliche in Afghanistan e Iraq e l’insuccesso dell’opaco intervento in Siria, gli Stati Uniti hanno necessità di ristabilire la loro centralità in Medioriente e di contrastare l’avanzare dell’influenza cinese, chiudere la via di accesso di Pechino all’esportazione e alla delocalizzazione in Africa delle sue catene di produzione di merci a basso costo. Ridisegnare le alleanze a proprio favore e, con esse, l’architettura dei corridoi di circolazione e scambio delle materie prime – anche energetiche – e delle merci è una operazione di geo-economia che non può che sostenersi su una tessitura militare che leghi a sé e tra loro le due economie forti della regione, Israele e l’Arabia saudita.
Se gli Accordi di Abramo e il corridoio IMEC[36], che collegherà l’India all’Europa attraversando gli Emirati, la penisola saudita e sfociando nel Mediterraneo sulla costa israeliana, dovrebbero rappresentare la base geo-economica a protezione degli interessi americani, il progetto Middle East Air Defense Alliance (MEAD), da alcuni ironicamente definito la “NATO araba”, ne costituisce l’ossatura militare. Tel Aviv è stata la prima a darne annuncio: “Il 20 giugno [2022], alla Knesset, il ministro della Difesa israeliano Gantz ha parlato dell’esistenza di un progetto, a guida USA, per rafforzare la cooperazione nell’area della difesa tra Israele e Paesi arabi, per contrastare le minacce aeree provenienti dall’Iran ed ha denominato il progetto Middle East Air Defense Alliance, aggiungendo che “è operativo e ha già contrastato dei tentativi iraniani”. Secondo il NYT il 15 marzo 2021 Israele avrebbe abbattuto due droni prima che entrassero nei suoi confini grazie al permesso di entrare nello spazio aereo di un vicino Paese arabo”[37].
Sì, perché l’obiettivo unificante per i Paesi arabi coinvolti è anche uno degli scopi di Washington: contrastare l’espansione dell’influenza politica iraniana e contenerne la capacità di produrre l’arma nucleare. E, una volta di più, dare agli Stati Uniti la possibilità di fare la guerra senza impegnarsi direttamente nelle operazioni sul campo.
Non è un progetto che verrà abbandonato nemmeno nel caso che la guerra di Gaza si estenda ai Paesi vicini, al Libano per esempio, e nemmeno se gli Houthi yemeniti continueranno ad attaccare le navi mercantili che attraversano lo stretto di Bab el-Mandeb dirette verso Suez.
Qualunque sviluppo potrà avere il conflitto tra Israele e Hamas, anni di guerra sono garantiti.
L’Iran
L’Iran è un Paese attraversato da gravi crisi interne economiche e sociali, segnato dalle sanzioni internazionali, con una classe dirigente non più omogenea in quanto formata per lo più da una generazione successiva a quella che ha condotto la Rivoluzione Islamica del 1979, con una popolazione giovanile in costante fermento anche se schiacciata da un apparato repressivo violento ai limiti del sadismo. Un Paese la cui politica estera è determinata dalla necessità di espandere la propria influenza a largo raggio, nella regione e oltre, per non far crollare l’economia e per mantenere in vita un sistema economico fortemente ancorato alla teocrazia al potere e alle articolazioni burocratiche e militari che ad essa rispondono.
La Repubblica Islamica è, ormai (dopo le guerre in Ucraina e a Gaza), inserita in un blocco geo-strategico: un ampio blocco orientale del quale l’Iran entra a fare parte come polo avverso tanto all’Occidente quanto al blocco dei Paesi musulmani allineati con USA e Israele.
L’alleanza, ormai esplicita, con il Cremlino – rafforzatasi nonostante le due potenze si scontrino da fronti opposti in Siria – garantisce a Teheran, sottoposto a sanzioni così come la Russia, uno sviluppo vantaggioso negli scambi commerciali[38]. Mosca importa armamenti (droni in particolare) dall’Iran, entrambe i Paesi sono impegnati nella realizzazione di un nuovo corridoio commerciale lungo 3000 chilometri tra l’Europa orientale e l’Oceano Indiano (INSTC, al quale si aggiungerebbe il ramo Iraq-Turchia) che, aggirando le sanzioni occidentali, garantisce l’accesso ai mercati asiatici[39]. La presenza di rappresentanti di Hamas e dell’Iran a Mosca, per colloqui, il 23 ottobre 2023[40] palesa come la comune scelta di campo cementi la relazione tra i due Paesi.
Allo stesso modo procede il progressivo avvicinamento di Teheran a Pechino. La Cina, tra l’altro, è oggi il più importante acquirente del (sanzionato) petrolio iraniano.
Inoltre, la tentacolare Belt and Road Initiative (la nuova Via della seta) cinese ha bisogno, per articolarsi in Medioriente, di una relativa stabilità e, dopo avere tentato la mediazione tra Teheran e Rihad e pur avendo una fiorente relazione commerciale con Israele, Pechino non può che presentarsi come un punto di riferimento più affidabile degli Stati Uniti, come leader di un nuovo ordine multipolare in contrapposizione alla morente egemonia americana.
I cinesi, si sa, hanno la vista lunga e sono pazienti: l’operazione “Diluvio di al-Aqsa” ha compromesso gli Accordi di Abramo e la formazione di un solido polo americano-saudita-israeliano. C’è dunque spazio per la creazione di un altro polo con alcuni Paesi arabi che confidino nella capacità di Pechino di guidare un “nuovo ordine mondiale”. Se la partecipazione di Russia e Iran è fondamentale, lo è anche il consenso tra le masse arabe rimaste fedeli alla causa palestinese. Prendendo a bordo la Repubblica Islamica è inevitabile dare un passaggio sulla nave anche ai suoi alleati.
Dagli anni ’80 del ‘900, dopo la vittoria della Rivoluzione islamica, la teocrazia iraniana arma e finanzia[41] formazioni come Hamas e la Jihad islamica palestinese (PIJ) sia per ragioni geostrategiche che ideologiche. Dal punto di vista geostrategico, Teheran aiuta, arma e finanzia i due gruppi per espandere la propria influenza nella regione. Ideologicamente, l’Iran considera Israele come un usurpatore delle terre musulmane e una minaccia per l’Islam: Hamas e PIJ hanno strategie e tattiche diverse, ma condividono lo stesso obiettivo, quello di sostituire Israele con uno Stato islamico.
Più diretto il sostegno offerto alla formazione libanese Hezbollah che, fino dalla sua prima apparizione alla fine degli anni ’70 del ‘900, si presentava come una “estensione” della rivoluzione komeinista in Iran[42]. Né Hezbollah, né l’Iran vogliono una guerra allargata. Fino ad ora è stato interesse comune, tanto per ragioni politiche che militari, mantenere una guerra a bassa intensità, ma Israele può, in qualunque momento, decidere di aprire il secondo fronte.
Della squadra sovvenzionata dalla Repubblica Islamica fanno parte anche gli Houthi, la fazione sciita zaydita che, dal 2015, governa lo Yemen del Nord. In solidarietà con Hamas, le sue milizie hanno lanciato attacchi missilistici contro Israele e hanno iniziato a prendere di mira navi commerciali ad esso collegate in transito nel Mar Rosso, ostacolando la navigazione mercantile diretta al porto di Eliat e a Suez. In reazione a questo, Stati Uniti e Gran Bretagna, seguiti da alcuni Paesi europei – tra i quali l’Italia – hanno inviato navi nel Mar Rosso che, in più occasioni, hanno abbattuto missili e droni provenienti dal territorio yemenita. La connessione attuale tra Houthi e Iran è dimostrata dal fatto che Washington, come riferisce il Financial Times, a gennaio 2023 ha intrattenuto colloqui segreti[43] mediati da funzionari dell’Oman con il viceministro degli Esteri iraniano Ali Bagheri Kani in merito alle operazioni delle milizie degli Houthi.
Per quanto questi ultimi abbiano loro proprie motivazioni[44] per manifestare in questo modo il loro sostegno alla resistenza palestinese, il vantaggio procurato agli ayatollah è palese: è quello, cioè, di contrastare agli Stati Uniti il controllo delle vie marittime in un tratto di primaria importanza per il commercio mondiale.
È, infine, evidente che, come fa notare Kevin Carboni, “senza il sostegno dell’Iran, Hamas non avrebbe mai potuto attaccare Israele lo scorso 7 ottobre. I mortai, i lanciarazzi, le mine anti-carro, i parapendii e i fucili usati dai miliziani sono quasi tutti di fabbricazione iraniana o prodotti all’interno della Striscia di Gaza secondo indicazione che arrivano dalla Repubblica islamica”[45]. Questo, nonostante sia l’Iran che Hezbollah abbiano affermato di non voler essere associati alle dinamiche di pianificazione e di organizzazione dei fatti del 7 ottobre.
Ma è chiaro che il patrocinio della Repubblica Islamica dell’Iran ad Hamas e a Hezbollah ha un costo, quello che obbliga ad agire in conformità agli interessi iraniani nella competizione con l’Arabia Saudita per la leadership sul mondo musulmano, cioè, in questa circostanza, porre un ostacolo alla prosecuzione degli Accordi di Abramo (che darebbero un decisivo vantaggio al regno dei Saud) e fermare sul nascere la realizzazione del corridoio IMEC che danneggerebbe sensibilmente l’economia iraniana.
Ma non è questo il più importante obiettivo strategico iraniano: prevalere sul carisma saudita presso la Umma (la comunità globale dei musulmani) e mobilitare le masse musulmane nel mondo richiede il prestigio di una pretesa superiorità “morale” che emana dall’osservanza della legge coranica, una superiorità che Teheran intende dimostrare con il suo sostegno alla causa palestinese confiscata da Hamas. In gioco c’è la vittoria nella competizione per l’egemonia sul mondo musulmano.
La guerra dentro il mondo musulmano
La monarchia assoluta saudita si considera tuttora il difensore dell’Islam e, come tale il leader indiscusso nella regione. La sua supremazia è stata messa in discussione dalla rivoluzione islamica del 1979 in Iran: la teocrazia komeinista ha instaurato un nuovo modello di Stato e, da allora, ha operato tanto per esportare la sua forma di governo, profondamente diversa da quella del regno saudita, quanto per dare spazio al proprio sistema economico al di fuori dei propri confini.
Il conflitto che ha preso avvio da queste contraddizioni in seno al mondo musulmano – conflitto troppo semplicisticamente interpretato in Occidente come scontro settario tra sciiti e sunniti – si è configurato per decenni come qualcosa di simile alla Guerra Fredda che ha contrapposto per molti anni gli Stati Uniti all’Unione Sovietica. Le due potenze, infatti, non si sono mai affrontate direttamente sul piano militare, ma si sono più volte impegnate in guerre per procura sostenendo fazioni e milizie rivali in altri Paesi (Iraq, Siria, Yemen) per far prevalere i propri interessi di potere ed economici essendo entrambe del tutto integrate nel libero mercato capitalistico oltre ad essere importanti produttrici di petrolio[46] (nonostante la posizione dominante dell’Arabia Saudita) e, dunque, da sempre interessate al controllo delle vie navigabili strategiche degli stretti di Hormuz e Bab el-Mandeb.
Tutte le Amministrazioni statunitensi si sono impegnate nel mantenere questo equilibrio conflittuale tra le due maggiori potenze islamiche[47], pur riservando un trattamento di favore al regno saudita almeno fino a quando gli americani non hanno raggiunto l’indipendenza energetica.
La retorica antiamericana profusa da Teheran non trova riscontro in azioni concrete né il pugno duro di Trump – che ha sospeso il trattato JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) che impegnava l’Iran a limitare l’arricchimento dell’uranio – ha controbilanciato l’espansione della potestà iraniana sull’Iraq e sulle sue risorse, dominio che ha fatto seguito all’aggressione americana del 2003 contro questo Paese.
Nemmeno la promozione degli Accordi di Abramo, pur creando una divisione in due blocchi dei Paesi arabo-musulmani, non sarebbe stata, di per sé, una causa scatenante per un conflitto aperto tra Iran e Arabia Saudita, tanto è vero che, nel maggio 2023, i rivali regionali avevano deciso di ristabilire le loro ambasciate a Teheran e Riyadh grazie ad un accordo mediato dalla Cina. Ma l’attacco di Hamas ad Israele del 7 ottobre ha riacceso la miccia riportando la Questione Palestinese al centro della scena e mettendo in luce le divisioni tra i governi della regione.
L’esito di un vertice congiunto della Lega Araba e dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica nella capitale saudita ha evidenziato, infatti, la mancanza di una linea comune. Secondo quanto riferisce The New Arab, infatti, quattro importanti stati arabi (che non sono stati menzionati nel comunicato) hanno impedito l’adozione di proposte che comportavano misure concrete contro Israele, mentre hanno proposto clausole più vaghe e non impegnative: “Si ritiene che le clausole controverse includessero il divieto dell’uso delle basi militari statunitensi e di altre basi militari nei paesi arabi per fornire a Israele armi e munizioni; il congelamento delle relazioni diplomatiche, economiche, di sicurezza e militari arabe con Israele; la minaccia di sfruttare il petrolio e le capacità economiche arabe per esercitare pressioni e fermare l’aggressione in corso”[48].
In effetti, la “normalizzazione arabo-israeliana”, incoraggerebbe lo Stato sionista a perseguitare e, dove possibile, sterminare i palestinesi aprendo la strada all’annessione di fatto della Cisgiordania occupata.
L’aggressione del 7 ottobre, di contro, se anche ha infiammato gli animi delle genti nei Paesi arabi, non ha ottenuto la solidarietà dei governi, ma ha, piuttosto, contribuito non poco ad aggravare le motivazioni della guerra interna al mondo musulmano.
Mentre le piazze arabe si riempiono di manifestanti che chiedono una reazione dura contro Israele e in odio agli Stati Uniti, nessun governo, nemmeno tra quelli più penalizzati dal progetto del corridoio IMEC, va oltre le dichiarazioni formali. Prendere una posizione decisa e predisporre misure concrete, infatti, significherebbe, per alcuni, mettere in pericolo la conquista di maggiori ricchezze derivanti dal traffico mercantile (ricchezze che non intendono redistribuire né tra loro né, meno che mai, con le classi subalterne) e, per tutti, doversi schierare a favore o contro Teheran nella guerra fredda – ma che potrebbe diventare calda – dentro il mondo islamico.
Coriandoli di Palestina
Perché esista nei fatti, non solamente sulla carta, uno Stato palestinese devono essere realizzate tre precondizioni: la fine dell’occupazione, la rimozione degli insediamenti nella Cisgiordania occupata e la definizione dei confini. Alla soddisfazione di queste condizioni si dovrebbe poi aggiungere la sovranità sulle risorse[49], quelle energetiche e quelle idriche entrambe confiscate da Israele.
Senza che questi presupposti siano realizzati, il riconoscimento formale di uno “Stato senza Stato” di Palestina caldeggiato da Biden non sarebbe altro che un escamotage diplomatico per portare il regno saudita a firmare gli Accordi di Abramo e liberare la strada per la costruzione del corridoio IMEC.
Ammesso che Tel Aviv sia disposta ad accettare una simile ‘soluzione’ alla quale si è, comunque, dichiarata contraria, ai palestinesi rimarrebbe una manciata di territori privi di contiguità tra loro, praticamente assediati e sotto costante minaccia di attacco da parte dei coloni. Coriandoli di Palestina ingovernabili se non da un governo fantoccio imposto dalle trattative tra Stati Uniti, Israele e Paesi arabi interessatamente “concilianti”.
C’è qualche dubbio che la massima parte dei palestinesi rifiuti[50] di sostenere questa soluzione-truffa?
Sia che la diplomazia statunitense riesca ad imporre questa “soluzione” o che l’esercito israeliano, in tempi brevi o lunghi, arrivi alla sua “soluzione finale”, assisteremo comunque ad una non indolore continuazione (ripresa) del conflitto armato.
La guerra imperialista contro la Palestina
La guerra di Israele non è contro Hamas, è contro la Palestina. Ma lo è anche la guerra dell’Iran contro i palestinesi mascherata come sostegno alla Palestina, da un lato, e, dall’altro, quella degli Stati Uniti e del blocco dei Paesi arabi interessati ad una integrazione economica regionale – a guida USA – che permetta di allocare investimenti finanziari in tutta l’area. Quello che, comunemente, si chiama imperialismo. Globale o regionale che sia.
La politica americana di dividere il pianeta in blocchi economici di “amici” e “nemici” – il cosiddetto friend shoring, cioè fare affari solo con gli amici – è il motore di un ridisegno di alleanze che non riconosce confini (se non quelli imposti ai migranti) ma solamente barriere contro i Paesi capitalistici orientali che sono i maggiori detentori del debito estero americano (la Cina tra questi[51]). Russia e Cina, infatti, paladine dell’”altro mondo”, quello non occidentale, sono, non disinteressatamente, paladine della causa palestinese.
L’economista Emiliano Brancaccio, sulle colonne de ilSole 24ORE, scrive: “La svolta protezionista statunitense è la causa prima dei famigerati ‘Accordi di Abramo’ del 2020 e dei trattati ad essi correlati. Stipulati da Trump ma portati avanti anche da Biden, quegli accordi mirano a ‘normalizzare’ le relazioni di Israele con i grandi produttori arabi di energia, e più in generale con i paesi a maggioranza musulmana ricchi di risorse naturali. L’obiettivo è chiaro: agevolare il riposizionamento di questi paesi nell’energivoro blocco economico occidentale. È questo un tassello decisivo per portare a compimento il grande mosaico del ‘friend shoring’ americano”[52].
Lo scontro in atto a Gaza, dunque, va letto dentro la cornice di quello globale: il nuovo “mondo multipolare” promette di estendere i conflitti ben oltre la Palestina. Le superpotenze, come è ormai tradizione, non intendono arrivare al confronto armato diretto ma sfruttare a proprio favore i conflitti locali contenendone l’espansione. In Medioriente come in Ucraina.
Nel caso del conflitto in atto a Gaza, l’unico attore intenzionato ad allargare la guerra è Netanyahu che, pur avendo le possibilità di prevalere su Hamas, necessita del coinvolgimento anche militare degli Stati Uniti per realizzare il progetto della “grande Israele” annientando o ridimensionando al massimo la presenza palestinese e assestando un colpo mortale al nemico iraniano. La diatriba che oppone Biden a Tel Aviv ruota attorno a questo problema e Washington preme, dunque, per la costituzione di uno Stato fatto di coriandoli di Palestina prima che, a mio avviso, gli Stati Uniti si trovino costretti ad un intervento diretto a fianco di Israele.
Oggi sembra che i palestinesi siano soli nel condurre la propria lotta per la liberazione, una lotta basata su un progetto nazionale che includa tutti i settori della società palestinese all’interno della Palestina e nella diaspora e che sia basato sulle idee di inclusione, pluralismo e democrazia. Ma, alla fine, Israele è circondato da decine, se non centinaia, di milioni di arabi musulmani che credono che lo Stato sionista sia un’entità colonizzatrice priva di radici legittime nella regione. Comunque si concluda questa fase della guerra, la Questione palestinese rimane aperta.
Israeliani contro la guerra
Secondo un sondaggio condotto a fine dicembre 2023 dal Viterbi Family Center for Public Opinion and Policy Research presso l’Israel Democracy Institute, il 75% degli ebrei israeliani si dichiara per la continuazione della guerra e il 57% è favorevole all’apertura di un secondo fronte in Libano[53].
Per quanto estremamente minoritaria, esiste una componente della società israeliana che oppone al furore bellicistico le ragioni della pace, individui e piccoli gruppi che subiscono, oltre che la repressione poliziesca diretta e l’incarcerazione in caso di rifiuto a prestare servizio nell’esercito, un clima di intolleranza e intimidazione in ambito sociale[54].
“Nella città di Haifa la scorsa settimana, la polizia ha disperso una manifestazione a sostegno di Gaza. ‘Vi sto dando istruzioni precise: tolleranza zero per qualsiasi episodio di incitamento, né da parte di un’infermiera, né di un medico, né di un cantante’, ha detto il commissario di polizia israeliano, Kobi Shabtai, in un video pubblicato su TikTok in lingua araba, canale per la polizia. ‘Chiunque voglia simpatizzare con Gaza è il benvenuto a salire su un autobus e ad andare lì’[55]”. Nonostante questa realtà, Standing Together[56], un gruppo di madri di soldati dell’IDF[57], singoli pacifisti (alcuni appartenenti alla sinistra radicale) lottano per spegnere gli odi reciproci tra israeliani e arabi.
Le piazze arabe
Mentre le mobilitazioni di massa riempiono le piazze a Casablanca così come ad Algeri, Tunisi, Il Cairo, Amman, Beirut, Damasco, Baghdad e Manama, i regimi arabi rispondono con la repressione, intimoriti dalla possibilità dello “scoppio” di nuove “primavere arabe”, come quelle scatenatesi nel 2011, che mettano a rischio la stabilità dei loro sistemi dittatoriali e incoraggino di nuovo la ripresa dell’iniziativa e la penetrazione della Fratellanza Musulmana (dalla quale è originata Hamas) nei loro Paesi.
Mentre le masse arabe non hanno mai cessato di vedere nella resistenza palestinese l’emblema della loro stessa lotta per l’emancipazione dal colonialismo e dall’imperialismo[58], i regimi arabi, sia repubblicani che monarchici, che avevano sfruttato la causa della Palestina per affermarsi e legittimarsi come rappresentanti dei loro popoli, una volta consolidato il loro potere (oppressivo, anti-progressista, politicamente dipendente dalla tolleranza americana) abbandonano i palestinesi al loro destino.
Mentre cresce nel mondo arabo l’odio per gli Stati Uniti[59], i governanti fanno a gara per accedere al dorato mondo occidentale degli affari.
Leggiamo sul Financial Time: “Funzionari occidentali e arabi temono che gli Stati Uniti – da tempo la potenza straniera dominante nella regione – stiano alienando un’intera coorte di giovani arabi, paragonando l’indignazione innescata dalla guerra di Gaza alla reazione regionale che seguì l’invasione dell’Iraq guidata dagli Stati Uniti nel 2003. ‘Stiamo assistendo a livelli di rabbia senza precedenti nei confronti dell’Occidente, e degli Stati Uniti in particolare’, ha affermato un diplomatico occidentale nella regione. ‘Questo è peggio del 2003, quando [l’Occidente] ha perso gran parte della sua autorità morale. Ora temo che perderemo la prossima generazione’. […] I giovani arabi hanno boicottato i marchi statunitensi, tra cui Starbucks e McDonald’s, per il loro presunto sostegno a Israele, hanno abbandonato i piani per studiare negli Stati Uniti e hanno rifiutato posti di lavoro presso aziende statunitensi. Si sono svolte proteste anti-americane, in particolare in Yemen e Iraq, dove gli Stati Uniti hanno lanciato attacchi contro gruppi armati allineati con l’Iran”[60].
Combattere per la pace
Ai giovani palestinesi non è data altra possibilità che combattere con le armi per la propria emancipazione dall’oppressione colonialista come da quella della soggezione di classe imposta da élites settarie.
La barbarie dell’attacco del 7 ottobre di Hamas sui civili israeliani – al di là dell’essere stato incommensurabilmente superato in efferatezza e inciviltà dalla devastazione disumana prodotta dalla risposta militare israeliana – non deve comunque distrarre da quello che è la causa storica e la realtà attuale che sta alla base di questa guerra, ossia l’occupazione e l’oppressione esercitata dai governi israeliani con lo stato di apartheid, lo sfruttamento e l’avvilimento della popolazione palestinese.
Pur essendo personalmente assolutamente contraria al settarismo islamista e al dispotismo fazioso delle vecchie gerarchie, dal mio punto di vista non si può che accettare questa resistenza palestinese qualunque dirigenza abbia unitariamente deciso di darsi in queste circostanze e difenderla dal pregiudizio delle fanatiche campagne della stampa ufficiale e dal supporto che il nostro governo assicura, in armi e scambi commerciali ad Israele.
“I palestinesi sono pronti a partecipare a qualsiasi forma di resistenza. Uno dei problemi è che la stessa Autorità palestinese continua a impedire la creazione di una leadership unificata”, afferma Marwan Barghouti in una intervista del marzo 2024, e prosegue dicendo che “[noi palestinesi] dobbiamo continuare a lottare per una leadership unita, dobbiamo imporla all’Autorità palestinese e abbiamo il diritto di chiedere libere elezioni democratiche, che è l’unico modo per la Palestina di esercitare un cambiamento politico e una riforma democratica. Se ci fossero state le elezioni nel 2021 non saremmo in questa situazione. L’incontro [delle fazioni palestinesi, ndr] a cui ho partecipato a Mosca ha stabilito che, in primo luogo, tutti i partiti devono essere ammessi nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) che è considerata la rappresentante del popolo palestinese”.
La nascita di nuove formazioni aconfessionali e nate dal tessuto sociale piuttosto che dal seno delle milizie potrebbe ridare vita alle istanze rivoluzionarie che avevano fatto del movimento di liberazione della Palestina un simbolo della lotta anti-coloniale e antimperialista. A queste componenti in crescita dovremmo, a mio avviso, dare sostegno almeno amplificandone la voce e favorendo il dialogo con quelle realtà che, in Israele come nella diaspora ebraica, manifestano contro l’occupazione e la guerra. E, quantomeno, intralciare la vendita di armi[61] e ostacolare la cooperazione militare e di partenariato per lo sviluppo di tecnologie belliche[62] con Israele, e boicottare i commerci con lo Stato coloniale di Israele. Evitando di cadere nella trappola dell’intolleranza culturale che genera aberrazioni quali l’islamofobia e l’antisemitismo.
Nonostante non siamo coinvolti, oggi, in avventure militari dirette, possiamo prepararci a non esserne trascinati dentro domani. Osteggiare apertamente e attivamente, nel nostro Paese e in Europa, le dinamiche che preparano i prossimi scenari bellici, l’imposizione di una economia di e per la guerra, le politiche che favoriscono la divisione in blocchi geo-economici contrapposti (che, inevitabilmente, ci vedrà coinvolti in avventure belliche), la confisca dei diritti sociali in nome di una pretesa “sicurezza”, la cultura della disumanizzazione del diverso, la mancanza di responsabilità individuale e collettiva che porta a giudicare rimanendo spettatori passivi.
Assumersi la responsabilità di combattere per la pace è una necessità improrogabile di fronte alla follia bellicista e militarista che attraversa istituzioni, governi e media: è necessario riconquistare i diritti economici, sociali e politici che producono progresso e cooperazione, coltivare l’accoglienza e l’internazionalismo, avere chiaro che la sicurezza che ci serve è quella sul posto di lavoro, quella della scuola e della sanità pubblica, non quella dei confini.
(www.valeriapoletti.com, 20 marzo 2024)
[1] “…è importante notare che in seno alla letteratura prodotta da Hamas, il concetto di ‘civile’ non è lo stesso che intendiamo comunemente in Occidente. Per il movimento, un colono israeliano non dovrebbe essere considerato un civile de-responsabilizzato; allo stesso modo, un uomo o una donna che abbiano la cittadinanza israeliana ed abbiano svolto il proprio servizio militare per diversi anni, e siano obbligati ad un periodo di riserva, dovrebbero essere esclusi dalla categoria di ‘civili’. È in questo quadro che si può inscrivere il primo intervento di Mohammed Deif, capo delle Brigate Ezzedine Al Qassam, all’indomani dell’operazione del 7 ottobre, in cui ordinava di non ‘uccidere persone anziane e bambini’. E nel quadro della sua campagna di comunicazione, Hamas ha diffuso molti video che mostravano i combattenti nell’atto di evitare di colpire anziani e bambini, in rispetto dei ‘principi islamici’. Questo naturalmente non ha impedito che alcune uccisioni abbiano comunque avuto luogo” (Yassine Slama, La sovrapposizione tra Hamas e il jihadismo: una mistificazione occidentale, 15 novembre 2023, https://orientxxi.info/magazine/la-sovrapposizione-tra-hamas-e-il-jihadismo-una-mistificazione-occidentale,6876).
[2] Valeria Poletti, Hamasland, Palestina, 29 marzo 2009, https://www.uruknet.info/?p=s9553; http://www.rottacomunista.org/contributi/Poletti/2023-10-15_-_HamasLandPalestina.htm
[3] Per un puntuale resoconto della situazione attuale in Israele, vedere: Carlos Roa, Israel future lies in regional economic economic integration, 6 dicembre 2023, https://asiatimes.com/2023/12/israel-future-lies-in-regional-economic-integration/
[4] “L’apertura di relazioni diplomatiche e commerciali con Israele conferma che per gran parte dei governi arabo-islamici il processo di pace israelo-palestinese è l’ultima delle preoccupazioni. Gerusalemme ha accettato formalmente di non procedere con i progetti di annessione nei Territori palestinesi prefigurati dal “visionario” piano di pace Trump-Kushner, offrendo così ai nuovi partner qualche argomento per difendersi dall’accusa di aver tradito ‘la causa araba’. Ma le vere contropartite offerte dall’amministrazione Trump sono state calibrate sui rispettivi interessi nazionali: le forniture militari agli Emirati, il riconoscimento Usa della sovranità marocchina sul Sahara Occidentale, la cancellazione del Sudan dalla lista americana degli Stati sponsor del terrorismo e il reintegro del paese (e della classe dirigente) nel sistema creditizio internazionale. Il riconoscimento formale di Israele da parte degli Emirati ha suscitato, oltre a quella scontata dell’Iran, la rabbia di Recep Tayyip Erdoğan, autoproclamatosi ultimo difensore della causa palestinese. Ad adirare il presidente della Turchia è stato soprattutto il via libera israeliano, come contropartita alla firma degli Accordi, alla fornitura (poi sospesa dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden) di 50 caccia F-35 americani agli Emirati, i quali hanno per anni coperto con operazioni aeree le offensive del generale Haftar in Libia” (Federico D’Agostino, Gli Accordi di Abramo e l’astuzia della ragione, 13 aprile 2021, https://www.limesonline.com/rubriche/ayn-lezion/gli-accordi-di-abramo-e-l-astuzia-della-ragione-14610129/).
[5] David Neuhaus, Israele e il Golfo: pace o soltanto prosperità?, 17 ottobre 2020, https://www.laciviltacattolica.it/articolo/israele-e-il-golfo-pace-o-soltanto-prosperita/
[6] “Anche la Palestina disporrebbe di riserve offshore. Nel 1999 l’Autorità Palestinese concesse una licenza per la ricerca di idrocarburi al British Gas Group, che l’anno successivo scoprì un grosso giacimento al largo delle coste di Gaza, noto come Gaza Marine. Se sfruttato adeguatamente, il giacimento potrebbe coprire l’intero fabbisogno palestinese di gas e consentirebbe anche di effettuare esportazioni. Tuttavia, i palestinesi non possono estrarre il gas di Gaza Marine: nel 2007, in seguito all’ascesa al potere di Hamas, Israele ha dichiarato un blocco navale intorno alla Striscia, impedendo così anche l’accesso al giacimento” (a cura di Erminio Fonzo, Il ruolo del petrolio e del gas nel conflitto israelo-palestinese: una questione poco conosciuta, 14 ottobre 2023, https://www.geopop.it/il-ruolo-del-petrolio-e-del-gas-nel-conflitto-israelo-palestinese-una-questione-poco-conosciuta/
[7] Il 26 luglio 1956 il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser annunciò la nazionalizzazione del Canale di Suez, fino ad allora controllato da una società per azioni anglo-francese. Francia e Gran Bretagna intervennero militarmente in difesa degli interessi della Società e Israele, contrario all’affermazione concreta della sovranità egiziana e al programma panarabo di Nasser, unì le sue truppe alla spedizione. L’attacco anglo-franco-israeliano venne tuttavia fermato dall’intervento diplomatico sovietico-statunitense.
[8] Ankara promuove, invece, l’Iraq Development Road Initiative, un progetto in corso di sviluppo e di negoziato con l’Iraq (ricco di petrolio), il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti.
[9] Gaza non ha industrie né produzione da esportare. Dipende da Israele per la maggior parte dell’acqua potabile e dell’energia elettrica. Le sue piccole aree coltivate fanno parte della zona di sicurezza israeliana. Ha quasi il 50% di disoccupazione e il 50% di dipendenza diretta dagli aiuti esteri.
[10] Gli insediamenti israeliani sono complessi residenziali fortificati per soli ebrei considerati illegali secondo il diritto internazionale.
[11] Israel to bring in 65,000 foreign building workers to replace Palestinians, 4 febbraio 2024, https://www.timesofisrael.com/liveblog_entry/israel-to-bring-in-65000-foreign-building-workers-to-replace-palestinians/. “[I lavoratori migranti] Non hanno bisogno di essere soggetti al sistema di apartheid imposto ai palestinesi perché il loro status di migranti temporanei garantisce loro il controllo sociale e la privazione dei diritti civili in modo più efficace, e ovviamente perché non chiedono la restituzione delle terre occupate e non hanno rivendicazioni politiche su uno stato. In seguito all’attacco di Hamas del 7 ottobre, Israele ha deportato migliaia di lavoratori palestinesi a Gaza mentre circa 10.000 lavoratori agricoli stranieri sono fuggiti dal paese. Le imprese edili israeliane hanno chiesto al governo di consentire loro di assumere 100.000 lavoratori indiani per sostituire i palestinesi. Le masse palestinesi sono passate dall’essere una forza lavoro strettamente controllata e super-sfruttata per il capitale israeliano e transnazionale all’essere un’umanità in eccesso che ostacola un nuovo ciclo di espansione capitalista” (William I. Robinson e Hoai-an Nguyen, Gaza: a ghastly window into the crisis of global capitalism, 15 gennaio 2024, https://thephilosophicalsalon.com/gaza-a-ghastly-window-into-the-crisis-of-global-capitalism/).
[12] Israele conquistò Gerusalemme est, insieme alla Cisgiordania e Gaza, nella guerra del 1967 e la annesse pur senza ottenere il riconoscimento a livello internazionale. I palestinesi vogliono uno Stato in tutti e tre i territori, con Gerusalemme est come capitale. Dal momento che non ha avuto di fronte una leadership palestinese forte e unificata dagli accordi di Oslo in poi, Israele ha goduto per decenni della libertà di attuare le sue politiche espansionistiche e coloniali in assenza di una significativa opposizione palestinese.
[13] Umberto De Giovannangeli, Il piano di Israele per annettere la Cisgiordania, 8 giugno 2020, https://www.limesonline.com/limesplus/il-piano-di-israele-per-annettere-la-cisgiordania-14707360/; cfr. anche: International community must act to end Israel’s annexation of occupied West Bank, including east Jerusalem, and defend international law: UN experts, 26 luglio 2023, https://www.ohchr.org/en/press-releases/2023/07/international-community-must-act-end-israels-annexation-occupied-west-bank
[14] Cfr.: Israel ministers back calls to expel Palestinians and build Jewish settlements in Gaza, 29 gennaio 2024, https://www.newarab.com/news/israel-ministers-back-calls-build-settlements-gaza
[15] Jessica Buxbaum, In Israel, the resettlement of Gaza is no longer a fringe idea, 7 febbraio 2024, https://www.newarab.com/analysis/israeli-resettlement-gaza-no-longer-fringe-idea
[16] Cfr.: Umberto De Giovannangeli, Una legge geopolitica, la terra d’Israele è superiore allo stato, 10 ottobre 2018, https://www.limesonline.com/rivista/una-legge-geopolitica-la-terra-d-israele-e-superiore-allo-stato-14631906/. Scrive l’autore: “La riprova è nella bocciatura di un emendamento del Meretz che definiva il contesto di applicazione dell’autodeterminazione nazionale concessa al popolo ebraico entro gli attuali confini dello Stato d’Israele. Prima che politica, la vittoria della destra ebraica (nelle sue diverse articolazioni partitiche) è culturale, perché ha saputo ridefinire la psicologia di una nazione sulla base di una visione nazional-religiosa che trae fondamento dal revisionismo sionista di Ze’ev Jabotinsky, vate ideologico del quale fu segretario e tenace assertore Bentzion Netanyahu, padre dell’attuale premier israeliano. Di Jabotinsky, Bentzion Netanyahu apprezzava soprattutto il disegno di creare lo ‘Stato degli ebrei’ sulle due rive del Giordano. Non importava come. Ogni mezzo, anche il più cruento, era lecito, ‘benedetto da Dio’, se serviva a raggiungere la meta. Chiunque si frapponesse a questo disegno divino per Bentzion era nemico, ostacolo da rimuovere. Nemici anzitutto gli arabi che popolavano la Palestina. Gli avversari interni avevano invece il volto dei sionisti tradizionali, quali Chaim Weizman o David Ben-Gurion. I libri di storia israeliani parlano di loro come “padri della patria”, ma in casa Netanyahu questa definizione elogiativa non aveva diritto di cittadinanza. Per Bentzion, e più tardi per Bibi, Weizman e Ben-Gurion sono stati solo degli ingenui pericolosi, oltre che dei laici incalliti in quanto fautori della supremazia di Medinat Yisra’el su Eretz Yisra’el. Ingenui pericolosi: apprezzamento leggero se rapportato alla pesante definizione con cui Jabotinsky usava bollare i suoi avversari: “Svastiche rosse”.
[17] Majority of Israelis oppose the annexation, resettlement of Gaza – poll, 17 dicembre 2023, https://www.timesofisrael.com/liveblog_entry/majority-of-israelis-oppose-the-annexation-resettlement-of-gaza-poll/
[18] The Hamas Charter – The Ideology Behind The Massacre, 23 ottobre 2023, https://www.memri.org/reports/hamas-charter-%E2%80%93-ideology-behind-massacre
[19] Hamas in 2017: The document in full, 2 maggio 2017, https://www.middleeasteye.net/news/hamas-2017-document-full
[20] Our Narrative… Operation Al-Aqsa Flood, 21 gennaio 2024: www.palestinechronicle.com/wp-content/uploads/2024/01/PDF.pdf
[21] “L’Islam non ammette il concetto di nazione se non in senso ideologico, come entità ideale che comprende tutta la comunità dei fedeli indipendentemente dalla loro appartenenza territoriale, e non concepisce lo Stato se non come struttura di potere secolare che dà una base concreta al dettato dell’autorità universalistica della religione” (Valeria Poletti, Il campo di battaglia: i movimenti e le strategie di lotta, in Rosso Baghdad – Il Ponte, novembre 2007).
[22] Cfr.: Valeria Poletti, Hamasland, Palestina (op. cit.).
[23] Tal Schneider, For years, Netanyahu propped up Hamas. Now it’s blown up in our faces, 8 ottobre 2023, https://www.timesofisrael.com/for-years-netanyahu-propped-up-hamas-now-its-blown-up-in-our-faces/
[24] La prima battaglia di Hamas non è stata contro Israele, ma contro altri palestinesi. Già nel settembre 2007 i miliziani della Forza esecutiva, la polizia che opera nella Striscia di Gaza, sequestrano sei giornalisti che documentano la pacifica manifestazione in piazza el Katiba. E l’11 novembre dello stesso anno i miliziani islamisti, comandati da Youssef al Zahar, sparano sulla folla che commemora la morte di Arafat, che protesta contro il colpo di stato effettuato da Hamas e contro il suo subordinarsi alle direttive iraniane, e che chiede la costituzione di un governo di unità nazionale: sette morti, 150 feriti. Un anno dopo, la celebrazione della stessa ricorrenza verrà vietata a Gaza, mentre le bandiere della Palestina saranno proibite (Valeria Poletti, Hamasland, Palestina, op. cit.). Nel marzo 2019 e nel luglio 2023 si sono viste a Gaza le più grandi manifestazioni di protesta contro la drammatica situazione di povertà, disoccupazione, tasse e aumenti dei prezzi, disperazione sociale: lo slogan scandito dai dimostranti era “vogliamo vivere”. In entrambe i casi la polizia di Hamas ha risposto brutalmente, sparando e uccidendo. Cfr.: Gianluca Pacchiani, Le proteste contro Hamas riemergono nelle strade di Gaza, ma persisteranno?, 8 agosto 2023, https://www.timesofisrael.com/protests-against-hamas-reemerge-in-the-streets-of-gaza-but-will-they-persist/; e Yolande Knell, Gaza economic protests expose cracks in Hamas’s rule, 18 marzo 2019, https://www.bbc.com/news/world-middle-east-47616809
[25] Cfr.: Eugenio Roscini Vitali, L’arsenale di Hamas, 31 dicembre 2014, https://www.analisidifesa.it/2014/12/larsenale-di-hamas/
[26] “Interrogati sul loro punto di vista sulle varie entità, gli intervistati hanno risposto in grande maggioranza a sostegno delle ali militari delle organizzazioni terroristiche; Jihad islamica palestinese con l’84%; le Brigate dei Martiri di al-Aqsa con l’80%, e le Brigate di al-Qassam con il più alto 89%, sebbene Hamas nel suo complesso abbia ricevuto un inferiore 76%. Inoltre, il 65% ha identificato la guerra come una guerra contro tutti i palestinesi, e il 98% ha dichiarato che ‘non perdoneranno né dimenticheranno mai’. Pertanto, il 68% ha indicato che il proprio sostegno alla soluzione dei due Stati è diminuito, e l’80% è più determinato a favore di uno Stato palestinese. Tuttavia, il 90% ha risposto ‘la convivenza è sempre più impossibile’” (Guy Azriel, Paz Grace, Survey finds majority in the West Bank support the Oct 7 massacre, 16 novembre 2023, https://www.i24news.tv/en/news/middle-east/palestinian-territories/1700158968-survey-finds-majority-in-the-west-bank-justify-the-oct-7-massacre).
[27] Traduzione dall’arabo a cura di Chiara Pellegrino e Michele Brignone, La traduzione integrale del comunicato con cui il capo del braccio militare di Hamas ha lanciato l’attacco a Israele, 2 novembre 2023, https://www.oasiscenter.eu/it/annunciamo-inizio-del-diluvio-di-al-aqsa
[28] PFLP Leader: Palestine Has No Choice But to Escalate Resistance in West Bank, 28 settembre 2023, https://orinocotribune.com/pflp-leader-palestine-has-no-choice-but-to-escalate-resistance-in-west-bank/
[29] Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina | Dichiarazione sulla battaglia “Alluvione Al Aqsa”, 9 ottobre 2023, http://www.antiper.org/2023/10/09/fplp-dichiarazione-battaglia-alaqsaflood/
[30] “Sono in gran parte giovani laici di età compresa tra i 18 e i 24 anni che non frequentano le moschee e non sono influenzati da figure religiose”. Molti provengono da Fatḥ, che hanno abbandonato per il suo appiattimento sulle posizioni dell’Anp, ma anche per l’avvicinamento ai servizi di sicurezza di Rāmallāh (Umberto De Giovannangeli, L’intifada dei Leoni di Nāblus, 13 aprile 2023, https://www.limesonline.com/rivista/l-intifada-dei-leoni-di-nablus-14646213/
[31] “La Fossa dei Leoni a Nablus e la Brigata Jenin rappresentano una minaccia alla sicurezza per le forze israeliane e per i coloni che vivono in Cisgiordania e Gerusalemme”, ha affermato Khaldoun Barghouti, un analista palestinese specializzato in affari israeliani. “Israele teme… l’emergere di nuovi gruppi imitatori in altre città palestinesi o campi profughi. Questa situazione potrebbe portare a un’escalation in Cisgiordania”. Il sostegno a queste milizie indipendenti è in costante crescita tanto in Cisgiordania che a Gaza. Per darne un’idea, già nel febbraio 2023 “I manifestanti sono scesi in piazza nelle città di tutta la Cisgiordania e di Gaza in risposta a un appello a manifestare da parte del gruppo terroristico Lion’s Den, una straordinaria dimostrazione di solidarietà con il gruppo armato di fronte allo sforzo concertato israeliano negli ultimi mesi per smantellarlo” (Palestinians march throughout West Bank, Gaza in mass show of support for Lion’s Den, 24 febbraio 2023, https://www.timesofisrael.com/palestinians-march-throughout-west-bank-gaza-in-mass-show-of-support-for-lions-den/).
[32] “La direzione di Abbas e la sua politica di apertura verso Israele furono brevemente sfidati tra il 2004 e il 2006 da un altro capo di spicco di Fatah, Marwan Barghouti, detenuto dal 2002 in Israele e condannato nel 2004 a cinque ergastoli. Barghouti, ritenuto un capo delle milizie Tanzim e delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa, affiliate a Fatah, ha avuto un ruolo di spicco nella prima intifada ed esprime quella che è definita ‘la nuova dirigenza’ di Fatah, in opposizione alla ‘vecchia guardia’ del defunto Arafat e di Mahmud Abbas. La militanza di Barghouti, la sua intransigenza verso Israele, e la sua detenzione nelle carceri israeliane ne hanno aumentato la popolarità tra i palestinesi, tanto che nel 2004 Barghouti presentò la sua candidatura indipendente alle presidenziali del 2005, in opposizione ad Abbas. La sfida durò poco, in quanto Barghouti stesso decise, nel dicembre 2004, di ritirare la propria candidatura dal carcere favorendo la vittoria di Abbas. In seguito, nel dicembre 2005, fondò un nuovo partito, al-Mustaqbal (il futuro), composto dalla ‘nuova dirigenza’ di Fatah e che comprendeva importanti comandanti delle forze di sicurezza come Jibril Rajub e Mohammed Dahlan” (Gnosis 1/2008, https://gnosis.aisi.gov.it/Gnosis/Rivista14.nsf/servnavig/17).
[33] US House passes $14.3bn aid package for Israel despite Democratic opposition, 3 novembre 2023, https://www.theguardian.com/us-news/2023/nov/02/us-house-republicans-aid-israel-biden-administration-threatens-veto
[34] Ron Kampeas, $14b US aid package for Israel crafted with eye to ‘multi-front war,’ not just Gaza, 21febbraio 2024, https://www.timesofisrael.com/14b-us-aid-package-for-israel-crafted-with-eye-to-multi-front-war-not-just-gaza/. Dal 2017 gli Stati Uniti hanno una base militare permanente in Israele.
[35] Sono stati conclusi accordi di pace e di cooperazione economica tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, e successivamente il Sudan e il Marocco, un processo portato avanti attraverso la mediazione americana. La prospettiva era/è quella di estendere i patti sottoscritti alla monarchia saudita.
[36] Che l’’obiettivo di questo progetto sia quello di fermare la Road and Belt cinese è evidente in quanto la funzionalità economica del corridoio è limitata: ripetuti spostamenti dei container da mezzi marittimi a ferroviari e viceversa comportano tempi e costi probabilmente superiori a quelli richiesti dalla rotta verso il Canale di Suez. L’IMEC vuole anche impedire che l’India, attraverso il corridoio INSTC (già in stato avanzato di realizzazione) che la collega alla Russia via Iran e Azerbaijan, possa optare per una connessione economica privilegiata con Mosca: Delhi deve rimanere saldamente legata al blocco occidentale – quello, cioè, funzionale economicamente, politicamente e strategicamente alla politica americana del “friend shoring” – sganciandola, quanto più possibile, dal polo costituito dai BRICS. Un colpo alla Russia e un colpo alla Cina.
[37] Elena Rossetti, La visita di Biden: passi avanti e sfide alla creazione di una nuova architettura di sicurezza in Medio Oriente, 5 agosto 2022, https://www.geopolitica.info/visita-biden-medio-oriente-architettura-sicurezza/
[38] “Alla fine del 2022, il fatturato commerciale tra Russia e Iran è stato pari a 4,9 miliardi di dollari, registrando un aumento del 20 per cento rispetto al 2021. Lo ha reso noto il direttore della Camera di commercio e dell’industria russo, Sergej Katiryn, ripreso dal quotidiano ‘Kommersant’. ‘Riteniamo che questa quota possa essere aumentata a 40 miliardi di dollari nei prossimi anni’, ha detto Katyrin, aggiungendo che ci sono i prerequisiti per questo aumento. Secondo il funzionario, nelle condizioni delle sanzioni occidentali, le imprese russe mostrano un forte interesse per la cooperazione con le società iraniane. Per Katiryn, gli investimenti reciproci e la cooperazione in zone economiche speciali tra i Paesi rappresentano ‘un grande potenziale’” (Russia-Iran: scambi commerciali pari a 4,9 miliardi di dollari nel 2022, 1 marzo 2023, https://www.agenzianova.com/a/640a7ddb2244d6.16149113/4268743/2023-03-01/russia-iran-scambi-commerciali-pari-a-4-9-miliardi-di-dollari-nel-2022).
[39] Cfr.: Marco Dell’Aguzzo, Tutti i piani miliardari di Russia e Iran sul commercio, 27 dicembre 2022, https://www.startmag.it/economia/tutti-i-piani-miliardari-di-russia-e-iran-sul-commercio/
[40] Cfr.: Delegazioni di Hamas e Iran a Mosca, 27 ottobre 2023, https://ww.rsi.ch/info/mondo/Delegazioni-di-Hamas-e-Iran-a-Mosca–1972319.html
[41] Per una sintetica ma completa informazione in proposito, vedi Daniel Levin, History of Iran, Hamas & Islamic Jihad Ties, 11 ottobre 2023, https://iranprimer.usip.org/blog/2018/jul/09/iran-hamas-and-palestinian-islamic-jihad
[42] “Nel frattempo, nel novembre 1982 l’Iran aveva inviato 1.500 Guardiani della Rivoluzione, i Pasdaran, nella Bekaa, per formare i primi battaglioni della resistenza islamica a Israele. […] Nel gennaio 1984 l’ambasciatore [iraniano] in carica a Beirut, Fakhr Ruhani, dichiarava: ‘Dal momento che il Libano è considerato il cuore dei Paesi arabi del Medio Oriente, una piattaforma dalla quale sono partite numerose idee propagate nel resto del mondo arabo, possiamo concludere che l’esistenza di un movimento islamico in questo Paese genererà movimenti islamici in tutto il mondo arabo’” (a cura di Sabrina Mervin, Hezbolla – Epoché, Milano, 2009).
[43] Cfr.: US held secret talks with Iran on Red Sea attacks: Financial Times, 13 marzo 2024, https://www.middleeasteye.net/live-blog/live-blog-update/us-held-secret-talks-iran-red-sea-attacks-financial-times
[44] Gli Houthi hanno interesse a utilizzare la capacità di destabilizzare la regione per trarne vantaggio nelle trattative con Aden e con i sauditi. Inoltre, essendo la Causa palestinese profondamente sentita tra la popolazione, portando un attacco concreto a Israele serve a legittimare un governo incapace di risolvere i drammatici problemi economici del Paese. Ma, certamente, il sostegno finanziario di Teheran non è estraneo alla scelta delle operazioni armate.
[45] Spiega Carboni: “Mortai, razzi, missili, mine anticarro, fucili e anche i parapendii usati per superare il muro di Gaza. Sono quasi tutti sistemi forniti dall’Iran, ma una piccola parte è arrivata dalla Corea del Nord e dalla Siria” (Kevin Carboni, Da dove arrivano le armi usate da Hamas per attaccare Israele, 16 ottobre 2023, https://www.wired.it/article/hamas-armi-droni-iran-israele-gaza-palestina-russia/).
[46] La competizione per le risorse economiche, in particolare per il controllo e l’esportazione di petrolio e gas, è stata un fattore centrale nelle tensioni tra Iran e Arabia Saudita. Entrambe le nazioni sono importanti produttori di energia: l’Arabia Saudita è un membro dominante dell’OPEC (l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) e l’Iran è un importante esportatore. La rivalità si estende all’assicurarsi quote di mercato e influenza nel mercato globale dell’energia.
[47] Come scrivevo nel 2015, “La guerra interna al mondo musulmano, che sia stata scatenata con o senza attivo intervento americano, ha favorito i disegni espansionistici iraniani: l’istituzione di fatto di un protettorato su larga parte dell’Iraq e la gestione della sua ricchezza petrolifera, un buon posizionamento sul fronte afghano, avamposti avanzati verso il Mediterraneo grazie al dominio indisturbato di Hezbollah in Libano e della influenza esercitata su Hamas a Gaza, la concreta possibilità di esercitare un ruolo di primo piano in Siria, l’avanzamento [poi stoppato da Trump] del programma nucleare. Gli ayatollah hanno, così, in mano tutti i presupposti necessari per poter minacciare gli Stati del Golfo Persico: ad essi, non a Israele, è indirizzata la sfida iraniana. […] Una cogestione sciita-sunnita, cioè delle due massime espressioni ultra-autoritarie della destra islamica, che non comprometta l’evolversi di una nuova fase dello sviluppo capitalistico nella regione, sarebbe benedetta dagli Stati Uniti che, per realizzarla, non avrebbero speso né sangue né dollari. E non spenderebbero dollari né sangue in una possibile endemica guerra inter-araba o inter-musulmana, non si impegnerebbero in altre avventure belliche, costose e impopolari” (Valeria Poletti, L’incendio del Medioriente, le connessioni inattese, Prospettiva Editrice, Civitavecchia, 2015).
[48] The New Arab staff, Riyadh hosts joint Arab-Islamic summit after disagreements over response to war on Gaza – report, 11 novembre 2023, https://www.newarab.com/news/disagreements-led-joint-arab-oic-gaza-summit-riyadh
[49] Il giacimento di gas offshore di fronte alle coste di Gaza è controllato da Israele e “Israele controlla la maggior parte delle acque superficiali palestinesi, come il fiume Giordano e il Mar Morto, lasciando ai palestinesi altra alternativa se non quella di fare affidamento sulle acque sotterranee. Tuttavia, con circa il 70% degli insediamenti israeliani situati nel bacino idrico orientale della Cisgiordania, e il 45% di tutti gli insediamenti situati in aree sensibili alla ricarica del bacino acquifero in Cisgiordania, gli insediamenti israeliani hanno sequestrato la maggior parte delle acque sotterranee palestinesi. I coloni israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme est acque sotterranee palestinesi. I coloni israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme Est contano oggi più di 750.000 persone. Nella sola Cisgiordania ci sono almeno 500.000 coloni [attualmente sono più di 700.000, nda] che consumano circa il 32% delle acque sotterranee, mentre i 3,7 milioni di palestinesi che condividono queste risorse possono accedervi solo al 18%” (Reham Owda, How Israeli Settlements Impede the Two-State Solution, 7 marzo 2023, https://carnegieendowment.org/sada/89215).
[50] Da un sondaggio Gallup rileviamo che “nei mesi e nelle settimane precedenti l’attacco del 7 ottobre, circa un palestinese su quattro (24%) che vive in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est ha dichiarato di sostenere una soluzione a due Stati al conflitto, con uno Stato palestinese indipendente. esistenti al fianco di Israele. […] I palestinesi più giovani non sostengono più una soluzione che vedrebbe due paesi coesistere fianco a fianco. Un palestinese su sei tra i 15 e i 25 anni ha dichiarato di sostenere la soluzione dei due Stati, rispetto al 34% dei palestinesi di età pari o superiore a 46 anni. Considerata la demografia giovanile dei Territori Palestinesi, dove il 69% della popolazione ha meno di 29 anni, lo scetticismo tra i giovani segnala una svolta preoccupante per il futuro qualora una soluzione diplomatica sembrasse fuori portata” (Jay Loschky, Palestinians Lack Faith in Biden, Two-State Solution, 18 ottobre 2023, https://news.gallup.com/poll/512828/palestinians-lack-faith-biden-two-state solution.aspx?utm_source=google&utm_medium=rss&utm_campaign=syndication#:~:text=Generational%20Divide%20on%20the%20Two,Palestinians%20aged%2046%20and%20older).
[51] “Secondo i dati del Tesoro Usa, aggiornati a febbraio 2023, il debito sovrano statunitense detenuto all’estero ammonta a 7.343,6 miliardi di dollari. […] Il secondo detentore del debito federale Usa è la Repubblica Popolare Cinese, ossia il principale rivale del Numero Uno in questo secolo, con 848,8 miliardi di dollari” (Carta: A chi è in mano il debito USA, 5 maggio 2023, https://www.limesonline.com/carte/carta-a-chi-e-in-mano-il-debito-usa-14717673/).
[52] Israele, Gaza e la guerra economica mondiale, 26 ottobre 2023, https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2023/10/26/gaza-guerra-protezionismo-usa/
[53] Cfr.: Prof. Tamar Hermann, Dr. Or Anabi, Most Israelis Oppose Meeting US Demands to Shift to New Phase of War, 2 gennaio 2024, https://en.idi.org.il/articles/52085
[54] “Adesso la tensione è ancora più alta. Gli attivisti che spingono per la pace, una società condivisa e la solidarietà tra ebrei e arabi affermano che parlare apertamente è diventato pericoloso, anche per semplici espressioni di cordoglio per la morte di civili a Gaza (…) ‘Quando vado a un funerale dove tutti sono in lutto dicono: Uccidiamoli. Non dirò quello che penso, sai? Sono venuta solo per confortarli nel loro dolore’, ha detto [una volontaria di Lod]” (Connor Donevan e Ari Shapiro, The space for peace and Jewish-Arab solidarity is shrinking in wartime Israel, 25 ottobre 2023, https://www.npr.org/2023/10/25/1208227647/israel-gaza-hamas-jewish-palestinian-peace-activists-lod).
[55] Ibidem.
[56] “Standing Together è un movimento di base che mobilita cittadini ebrei e palestinesi di Israele nel perseguimento della pace, dell’uguaglianza e della giustizia sociale e climatica. Mentre la minoranza che beneficia dello status quo dell’occupazione e della disuguaglianza economica cerca di mantenerci divisi, sappiamo che noi – la maggioranza – abbiamo molto più in comune di ciò che ci distingue. Quando restiamo uniti, siamo abbastanza forti da alterare radicalmente la realtà socio-politica esistente. Il futuro che vogliamo – pace e indipendenza per israeliani e palestinesi, piena uguaglianza per tutti i cittadini e vera giustizia sociale, economica e ambientale – è possibile. Perché dove c’è lotta, c’è speranza” (https://www.standing-together.org/en).
[57] Cfr.: Daniele Estrin e Cristina Arrasmith, Mothers of IDF soldiers protest to bring troops home, 18 gennaio 2024, https://www.npr.org/2024/01/18/1225446340/mothers-of-idf-soldiers-protest-to-bring-troops-home
[58] Già nel 2019-2020, un sondaggio presso l’opinione pubblica nel mondo arabo condotta dall’Arab Center for Research and Policy Studies di Doha, in Qatar, informava che “oltre tre quarti della popolazione del mondo arabo concorda sul fatto che la causa palestinese riguarda tutti gli arabi, e non solo i palestinesi. Va notato che l’89% dei sauditi concorda sul fatto che la questione palestinese preoccupa tutti gli arabi e non semplicemente solo i palestinesi stessi. L’opinione pubblica del Golfo ha la più alta percentuale di intervistati che considerano la causa palestinese un problema per tutti gli arabi, seguita dall’opinione pubblica del Maghreb arabo. […] Una stragrande maggioranza (88%) degli arabi disapproverebbe il riconoscimento di Israele da parte dei propri paesi d’origine, mentre solo il 6% accetterebbe il riconoscimento diplomatico formale. Quando è stato chiesto di spiegare le ragioni delle loro posizioni, gli intervistati contrari ai rapporti diplomatici tra i loro Paesi e Israele hanno citato le politiche coloniali ed espansionistiche di Israele, nonché il suo razzismo nei confronti dei palestinesi e la persistenza nell’espropriazione della terra palestinese. Inoltre, la metà di coloro che hanno accettato il riconoscimento di Israele da parte dei propri governi hanno subordinato tale riconoscimento alla creazione di uno stato palestinese indipendente” (L’indice di opinione araba 2019-2020: i principali risultati in breve, 16 novembre 2020, https://arabcenterdc.org/resource/the-2019-2020-arab-opinion-index-main-results-in-brief/).
[59] “Nel complesso, quando viene presentato un elenco di Paesi e viene chiesto se ciascun Paese rappresenta una minaccia per la sicurezza e la stabilità della regione, l’89% degli arabi ritiene che Israele rappresenti una minaccia, l’81% ritiene che gli Stati Uniti costituiscano una minaccia, il 67% degli intervistati ha espresso la convinzione che le politiche iraniane minaccino la sicurezza e la stabilità della regione, mentre questa percentuale era del 55% per quanto riguarda le politiche russe e del 44% per quanto riguarda le politiche francesi” (ibidem).
[60] Raya Jalabi, Arab world directs anger at US and the west for Gaza devastation, 7 marzo 2024, https://www.ft.com/content/7392be54-fbe6-4f22-95ec-94c5309e26ff
[61] Quanto alla fornitura di armi a Israele, “l’Italia si colloca al terzo posto [dopo Stati Uniti e Germania] col 5,6%” (Francesco Mercadante, Armi in Medio Oriente, uno sguardo agli interessi in gioco, 6 dicembre 2023, https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2023/12/06/armi-israele-hamas-interessi/).
[62] “Leonardo è sempre più concentrato sui rapporti internazionali e, in quest’ottica, ha appena siglato due accordi, uno con Israeli Innovation Authority e l’altro con Ramot Tel Aviv University, nell’ambito dell’innovazione. L’obiettivo è rafforzare la propria posizione nel mondo, favorendo rapporti strutturali con Paesi che vengono considerati strategici; tra questi c’è, appunto, Israele. Non è un caso che, a fine novembre 2022, l’azienda guidata da Alessandro Profumo abbia portato a termine l’operazione di fusione tra la controllata statunitense Leonardo DRS, e la società quotata israeliana Rada, che ha portato all’automatica quotazione di DRS. […] Come si è accennato, sono due gli accordi firmati. Il primo è stato stipulato con l’Israel Innovation Authority (IIA) agenzia pubblica indipendente a supporto tecnico e finanziario di progetti innovativi promossi da start up, aziende mature, multinazionali e università israeliane e internazionali. Il secondo accordo è stato siglato con Ramot, technology transfer company per la valorizzazione della proprietà intellettuale dell’Università di Tel Aviv, ateneo che ha investito, a oggi, in oltre 100 startup e lavora con le aziende sulla ricerca applicata, utilizzando anche i fondi dell’IIA. Le partnership, sono state promosse da Leonardo e sostenute e coordinate dall’Ambasciata d’Italia in Israele, con il contributo dell’Ambasciata d’Israele in Italia e la Missione Economica d’Israele a Milano” (Leonardo, due partnership in Israele per favorire lo sviluppo di start up, 3 febbraio 2023, https://www.leonardo.com/it/news-and-stories-detail/-/detail/leonardo-sole24ore-startup-partnership-israel).