Minima Cardiniana 463/6

Domenica 14 aprile 2024, III Domenica di Pasqua
Santi Tiburzio, Valeriano e Massimo martiri

VELA A MOMPRACEM
CINESI
di Luigi G. de Anna
Teeng si guarda intorno con curiosità. Guarda attentamente le facce. Forse cerca qualche somiglianza. Suo padre è un cinese di Thailandia, veniva da Mäe Salong.
Per arrivare a Mäe Salong si deve salire per una strada per fortuna asfaltata, che si inerpica sulla montagna. Siamo a due ore di auto da Chiang Rai, a pochi chilometri in linea d’aria c’è il plateau di Shan in Myanmar. Si prende la strada per Mäe Chan e poi per Thoed Thaï, il posto di confine è lì vicino, a sei km, ma al calar del sole chiude, troppo pericoloso attraversarlo.
Per esattezza bisognerebbe distinguere: Doi Mäe Salong è la montagna che passa i mille metri della catena di Dao Lao, sulle cui pendici sorge la cittadina di Santikhiri, nome dato all’insediamento cinese dal governo thai.
Mai Li ha da poco passato i quarant’anni, decisamente attraente, si veste elegantemente, senza tradire nell’abito il suo stile cinese.
Siamo nella boutique che completa il suo resort. Servizi da tè in porcellana un po’ dozzinali, riproduzioni di Lord Buddha, pacchetti di caffè. Niente di antico, del resto la stessa Mäe Salong non è antica.
Mai Li è sorpresa nel sentirci parlare italiano.
– Benvenuti!
Mai Li è stata in Italia; ha fatto un rapido giro turistico in Europa.
– Sono stata a Venezia e su quel lago…
Proviamo a venirle in aiuto, no non era il Garda, né il Lago Maggiore.
– Sì, il Lago di Como.
Mai Li è nipote di uno di quegli ufficiali cinesi che si stabilirono qui sulla montagna.
– Mäe Salong è nata per ospitare quanto restava dello sconfitto esercito del Kuomintang. Chiang Kai-shek, dopo avere perduto la sua battaglia contro le forze maoiste, nel dicembre del 1949 si era rifugiato a Taiwan, e quanto restava delle sue truppe ad occidente si ritirò nello Shan, la regione a nord di Burma, Thailandia e Vietnam. Da qui l’esercito burmese li espulse nel 1961. La Thailandia utilizzò quei soldati, circa 15.000, rimasti senza lavoro, nella sua guerriglia contro le formazioni comuniste che si erano sviluppate sulla falsariga del Viet Cong.
Mai Li mi porge un libro che ha su uno scaffale insieme a volumi in cinese: Burma in Revolt di Bertil Lintner.
– Ve lo presto, me lo ridate quando partite.
Il libro di Lintner tratta delle rivolte che le minoranze etniche di Burma intrapresero contro il governo dopo il 1948. Il comportamento dei cinesi del Kuomintang fu ambiguo. Intendevano combattere contro i comunisti in quella regione del Sud-est asiatico, ma sapevano anche fare bene i propri affari con i signori dell’oppio.
– Gli Americani ci aiutarono. Il loro ragionamento era semplice: Mao Zedong, dopo avere vinto la guerra civile in Cina, poteva estendere il proprio potere all’Indocina, all’Indonesia e forse perfino all’Australia. Presto sarebbe cominciata la guerra di Corea. Il mondo libero era in pericolo.
Mai Li ha imparato bene la sua lezione di storia.
Ma forse non è solo propaganda. Ci crede davvero in quella lotta per la libertà.
– Nel 1969 i cinesi dell’ex Kuomintang vennero integrati nell’esercito thailandese come Forze Irregolari Cinesi. Si batterono con accanimento contro i rivoltosi comunisti, come dimostra il loro sacrario, dove un museo ne ricorda il sacrificio. Vi consiglio di visitarlo.
– Ci andremo domani.
– Terminata la lunga lotta, il governo thailandese premiò questi soldati concedendo l’insediamento qui sulla montagna di Doi Mäe Salong e con la cittadinanza thailandese.
– Eravate stanchi di quella guerra?
– I Cinesi sono gente pratica. Sappiamo guardare anche all’utile… L’assimilazione aveva i suoi vantaggi: noi avevamo una nuova patria e il governo di Bangkok poteva sradicare le coltivazioni di papavero da oppio.
– Ma in questo modo perdevate quanto l’oppio vi aveva fornito per continuare la guerriglia, e anche i grossi guadagni che ne ricavavate personalmente.
– È vero, venne eliminata la raffineria di oppio che si trovava qui. Ma poveri non lo diventammo. Il papavero venne sì distrutto, ma al suo posto furono messe piante da frutto, ciliege, prugne, il riso e poi il tè… soprattutto furono le piantagioni di tè a far rifiorire l’economia.
Ci offre una tazza del suo tè; leggero, leggermente profumato.
E poi ci indica gli alberi che fiancheggiano la strada, i Nang Phaya Sua Krong. Furono piantati nel 1982; i suoi fiori sono di un delicato color rosa, come i sakura del Giappone; abbelliscono il paesaggio a partire da gennaio e per tutta la durata dell’inverno. Solo che qui non c’è il Fujiama, ma ci sono colli in parte resi brulli dal debbio e dalla coltivazione del riso.
Mai Li guarda l’orologio, deve ora occuparsi della preparazione della cena. Ci chiede se vogliamo cenare con un piatto di qui, lo stinco di maiale, tun kaa muu, cotto in una leggera salsa. Qui si mangiano specialità cinesi, ma non quelle classiche dei dozzinali ristoranti europei. Roba robusta, da montanari.
C. vuole visitare mercato. Ce n’è uno la mattina, ma comincia alle cinque e termina alle otto, quando noi non siamo neppure al primo cappuccino. Ci vengono dai villaggi vicini, si distinguono le varie etnie dai vestiti delle donne e dai loro copricapi. Lo visitai alcuni anni fa con Claus, il danese colossale che ha una moglie Akha di queste parti e abita sul fianco di una montagna. Ha un cognome cinese anche lui, forse il padre era di qui.
I Cinesi sono il sale dell’Oriente. Hanno fatto fiorire un’economia, magari poi monopolizzandola. Hanno il commercio nel sangue. Certo, anche i Thai e gli Indocinesi ce l’hanno, ma i Cinesi ci fanno i soldi, loro solo gli spiccioli. La China Town di Bangkok riluce degli ori delle gioiellerie, in cui i Cinesi investono (i diamanti li ho invece visti a Nuova Dehli, sembrava di essere capitati nella stanza del tesoro di Sandokan).
I Cinesi accumulano, investono, rivendono. Sfruttano anche. Nel bel libro di Gilbert Roussel, Indochine oubliée si legge un proverbio indocinese:
“Le Vietnamien plante le riz,
Le Cambodgien regarde pusser le riz,
Le Laotien écoute pousser le riz,
Le Chinois mange le riz”
Marguerite Duras nel suo L’Amant del 1984 racconta della passione di un ricco cinese per una giovane francese, ma i padri vigilano sugli amori dei figli.
– Non ho conosciuto mio padre.
Teeng non guarda più con curiosità chi ci passa vicino.
– Abbandonò mia madre quando avevo due anni. Mia madre era figlia di contadini di Phan, lui di un ricco commerciante cinese di Phayao. Un cinese non si mischia con i contadini.
Il viso largo di Teeng, la sua pelle bianca si vedono spesso da queste parti. I Cinesi non sono gialli, chi ha inventato questa favola?
Teeng, quando le dico che ha la pelle di un farang risponde:
– Non ti piace? Preferisci le donne dalla pelle scura di I-san, o delle Hills?
E per protesta richiude l’ombrellino.
E quelle donne dalla pelle scura si sbiancano, comprano creme e lozioni, ingurgitano pillole. Essere di pelle bianca è un pregio, le scure sono contadine, o peggio, montagnards. Questione di gusti, gusti cinesi.
La strada è in salita. Lasciamo l’automobile e proseguiamo a piedi seguendo il filare di alberi dai fiori rosa.
Sulla strada si affacciano i negozi. Alcuni vendono pacchi di banconote cinesi. C., incuriosito, ne prende in mano uno.
– Lo porto a mio nipote, giochiamo spesso a monopoli.
Ovviamente si tratta di facsimili. Ma quando C. va per pagare gli dicono che no, non glielo vendono, è solo per cinesi che fanno offerte al tempio (ma Lord Buddha non se ne accorge che sono falsi? Mistero del Buddhismo Theravada).
C. ci resta male.
Lusia è un’Akha in tutto, anche nella furbizia. Ed entra lei nel negozio; sa qualche parola di cinese. E se ne torna col mazzo di banconote.
Guardo quei commercianti cinesi, le loro mercanzie ammucchiate, ma anche i pick-up di grossa cilindrata e il giorno seguente Me yang l’autista che ci porta al villaggio akha di Lo Yo ci dirà che a Mäe Salong un terreno edificabile costa più che a Bangkok. Me yang ha due mogli: una moglie principale, la “mia luang”, e una concubina, la “mia noi”. Ne aveva anche una terza, la “kik”, l’amante, ma ora risparmia per comprare casa.
Ripenso al libro di Frank Dikötter, The Tragedy of Liberation, che racconta della rivoluzione comunista del 1945-1957. Da mercanti, artigiani, mandarini, il comunismo trasformò i Cinesi in piccoli schiavi di una economia fallimentare, della quale, la generazione successiva, se ne liberò rapidamente. Un amico italiano che vive a Shenzhen mi dice che nella sua città ci sono più Ferrari che in tutta Italia.
Come è possibile cambiare così radicalmente?
Ma i cambiamenti sono rapidi da queste parti.
L’indomani Me yang ci porta, risalendo su una stradina prima asfaltata e poi sterrata, a Lo Yo, il villaggio degli Akha, inerpicato in alto sulle pendici della montagna.
È domenica. La santa messa è appena finita nella piccola chiesa. Non c’è un tempio buddhista, e il cancello in legno con le due statue di uomo dal prominente fallo e di donna dal sesso accentuato sono state relegate in disparte, ma restano per la gioia del turista fotografo. Non servono più. Ora per tenere a bada gli spiriti malefici ci sono i nostri santi.
Sotto la tettoia, accanto alla chiesetta, se ne stanno le donne. Quelle più anziane portano il vestito tradizionale e il copricapo colorato coperto di monete e palline d’argento. Le più giovani invece hanno jeans e magliette.
Un giorno non lontano quei bellissimi abiti saranno usati solo in malinconiche rivisitazioni di un folklore di cui si è perduto il senso.
È il prezzo da pagare al benessere.
Lusia non si ferma a parlare, è schiva, noto un certo imbarazzo. C. l’ha presa per mano, e lei diventa così parte di un mondo farang, e non vuole ammetterlo.
Katai, la proprietaria del parlour dove lavorano Lusia e Teeng, è pure una Akha. Sua madre era una contadina delle montagne, portava la gerla carica di fascine, retta da una fibbia passata sulla fronte, per lunghi tratti di un sentiero di terra rossa. Katai ha aperto il suo parlour nella via principale di Chiang Rai, guadagna discretamente. Ha bisogno di soldi perché la figlia studia medicina.
Torniamo al resort. Due coppie di turisti svedesi si fermano a chiacchierare. Il mio svedese è quello di Finlandia, il loro quello musicale di Svezia. Ma ci capiamo.
I turisti, in questa stagione sono pochi.
Ci aspetta Me yang con il suo pick-up. Ci chiede se al tempio di Phra Boromathat Ched vogliamo andarci a piedi.
Lo vediamo là in alto, sulla cima della montagna.
– Quanti scalini?
– Settecentosettanta.
– Andiamo in auto.
Farangs di poca fede.
Dopo cena torniamo al nostro resort.
Prendo ancora qualche foto dei murales che esaltano il Kuomintang e la Cina nazionalista.
Svoltiamo verso il nostro hotel.
– Guarda questo!
Teeng mi indica un altro murale. Il faccione splendente e solare di Mao Zedong che indica con la mano un lontano orizzonte di gloria e di vittorie.
Nella città del Kuomintang si conferma la saggezza centenaria dei Cinesi, bisogna adattarsi ai tempi. E guardare lontano.