Minima Cardiniana 463/7

Domenica 14 aprile 2024, III Domenica di Pasqua
Santi Tiburzio, Valeriano e Massimo martiri

ARTE, ARTE E ANCORA ARTE
LA DOMENICA DI PASQUA NELLA PITTURA
di Eleonora Genovesi

L’arte e la religione sono, dopo tutto, due strade attraverso le quali gli uomini fuggono dalla realtà concreta nel desiderio dell’estasi” (Clive Bell)

Come già detto il legame tra Arte e Religione è da sempre un legame profondo. L’Arte come Biblia Pauperum, l’Arte come mezzo per raggiungere l’estasi. Dunque l’Arte come ponte tra il divino e l’umano. Questo desiderio dell’uomo di comunicare attraverso l’espressione artistica è testimoniato sin dagli albori della nostra civiltà.
Basta entrare nella Basilica di San Pietro o nella Sainte-Chapelle o nella cattedrale di Durham per prendere atto con i nostri occhi di quanto le arti fossero centrali per l’adorazione cristiana.
Che si tratti di un’icona, di una pala d’altare o di vetrate istoriate, esse sono sempre un modo per alterare la realtà aprendo la porta di accesso alla dimensione divina.
Ma torniamo al tema della Pasqua.
La Pasqua è il culmine del Triduo pasquale, cuore di tutto l’anno liturgico. È la festa più solenne del calendario cristiano. Questa celebrazione annuale segna la resurrezione di Gesù Cristo tre giorni dopo la sua crocifissione. Per i cristiani, il significato della Pasqua è profondo e rappresenta la speranza, la redenzione e la vita eterna. La Parola Pasqua deriva dal greco pascha, a sua volta dall’aramaico pasah e significa propriamente “passare oltre”, quindi “passaggio”. Gli Ebrei ricordavano il passaggio attraverso il mar Rosso dalla schiavitù d’Egitto alla liberazione. Per i credenti Pasqua è la festa del passaggio dalla morte alla vita di Gesù Cristo e quindi costituisce un momento di riflessione e al contempo di gratitudine per il sacrificio e la resurrezione di Cristo. Si ricorda la potenza dell’amore di Dio da cui deriva la speranza che Egli offre a tutti coloro che credono in Lui.
Dunque la Pasqua in quanto resurrezione di Gesù, rappresenta una vittoria sulla morte e sul male, una fonte di ispirazione e di coraggio per affrontare le sfide della vita.
E con la figura di Cristo e con il sacro mistero della sua esistenza e morte si sono confrontati numerosissimi artisti.
Noi parleremo del modo con cui questi interpreti dell’arte occidentale si sono confrontati con quello che è il momento più alto di questo mistero: la Resurrezione.
In realtà il tema della Resurrezione si dispiega in diversi momenti: quello della scoperta del sepolcro vuoto, quello della resurrezione vera e propria, quello del Noli me tangere, quello dell’incredulità di San Tommaso.
Incamminiamoci ora in questo percorso di bellezza che contagia tutti: credenti e non.
Iniziamo con la Resurrezione ed il Noli me tangere di Giotto, affresco facente parte del ciclo sulla vita di Cristo realizzato dall’artista fra il 1303 ed il 1305 per il banchiere padovano Enrico Scrovegni nella Cappella di famiglia, la Cappella degli Scrovegni appunto. Sulla sinistra ecco il sepolcro scoperchiato e vuoto: su di esso siedono 2 angeli mentre a terra i soldati stanno dormendo. Giotto non fissa l’immagine della resurrezione con il Cristo ascendente, ma va oltre: sulla destra pone la Maddalena inginocchiata di fronte al Cristo risorto, che pronuncia la frase latina riportata dai vangeli: “Noli me tangere (Non mi toccare)”. Ma cosa voleva dire Cristo alla Maddalena? Se la traduzione letterale è quella del non mi toccare, le moderne traduzioni Bibbia optano per un “Non mi trattenere”. Il Cristo è ormai risorto e quindi non è più di questa terra ma è in transito verso l’alto, verso quello che è il suo vero destino. Dunque il suo corpo non è più un corpo umano ma un corpo glorioso che non può essere trattenuto su questa terra.
E se a sinistra gli alberi sono secchi e morti, a destra essi tornano ad essere rigogliosi, simboleggiando il ritorno alla vita. E che il fulcro della scena sia Cristo che parla alla Maddalena ce lo dice anche la roccia sullo sfondo che declina verso la figura di Gesù. L’atmosfera rarefatta e sospesa in una metafisica astrazione sembra anticipare quello che sarà lo stile di Piero della Francesca.
Passiamo ora alla Resurrezione del Beato Angelico realizzata fra il 1440 ed il 1442 per il Convento di San Marco a Firenze. Il frate domenicano Giovanni da Fiesole cercò con la sua arte di fondere i nuovi principi rinascimentali, come la costruzione prospettica e l’attenzione alla figura umana, con i vecchi valori medievali, quali la funzione didattica dell’arte e il valore mistico della luce.
Gli affreschi del Convento di San Marco (costruito dal Michelozzo e decorato da Fra Angelico) furono “una pietra miliare dell’arte rinascimentale”, caratterizzati da una grande forza nata dall’assoluta armonia e semplicità, che invita a contemplare e a meditare religiosamente.
Con la Resurrezione di Cristo il Beato Angelico opera un’interpretazione molto intensa dell’evento.
Il centro della composizione è costituito dal sepolcro vuoto che un bianco angelo mostra con la mano destra. Intorno le pie donne, raffigurate nell’atto di portare gli oli e gli unguenti per onorare il corpo del defunto, cercano Cristo senza capire la ragione della Sua mancanza. Ma ecco l’angelo custode che con la mano sinistra alzata spiega loro il miracolo appena avvenuto. Alla meditazione terrena delle pie donne e di San Domenico inginocchiato sulla sinistra, si contrappone l’altra dimensione della meditazione, quella spirituale: la mandorla luminosa, indicata dall’angelo, in cui è rappresentato un Cristo martire (la palma tenuta con la mano destra) e trionfante (il vessillo con la sinistra).
Estremamente interessante è la Resurrezione del fiammingo Dieric Bouts, una tempera su tela realizzata nel 1455 ed ospitata al Norton Simon Museum di Pasadena.
Bouts, insieme ad Hans Memling, è considerato il più importante seguace di Rogier Van der Weyden da cui riprende alcuni tratti caratteristici come la tipizzazione dei volti, una sorta di isolamento delle figure chiave e le espressioni quiete e riflessive dei personaggi, elementi che ritroviamo in questo dipinto. Al centro del dipinto ecco Gesù appena uscito dalla tomba, che con la mano sinistra regge una croce cui è legato uno stendardo rosso come il suo vestito. Con la destra accenna un gesto di benedizione.
Il suo volto è austero e malinconico perché la vittoria sulla morte non ha cancellato né nascosto le piaghe cui è stato sottoposto e che si intravedono dal suo abito.
Un candido angelo con l’indice indica Gesù risorto ed è come se sentissimo dirgli: “Ecco l’Agnello di Dio”.
Ai piedi del sepolcro giace una guardia tramortita e dietro l’angelo ve ne è un’altra addormentata, mentre sulla destra troviamo una terza guardia con il braccio alzato quasi a coprirsi e proteggersi dalla luce che circonda il Risorto, luce che non vediamo ma che percepiamo dal suo gesto.
La scena è ambientata in un paesaggio appena rischiarato dalla luce dell’alba sul cui sfondo scorgiamo le tre donne che vanno al sepolcro con gli aromi.
L’impostazione spaziale dell’opera, l’espressione dei volti, la sintesi costruttiva delle figure, il cromatismo limitato a poche nuances fanno di quest’opera un qualcosa di davvero nuovo per l’epoca… Dieric Bouts si distingue per l’originalità delle soluzioni spaziali e coloristiche ed il luminismo tipicamente olandese. Ed eccoci a parlare della celebre Resurrezione di Piero della Francesca, realizzata fra il 1463 ed il 1465 nel Palazzo del Governo di Arezzo, oggi divenuto Museo.
Tra le personalità più emblematiche del Rinascimento italiano, Piero della Francesca, fu un esponente della seconda generazione di umanisti.
Le sue opere in cui arte, scienza, filosofia e teologia si mescolano in un mix di razionalità ed estetica fecero da collegamento tra la prospettiva di Brunelleschi e la plasticità di Masaccio. La scena della Resurrezione di Gesù si apre in una cornice immaginaria che dà su un esterno pieno di piante verdi (olivi). Qui si trovano un basamento (con un’iscrizione oggi quasi del tutto cancellata) e un architrave.
Mentre quattro soldati romani dormono, Cristo si leva dal sepolcro ridestandosi alla vita con un aspetto solenne e sacrale, tenendo in mano il vessillo crociato. La sua figura così maestosa, inserita in un triangolo immaginario, divide il paesaggio in due parti: quella di sinistra, invernale e morente e quella di destra, estiva e rigogliosa, che richiama la continuità del ciclo della vita. Questo affresco è l’opera di Piero della Francesca che più di ogni altra esalta la razionalità dell’autore: la resurrezione non è vista come un’ascesa più o meno impetuosa verso l’alto, ma come un qualcosa di logico, deduttivo, a misura della comprensione umana.
Al contrario di Piero della Francesca, che ci propone un Cristo statico, Giovanni Bellini nella sua Resurrezione del 1475 ospitata a Berlino nella Gemäldegalerie ci restituisce un’immagine di Cristo totalmente diversa. Bellini, uno dei massimi esponenti della pittura veneta rinascimentale, seppe accogliere nella sua opera gli stimoli più svariati, dalla tradizione bizantina alla pittura di Andrea Mantegna, dalle lezioni di Piero della Francesca, Antonello da Messina e Albrecht Dürer, fino al tonalismo di Giorgione. Ma l’accoglienza di questi stimoli fu per Giovanni Bellini un modo per rinnovarsi continuamente, non tradendo mai la propria tradizione.
Il Cristo che ci restituisce Giovanni Bellini ci appare in tutta la sua gloria, sopra le nuvole, con il vessillo bianco che fa da sfondo alla croce rossa simbolo della vittoria del cristianesimo ed il mantello bianco mosso dal vento.
Ai soldati addormentati o storditi dalla luce che troviamo in altre resurrezioni, qui si sostituiscono soldati non più increduli, ma uomini che paiono dire: “Questo sì che era il Figlio di Dio e noi non gli abbiamo creduto”.
Lontano si intravedono le pie donne dirigersi verso la tomba di Cristo nel momento in cui la notte (simbolo del peccato) viene sostituita dall’alba (simbolo della pace).
Decisamente molto avvincente la Resurrezione del senese Benvenuto di Giovanni, tempera su tavola del 1491, visibile nella National Gallery of Art, Washington. Parliamo di un capolavoro del Rinascimento italiano, ahimè poco conosciuto, che si distingue per il suo stile artistico dettagliato e realistico. Impressionante la composizione dell’opera ambientata in un contesto arido, ad eccezione di pochi alberi sulla destra, al cui centro domina la figura di Cristo appena uscito da uno strano sepolcro. Strano perché la grotta luogo della sepoltura presenta una porta perfettamente rettangolare. Gesù, appena uscito dal sepolcro, con i piedi poggiati su un basamento, con la mano destra accenna una benedizione e con la sinistra regge il vessillo bianco con la croce. Ai suoi piedi 6 soldati che più che addormentati paiono morti sotto il peso di una grande lastra di pietra. Da notare un abile uso del chiaroscuro ed un cromatismo caldo negli abiti delle guardie.
La resurrezione di Di Giovanni ci restituisce una singolare interpretazione dell’evento.
Ed eccoci giunti alla Resurrezione di Raffaello del 1502, conservata nel Museo d’Arte di San Paolo in Brasile.
Da notare l’influenza del Perugino, suo maestro per quanto attiene le figure dei soldati spaventati. Tuttavia Raffaello seppe discostarsi dal modello, ambientando la scena in un paesaggio più variato e animato da un cromatismo più corposo che esalta la plasticità delle figure. Molto bella l’animazione degli angeli. Gesù non sta più nella pietra tombale, ma è su una nuvola alludendo probabilmente alla sua futura Ascensione. La maggior ricchezza di dettagli, la vivacità dei gesti decisamente più naturali e realistici di quelli del Perugino, conferiscono a quest’opera un’impronta assolutamente personale.
Tiziano nella sua Resurrezione di Cristo del 1520-1522, scena centrale del Polittico Averoldi chiamato così dal nome del committente Altobello Averoldi, e collocato nella Collegiata dei Santi Nazaro e Celso a Brescia, rinnova la tradizionale iconografia della scena combinandola con quella dell’Ascensione. La scena è dominata dalla figura di Cristo trionfante e sfolgorante che sale verso il cielo, impugnando il vessillo crociato come emblema del Cristianesimo.
La sua figura, sottolineata dall’illuminazione che lo inonda, mostra una perfezione anatomica vicina a quella delle statue greche.
Molto bella anche la Resurrezione di Paolo Veronese del 1570 ospitata nella Gemäldegalerie Alte Meister, Dresda. Paolo Caliari, detto il Veronese, è stato un rappresentante del Rinascimento italiano, attivo a Venezia e in altre località del Veneto. Famoso per i suoi dipinti a soggetto religioso e mitologico di grandi dimensioni (Nozze di Cana, Cena a casa di Levi), insieme a Tiziano e Tintoretto domina la pittura veneziana del Cinquecento. In questa Resurrezione di Dresda c’è tutta la straordinaria tecnica del Veronese: la sua eccezionale capacità di “illuminare” anche le ombre e di contenere nella misura dell’armonia i contrasti tonali, anche quando usa, come in questo dipinto, il rosso e l’azzurro. Alla staticità di altre resurrezioni Veronese opta per la dinamicità. E per imprimere movimento alla scena inclina la figura di Cristo che si alza verso il cielo, creando così una sorta di corrispondenza dinamica con l’inclinazione delle figure “travolte” dal miracolo che si sta manifestando davanti al loro sguardo. Il muro in rovina serve a delimitare lo spazio dell’evento e nello stesso tempo è il simbolo di un mondo che è finito per sempre, mentre l’ara bianca rappresenta il mondo nuovo che sta sorgendo.
Osservando quest’opera viene da pensare che la pittura del Veronese sia la più adatta a rappresentare la luminosa speranza che è il segno distintivo della Resurrezione.
Ed eccoci ora a parlare della Resurrezione di El Greco, un olio su tela del 1597-1600 ospitato al museo del Prado a Madrid in cui l’autore ci presenta una tipica iconografia della Resurrezione, con il Cristo che stupisce e vince i soldati a guardia del sepolcro e si presenta nudo, con un manto color porpora (simbolo di martirio) e una bandiera (simbolo della sua vittoria sulla morte).
Questa Resurrezione, firmata nel bordo inferiore in caratteri greci, mostra tutti i caratteri tipici dell’arte audacemente visionaria del pittore cretese. Le figure fortemente allungate come fiamme che avvampano in una gamma di colori acidi sono caratterizzate da contrasti fortissimi tra luci ed ombre, nel tipico stile di El Greco.
I movimenti convulsi, soprattutto nella parte inferiore del dipinto, conferiscono drammaticità alla composizione così come i cromatismi estremamente accesi e innaturali.
Queste caratteristiche della pittura di El Greco fanno di lui uno dei massimi, se non il massimo, esponente del Manierismo spagnolo. Ma non solo: esse contribuiscono ad astrarre le creazioni del pittore dalla realtà, dando luogo ad opere dall’elevato misticismo da intensi significati simbolici. Un altro aspetto della resurrezione è quello dell’Incredulità di San Tommaso di cui il massimo esempio è il dipinto realizzato da Caravaggio tra il 1600 ed il 1601, oggi alla Bilergalerie di Potsdam.
Questo celebre dipinto, commissionato al Merisi dal banchiere Vincenzo Giustiniani, raffigura l’apostolo San Tommaso che, incredulo, ispeziona il costato di Gesù Cristo risorto e infila un dito nella ferita. Altri due apostoli, da sopra la sua spalla, osservano la scena. Il quadro, come nello stile di Caravaggio, si contraddistingue per il suo estremo realismo, che scandalizzò persino il suo committente. Anche l’illuminazione è tipicamente caravaggesca, con un’unica fonte luminosa da sinistra che accentua l’“immersione” del dito. Di tutte le opere di Caravaggio questa è quella che mi ha maggiormente calamitata perché nel realismo di quel dito che penetra la ferita di Cristo ravviso l’incredulità di ogni uomo… In fondo chi di noi non è un po’ quel San Tommaso?
Passiamo ora alla Resurrezione di Cristo di Peter Paul Rubens del 1611-1612 che si trova ad Anversa nella Cattedrale di Nostra Signora.
Del fiammingo Rubens abbiamo già abbondantemente parlato quindi mi limito a dire che è stato il precursore di alcuni tratti caratteristici dell’arte barocca. La vita e la produzione pittorica di Rubens sono strettamente legate alle corti europee, che lo chiamarono a realizzare numerose opere. Artista colto, di grande apertura, studiò in Italia dove ebbe modo di approfondire molti dei suoi modelli (da Raffaello a Michelangelo, dai pittori veneti a Caravaggio) e dove lavorò per importanti committenti. Il suo modo di concepire lo spazio, decisamente innovativo, il suo colore pieno, l’uso sfolgorante della luce e le sue composizioni esuberanti hanno anticipato molti degli elementi della cultura barocca, di cui è considerato uno dei grandi pionieri.
La Resurrezione di Anversa è un’imponente opera giovanile di Rubens. Al centro della tela troviamo un Cristo abbagliante, dal corpo di una grande plasticità, dai muscoli fortemente enfatizzati e con, tra le mani, il vessillo crociato, che abbandona con vigoroso slancio la propria tomba rupestre tra lo stupore e l’incredulità dei presenti. La scena, fortemente impregnata di influssi michelangioleschi, rappresenta una novità dal momento che fino ad allora la sepoltura di Gesù era stata sempre raffigurata sotto forma di sarcofago. A questa Resurrezione se ne aggiungono altre due, di cui una del 1616 custodita a Palazzo Pitti a Firenze nella Galleria Palatina di Firenze ed una, ritrovata all’Hermitage, la cui datazione è ignota, la cui paternità a Rubens è stata acclarata pochi anni fa. In queste due resurrezioni, come in quella di Anversa, l’immagine concepita da Rubens è quella di un Cristo poderoso, di chiaro stampo michelangiolesco (secondo i modelli degli Ignudi della Sistina e dei Prigioni), dalla corporatura massiccia, virile, oserei dire. Ma se nelle Resurrezioni di Anversa e Firenze la figura di Cristo è avvolta nella luce, in quella dell’Hermitage, al di là della luce posta intorno alla testa di Gesù come un’aureola, dominano un cielo scuro, rabbuiato, ma non notturno, e una nuvola di fumo che si alza sulla destra. Beh se le prime due resurrezioni mi fanno pensare alla luce della salvezza che Cristo offre a tutti e quindi percepisco Cristo come salvatore, nella resurrezione dell’Hermitage vedo un Cristo giudice. Ma non potevo non parlarvi di una straordinaria Resurrezione, di grande modernità realizzata da Johann König, un artista nato in Germania nel 1586 e morto nel 1642, che lavorava nella corte del re Augusto III di Polonia. Il dipinto fu commissionato dalla chiesa della corte e si ritiene che sia stato dipinto intorno al 1622. Oggi il dipinto è custodito al Cleveland Museum of Art.
La Resurrezione di Cristo di König è un vero capolavoro dell’arte religiosa del XVIII secolo. La scena è ambientata probabilmente in un cortile dalla cui porta si intravede in lontananza una città e tre donne in procinto di venire con olii ed unguenti verso il sepolcro. Sulla sinistra ecco Cristo avvolto in una nuvola di luce con addosso un mantello rosso retto da piccoli angeli che si leva verso l’alto stringendo in mano uno stendardo bianco. Sotto di lui delle persone, fra le quali vi sono due angeli, che guardano con stupore l’evento.
Ma parliamo di stupore, non di terrore. A livello compositivo König adotta una tecnica chiamata “Diagonale compositiva”, che conferisce un senso di movimento e dinamismo nell’immagine. A livello cromatico König si serve di una tavolozza liscia e luminosa, che riflette l’atmosfera di speranza e gioia che circonda la risurrezione di Cristo. I toni pastello incollati, i blu ed i gialli si combinano per creare un’immagine armoniosa ed equilibrata. E la luce che emana da Cristo illumina la scena, dando una sensazione di speranza e rinnovamento. Dunque la modernità della Resurrezione di Cristo di König è data dalla resa delle figure che si combina con l’emozionalità dell’iconografia cristiana.
Ed eccoci ora a parlare della Resurrezione di Cristo di Rembrandt. L’opera è uno dei cinque dipinti che formano il ciclo della Passione di Gesù Cristo, commissionata a Rembrandt nel 1630 dal principe Federico Enrico di Orange.
Nel 1806 il dipinto dalla Galleria di Düsseldorf venne trasferito nell’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera, dove è attualmente esposto. Su uno sfondo scuro vediamo un angelo sollevare agevolmente la pietra del sepolcro, travolgendo le guardie addormentate accanto. La sua figura, che rivela un’attenta lettura del testo evangelico, è presentata con un aspetto come di folgore e la sua veste bianca come neve. In Rembrandt, contrariamente a quanto avviene in altre raffigurazioni del brano evangelico, Cristo ha un ruolo apparentemente quasi marginale: emerge dal sepolcro scoperchiato dall’angelo, ancora avvolto nelle bende mortuarie. Il Figlio di Dio è colto nel momento esatto della sua resurrezione, quando con un grande boato la volontà divina sconfigge quella dell’uomo. E la potenza della volontà divina è sottolineata da una luce potente che contrasta il buio terreno, ma non il buio della notte, bensì quello della cecità degli uomini che non hanno saputo comprendere la venuta di Dio.
Dunque Rembrandt dipinge la resurrezione di Cristo in modo vittorioso, dove la vera protagonista è la luce che si oppone alla profondità delle tenebre. Siamo nel XVIII secolo, nel periodo che segue il Concilio di Trento, che aveva ridefinito l’iconografia sacra in modo più conforme al testo biblico, in un clima di ritorno ad una rigorosa lettura delle Scritture contro quella Riforma Protestante che stava sconvolgendo tutta l’Europa.
Perciò, non era più accolta un’ambigua rappresentazione di Cristo, sia risorto che assunto: Gesù verrà assunto in Cielo 40 giorni dopo la sua morte, dunque i due momenti non vanno confusi e le rappresentazioni artistiche devono seguire un codice che non prevede più la sua immagine raffigurata tra Cielo e Terra. Secondo la tradizione l’iconografia della Resurrezione era rappresentata con la figura di Cristo al centro dell’azione dell’ascendere verso il cielo, mentre nell’opera di Rembrandt il momento scelto è un altro: è quello in cui l’angelo che occupa il centro della composizione appare improvvisamente nel mezzo della luce divina. La reazione dei soldati, di fronte al miracolo, è di timore e soggezione, sentimenti resi dall’artista con un forte dinamismo dei gesti di orrore e paura. La fuga dei soldati avviene in mezzo alle ombre che si estendono nell’oscurità più profonda che si possa immaginare. Inoltre, l’artista, facendo cadere un soldato dalla lastra del sepolcro, crea un’azione diagonale che conferisce una particolare dinamica alla scena. Allo stesso tempo, crea una tensione tra questo movimento e il lento apparire di Gesù. E nella continuità della luce centrale esplosiva, Cristo è in un piano illuminato con dolcezza. Il manto bianco, che lo circonda, emana una tale luminosità che evidenzia la sua figura.
Luce ed ombra: l’ombra della paura di chi non ha creduto e la luce della verità. Questo dipinto di Rembrandt ci mostra come l’artista olandese abbia assimilato la lezione italiana: la sua predilezione a far emergere il soggetto dalle tenebre è il retaggio dello stile di Caravaggio, mentre il modello iconografico scelto per la sua resurrezione è ripreso da quello dell’Assunzione della Vergine realizzata da Tiziano per la basilica di Santa Maria Gloriosa ai Frari. Come nell’Assunta ai Frari anche qui sono gli angeli a intervenire come tramite per liberare il corpo terreno del suo peso, aiutandolo a innalzarsi verso il Cielo. La particolare resa della luce nella pittura, introdotta nel manierismo da Tintoretto che si diffonderà nella pittura barocca, è presente in questa opera, ma senza nascondere le reazioni e i sentimenti espressi dai personaggi. Basti pensare alla serenità dell’angelo che trasmette un senso di pace, al contrario dell’atteggiamento dei soldati che mostra la drammaticità dell’evento attraverso la loro paura ed il loro smarrimento, quale inevitabile conseguenza della scena miracolosa. La luce soprannaturale di Rembrandt evidenzia i personaggi principali e porta l’osservatore all’apice del momento rappresentato. Le sue raffigurazioni di Cristo mirano a sottolineare la sua centralità come fonte del mistero della fede attraverso la carica mistica ed espressiva che del suo linguaggio. Passiamo ora alla Resurrezione del bellunese Sebastiano Ricci, uno dei maggiori maestri della svolta in senso rococò della cultura figurativa veneziana del primo Settecento. Pioniere di uno stile pittorici chiaro e brillante, con una struttura compositiva delle scene derivante dalla lezione barocca di Luca Giordano, Ricci avrà un’enorme influenza sullo sviluppo dell’arte veneziana nel Settecento. Nella sua resurrezione del 1715, conservata alla Dulwich Picture Gallery di Londra è raffigurato il momento miracoloso della risurrezione di Cristo, secondo la tradizione cristiana. Portando una bandiera e immerso nella luce brillante proveniente dal cielo, Cristo appare dal cielo mentre una schiera di angeli squarcia le nuvole. I soldati a guardia della sua tomba tentano di fuggire mentre assistono a questo evento miracoloso. Alcuni degli elementi di questo dipinto parrebbero fare riferimento a motivi di precedenti generazioni di artisti italiani tra cui Paolo Veronese (gli angeli che sollevano il coperchio della tomba), Annibale Carracci (i soldati, la tomba e la lanterna) e Salvator Rosa (le scogliere sullo sfondo e i soldati).
E concludiamo questo viaggio nella Pasqua nell’Arte con la Resurrezione del 1881 del danese Carl Heinrich Bloch.
Campeggia nella scena il Cristo trionfante sulla morte che si innalza emergendo dal sepolcro. Ai suoi lati stanno due angeli in adorazione, dietro di lui i narcisi rappresentano la speranza e la rinascita. Sotto i suoi piedi, la pietra che un tempo conteneva il suo corpo si spezza, in primo piano giace l’elmo vuoto di un soldato. L’effetto è di grande potenza e sacralità.
Bloch si distinse per l’uso di colori accesi e, nel ciclo di dipinti riguardanti Gesù Cristo, per la particolare luce intensa emessa dalle figure sante.
La Resurrezione di Cristo è stata molto raffigurata nella pittura di tutti i tempi. Le maniere e le tecniche usate dagli artisti per immortalare la scena in cui lasciando la sua tomba, Gesù si eleva verso il cielo, sono state molto diverse, dalla presentazione di pochi personaggi – Cristo insieme all’angelo o a più angeli, con le pie donne – fino a scene in cui appaiono cavalieri, soldati romani e anche animali e uccelli, fiori e alberi, come segno della rinascita di tutta la natura insieme al Redentore, così come accade soprattutto nelle opere dei maestri italiani.
All’atmosfera di metafisica astrazione creata da Giotto e Beato Angelico nei loro affreschi nel secolo del passaggio dal gotico all’umanistico, Giovanni Bellini ha contribuito con il valore mistico della luce. Nel Quattrocento Perugino ha dipinto Cristo sul trono, tra i personaggi che avevano partecipato alla Resurrezione – e non solo le guardie romane, come racconta il Vangelo, ma anche altri uomini. Nella tela di Raffaello gli angeli sono più animati di quelli di Perugino e Gesù non sta più sulla pietra tombale, ma si trova già su una nuvola, un’allusione questa alla Sua futura Ascensione, indicando il cielo con il dito.
Nel Cinquecento Tiziano Vecellio rinnova l’iconografia tradizionale, combinando questo momento con quello della futura Ascensione. Cristo trionfante e sfolgorante sale la scala del cielo, con il vessillo crociato, l’emblema del Cristianesimo.
Anche Tintoretto ha dedicato più opere a questo tema, raffigurando un Gesù Cristo che esce dal sepolcro aperto da quattro angeli, avvolto da uno splendore miracoloso. Nella Resurrezione del Museo Nazionale Gallerie dell’Accademia di Venezia Gesù è rappresentato in un nimbo di luce che contrasta con il buio della notte in cui dormono i soldati romani perdendo il miracolo accaduto.
Però Paolo Veronese ha dato la versione pittorica “più impetuosa e tormentata” della Resurrezione, trasmettendo proprio l’emozione vissuta all’uscita di Gesù dalla tomba e alla sua liberazione in cielo, in uno stato generale di spavento e di perplessità. Nei secoli successivi molti artisti s’ispirarono allo stile del Veronese; basta ricordare solo Bronzino, Annibale Carracci, Correggio, Andrea Mantegna, Andrea del Sarto e tantissimi altri. Questo viaggio si è fermato nel 1800 facendoci vedere la varietà di interpretazioni dello stesso tema iconografico fornite nel corso dei secoli dagli artisti. E mi chiedo tutto questo cosa dica allo spettatore… Beh mi auguro che all’iniziale incredulità segua la gioia trasmessa da quella luce che simboleggia la vittoria della vita sulla morte.

Tutto ciò che l’uomo dentro di sé desidera è Estasia. Questo mondo è ciò che gli uomini vogliono che sia veramente, dentro di loro” (Francesco Falconi scrittore italiano, 1976)