Domenica 21 aprile 2024, Domenica IV dopo Pasqua
Sant’Anselmo d’Aosta; San Silvio; Dies Natalis Almae Romae
INTERVISTA A MARCO TARCHI
“MANCA CREATIVITÀ, NON È IL NUOVO ’68. IL CONFLITTO DÀ SLANCIO ALL’ULTRASINISTRA”
di Francesca Paci
Il politologo: “Troppi coloni armati in Cisgiordania, questa è la radice delle proteste. La vendetta per la strage del 7 ottobre? A nessun altro stato sarebbe stata consentita”.
Il sit-in contro il governo israeliano, gli atenei di sinistra contro il governo Meloni, l’arte del boicottaggio e il boicottaggio dell’arte ma, soprattutto, sullo sfondo, l’ombra del fattore k, l’eterno trasversale sospetto verso l’America. Ne parla con “La Stampa” il politologo Marco Tarchi, accademico ed esperto della destra italiana.
La questione palestinese è arrivata alla Biennale, dove infine il padiglione israeliano è rimasto chiuso e il presidente Pietrangelo Buttafuoco ha dovuto ricordare che l’arte non boicotta. Quello che sarebbe un sano dibattito di politica internazionale, da Gaza alla guerra globale, rischia di perdersi nel “doppio standardismo”?
C’era da prevederlo, perché la vicenda israelo-palestinese offre un’occasione ideale al rilancio attivistico di un’ultrasinistra che, per quanto possa contare su una rete militante diffusa in scuole e università, dopo l’affievolirsi delle mobilitazioni anti-Tav era quasi scomparsa dalla scena mediatica. Impadronirsi della protesta e orientarla verso lo scontro di piazza era un’occasione troppo appetibile per lasciarsela sfuggire. Un dibattito tradizionale non avrebbe avuto la stessa eco.
La Biennale come le università, epicentro da mesi di una protesta politica come non se ne vedevano da anni. Cosa succede in Italia, è solo la forza emotiva di Gaza o c’è un risveglio dell’attivismo studentesco stile ’68 che alza la voce contro l’Italia di Meloni?
Lascerei stare il ’68. In questa fase storica di creativo nei movimenti studenteschi c’è ben poco. Ma che nelle proteste convergano una sincera emozione per la tragica sorte che stanno subendo i civili a Gaza e la possibilità di reagire contro un governo di destra che a sinistra è spesso descritto e vissuto anacronisticamente come l’anticamera del fascismo mi sembra un’ipotesi fondata.
In un’intervista con La Stampa il professor Bachelet notava che se gli studenti usassero come metro per la collaborazione universitaria la democraticità dei Paesi partner l’esclusione non dovrebbe limitarsi a Israele. Vale anche per la Biennale, dove, per esempio, a protestare contro la Repubblica islamica d’Iran sono stati, senza grossa eco, pochi artisti iraniani. La bandiera palestinese è il mezzo e l’antisionismo lo scopo?
È difficile paragonare, sia razionalmente che emotivamente, la repressione che in altri paesi subiscono gli oppositori con le decine di migliaia di vittime degli attacchi dell’esercito israeliano a Gaza. La sproporzione e il carattere indiscriminato della vendetta per la strage del 7 ottobre ha una sua unicità, a cui si aggiunge la consapevolezza che a nessun altro Stato sarebbe consentito, dalla comunità internazionale, di comportarsi in questo modo.
Antisionismo legittimo o, come teme la comunità ebraica, antisemitismo camuffato da lotta anticoloniale?
Da decenni i governi e i media israeliani replicano alle critiche per il trattamento riservato ai palestinesi accusandole di celare e alimentare opinioni antisemite. Credo che nella grande maggioranza dei casi le cose non stiano così. Alla radice delle proteste c’è una situazione di fatto che vede, grazie soprattutto alla diffusione sempre più massiccia di insediamenti di coloni armati in Cisgiordania, la riduzione dei palestinesi a prigionieri di un carcere a cielo aperto. Contro cui ribellarsi è legittimo.
Le proteste contro Israele si portano sempre dietro quelle contro gli Stati Uniti. Quanto pesa ancora in Italia l’antiamericanismo? A sinistra ma anche a destra, dove la premier Meloni ha assunto una postura atlantista in contrasto con parte della sua storia politica ma proprio per questo non a tutti gradita.
Come ho scritto anni fa in un libro intitolato Contro l’americanismo, da decenni, sia a destra che a sinistra, alle vecchie polemiche contro l’imperialismo Usa si è sostituita un’accettazione pressoché incondizionata della subordinazione dei paesi europei alle strategie decise a Washington. L’antiamericanismo, nell’arco che va da Sinistra italiana a Fratelli d’Italia, è un ricordo del passato, o un frammento residuale. Resta vivo negli ambienti più radicali, che però politicamente non hanno alcun peso.
La cosiddetta cultura woke, che dal Black Live Matter anima le università degli States, può essere la cifra del nuovo antiamericanismo?
La cultura woke è un puro prodotto di esportazione dell’americanismo. O, per dirla altrimenti, una forma alternativa di americanizzazione. Che porta con sé, ben al di là della rivendicazione di una specifica eredità culturale della popolazione di discendenza africana, un profluvio di istanze particolaristiche, presentate come diritti di microgruppi sociali, destinate a disgregare l’identità collettiva dei popoli e delle nazioni entro cui si insinuano. L’obiettivo finale del wokismo, malgrado le apparenze, è l’affermazione di una società iperindividualistica.
Come giudica la risposta del governo, che, condividendo l’equazione del ministro Lollobrigida tra protesta e rischio terrorismo, usa contro gli studenti il pugno di ferro?
L’equiparazione con il terrorismo è del tutto fuori luogo, ma il passato ci insegna che in certe forme di protesta la pratica della violenza può superare, in talune circostanze, i livelli di guardia. Gli eccessi di una parte chiamano gli eccessi dell’altra, ed è difficile trovare un punto di equilibrio.
(La Stampa, 18 aprile 2024)