Minima Cardiniana 464/6

Domenica 21 aprile 2024, Domenica IV dopo Pasqua
Sant’Anselmo d’Aosta; San Silvio; Dies Natalis Almae Romae

VELA A MOMPRACEM
ALL’OMBRA DELL’ATLANTE
di Stefano Andres
Coricato sul letto di una stanza di un riad di Marrakech cerco di sfuggire alla implacabile calura pomeridiana.
Sul comodino un libro del mistico islamico Ibn ‘Arabī, una mappa, gli occhiali da sole, un bicchiere con residui di tè alla menta.
Lo sguardo, ipnotico, fissa la pala del ventilatore che ruota inesorabile sopra la mia testa.
Per la terza volta mi trovo in Marocco.
Condizioni e dinamiche diverse, situazioni che mutano. La metafora della vita umana e dei suoi esiti imprevedibili.
La prima fu una temporanea fuga dalle oppressioni e dalle ossessioni che in quei tempi mi attanagliavano. Una fuga autunnale che prendeva le mosse dalla città imperiale di Fes; attraverso la catena dell’Alto Atlante che già veniva sferzato dai venti freddi, poi Merzouga ed il suo deserto arancione, i villaggi berberi, per finire sotto la pioggerella di Marrakech. Occasionali compagni di viaggio superficiali ma affascinanti nella loro leggerezza e commoventi nella loro inesperienza. Una querula signora dall’abbigliamento pacchiano ed il suo rassegnato consorte, un giovane seno profumato e prosperoso sotto un sorriso mesto, romagnoli goderecci alla ricerca di modeste trasgressioni culinarie, una friulana ormai matura, inquieta nella sua attuale dimensione familiare, che inseguiva l’oggetto della sua infatuazione all’alba tra le dune, sfuggendo agli occhi gelosi del marito inacidito e degli annoiati figli preadolescenti.
Ma soprattutto una guida capitan Fracassa che ci conduceva attraverso l’Atlante come il nocchiero di un brigantino da pesca d’altura. Saad si chiamava. Si sentiva una reincarnazione di Che Guevara. Barbetta nera incolta che gli circondava il volto olivastro impiastrato di olio di argan, capelli lunghi che toccavano il bavero del lungo cappotto color cammello e un basco scuro calato sul lato destro della testa. Sosteneva di essere immigrato giovanissimo in Argentina, quindi a Cuba per respirare il clima del profeta della rivoluzione. Poi una storia d’amore con una donna italiana finita tragicamente. Il ritorno in patria, presunte collaborazioni cinematografiche con grandi registi, esperienze mistiche che avrebbero lasciato sulla sua fronte un segno di Allah… Furbo, affabulatorio, mercante, poetico e patetico. Una macchietta che aveva allietato quei giorni agri in cui cercavo forme di sollievo ai supplizi di Tantalo e ai letti di Procuste tra suggestioni etniche e artistiche, gustose spremute di melograno e bicchieri di Baileys pagati a carissimo prezzo, assalti di venditori e svagate conversazioni.
A distanza di anni, venne il tempo della avventura selvaggia.
Ero giunto sulla costa africana via nave dalla Spagna, dalla trasandata Algeciras fino all’enclave di Ceuta, con i suoi rassicuranti bastioni, la cattedrale barocca, bar rutilanti, golf club, caserme, suk e fili spinati. Ultimo lembo d’Europa, rimasuglio degli antichi imperi coloniali. Ora fatiscente, ora pittoresco, ora squallido, ora opulento, ora trasandato. Quasi ad ogni angolo un cambio di sensazione. Tra vacanzieri europei, legionari, spagnoli in cerca di fortuna, umili lavoratori marocchini, trafficanti, spacciatori e avventurieri. Insomma, la tipica fauna che popolano quelle zone di frontiera che tanto affascinano noi vagabondi.
Una filiforme americana con cui ingannare le ore di siesta giocando di fronte ad uno specchio che campeggiava in una modesta camera d’albergo e passeggiare di prima mattina sulla lingua di sabbia che si protende verso l’azzurro schiumato. Nel tardo pomeriggio una piacevole salita ci portava sul monte Hacho; all’ombra della silente fortezza gli sguardi andavano oltre confine, spaziando fino alle caliginose cime del Rif, alle evanescenti coste andaluse e, con un pizzico di fortuna, fino alla rocca di Gibilterra infestata di scimmie birbone.
Una fresca mattina un semidisonesto taxista ci condusse a Tangeri attraverso brulle colline disseminate di squadre di operai, camionisti e disperati speranzosi di guadagnarsi una qualsiasi costa dell’Europa. A qualunque costo.
Un lembo di Marocco più autentico, lontano parente di quello costellato dalle città imperiali e dalle loro propaggini, popolato di assatanati inculaturisti, millantatori, sfruttatori, spacciatori del falso autentico e dell’autentico falso.
Le Medine di Tangeri e di Tetouan sono artisticamente più modeste di quelle del sud, ma vere nella loro quotidianità, visto che il modo di accogliere un locale o uno straniero non varia granché, almeno nelle forme.
Arrampicandosi sulla collina che domina la città, tra case imbiancate a calce e decorate con piastrelle di ceramica, attraverso tortuosi budelli, la Tetouan vecchia si svelava attimo dopo attimo, ora dischiudendo gli effervescenti mercati traboccanti di merce colorata, ora le piccole piazze sporche e sonnacchiose, ora quartieri dimenticati dal tempo come il Mellah, il quartiere ebraico, con il suo peculiare stile architettonico. Forse da una di quelle terrazze l’erudito e inquieto conte polacco Jan Potocki guardava passare le “jeunes femmes noires et moresques” a cui accenna nel proprio diario, vergato quando forse già cullava l’idea di spararsi in mezzo alla fronte una palla argentata.
E poi la bianca Tangeri, con la Ville nouvelle; giardini, abitazioni e uffici, teatri e cinematografi, caffè e ristoranti un tempo frequentati da ricchi viaggiatori, rispettati uomini politici e d’affari, scrittori e artisti; dove bohémienne di ogni risma ma soprattutto i migliori ingegni della beat generation imbrattavano le carte con i loro futuri capolavori, talvolta sollecitando le cellule celebrali con sostanze stupefacenti di ogni tipo, capaci di scardinare in nome dell’arte le normali percezioni psichiche.
E l’elegante marina, Avenue Mohamed V, costeggiata da hotel di lusso ed eleganti palazzi moderni, frequentata nelle ore fresche del tardo pomeriggio da famiglie eccezionalmente numerose, quantomeno alle nostre latitudini, anziani sfaccendanti, poeti e sognatori. Ma soprattutto la tentacolare città vecchia dominata da una severa kasbah, a cui conducono serpeggianti viuzze da secoli immutate, un labirinto borgesiano che partendo da una piazza circolare a ogni ora caotica, il Petit Socco, conduce alla sommità della collina attraverso cortili, mercati, passaggi coperti. A nord e a est il mare solcato da imbarcazioni di ogni dimensione e colore che conduce ai confini dell’Europa, a ovest e a sud la scintillante Ville nouvelle.
Nell’antico palazzo del sultano le membra guadagnano il meritato ristoro e gli occhi trovano la giusta soddisfazione ammirando variegati manufatti di origine cartaginese, romana e di arte tradizionale indigena. Il sole è ormai alto ma sapienti finestre mantengono gli ambienti in una fascinosa penombra che dona alle stanze un tono di esotico mistero.
La terza volta mi conduce in Marocco un rito di iniziazione.
L’amico Fabio, antico compagno di numerosi viaggi in ogni dove, rompendo gli indugi si avvicina al matrimonio. Simbolicamente intende chiudere questa lunga parentesi della propria vita con un viaggio, e ovviamente insieme al suo sodale.
Amo e temo i riti di passaggio.
Come insegnavano gli antichi, sono vere e proprie soglie, attraversando le quali si cambia il proprio status. La civiltà contemporanea ignora ormai la sacralità di tali riti. In concreto, effimeri sono ormai gli aspetti pratici che ne conseguono, ma io continuo a subirne il fascino, intuendone la portata trascendente.
Fabio, sgrana i suoi grandi occhi azzurri e osserva che, in fin dei conti, il matrimonio gli comporterà soltanto un cambiamento di domicilio. Superata ormai la soglia dei cinquanta anni, non progettano di mettere al mondo figli e comunque non hanno in programma mutamenti di vita veramente radicali.
Ma forse il vero cambiamento è già avvenuto. Fabio ormai ragiona al duale, come, forse, le vere coppie devono fare e guarda con serena fiducia ai suoi giorni futuri.
Eravamo in Libano quattro anni or sono. Una domenica pomeriggio, sul lungomare di Beirut, mentre Rudi con la sua nuova macchina fotografica si divertiva a catturare i passanti, noi osservavamo due giovani ragazzi che frescheggiavano su una panchina. A turno si leggevano ad alta voce, in francese, dei versi del Profeta, il libro più significativo del massimo poeta locale, Khalil Gibran.
Via via sospendevano la lettura scambiandosi baci pudichi e il ciuffo di capelli di lui andava ogni volta a sfiorare il bianco hijab di lei. E in quell’istante indugiavano sui precetti riguardanti il matrimonio:

Vi sia spazio nella vostra unione,
E tra voi danzino i venti dei cieli.
Amatevi l’un l’altro, ma non fatene una prigione d’amore…
E siate uniti, ma non troppo vicini;
Le colonne del tempio si ergono distanti,
E la quercia e il cipresso non crescono l’una all’ombra dell’altro
”.

Aurei precetti che Fabio, forse non più memore dell’episodio, ha comunque fatto propri.
Peraltro, come lessi sopra una panchina di Vercelli in una rilassante sera di luglio mentre frescheggiavo divorato dalle zanzare: “Come corpo ognuno è singolo, come anima mai”. E forse la sgrammaticata saggezza popolare colpisce nel segno.
Adoro la cucina del Maghreb: il cous cous guarnito con verdure e carne di pecora o di manzo, di pollo o cammello; gli spiedini, il tajin condito con prugne e mandorle, la frutta fresca e secca… ma, per qualche strano motivo, ho sempre faticato a trovare in Marocco ristoranti che hanno veramente soddisfatto il mio palato. Ho memoria di ottimi pasti consumati in Tunisia, in Libia e soprattutto in Algeria ma di indimenticabili pranzi marocchini non ho alcun ricordo…
Pensando di organizzare in onore di Fabio una indimenticabile festa, Gianni prenota un tavolo in uno dei quartieri più signorili di Marrakech, al di là delle mura. Il nome del ristorante è omen: Epicurien. Posto elegante ma fuori dal contesto, visto che si offre una variegata cucina internazionale che potremmo gustare a ben altre latitudini. Il costo delle bevande alcoliche è semi proibitivo, e la sete inestinguibile di Gianni subito mette in crisi i nostri portafogli.
Ci troviamo in uno di quei locali pretenziosi, affascinanti e tentatori palcoscenico di tante avventure romanzesche. L’attiguo casinò e le femmine adescatrici completano il quadro. Ricconi, donne piacenti, ludopatici, accompagnatrici, businessman, bella gente da un lato, buttafuori nerboruti, camerieri compiti, croupier cerberi, maître sussiegosi dall’altro. Ottimi posti per conoscere una certa frangia dell’umanità e gettare al vento un po’ di denaro, ma che mi hanno sempre arrecato piaceri effimeri, pronti a evaporare come l’acqua sulla sabbia del deserto. Non regala gioia il piatto simil gourmet che scimmiotta, almeno alla vista, portate di alta cucina, né l’improvvisa vincita alla roulette (subito intaccata dai successivi rovesci). E nemmeno la puledra dai seni di ebano e dai glutei marmorei fasciati da uno stretto abito a fessura di strass. Sembra uscita da un racconto de’ Le mille e una notte, da una di quelle città d’oro e rubini un tempo ubicate oltre il Sahara, nella profonda Africa Nera; un po’ Sfinge e un po’ Medusa, parla un sensuale francese muovendo con grazia e altezzoso distacco le sue labbra carnose.
L’ora è ormai tarda ma i taxisti non mollano la presa, fiutano il cliente frastornato che esce dai gironi dei bagordi, pronti a ciurlarlo nell’ultima corsa notturna.
Se la propria meta si trova dentro la cerchia muraria, in pochi minuti si viene portati fuori da quell’oasi ovattata. Grande è lo stacco dal punto di vista estetico e morale mentre si passa davanti a esseri umani afflitti dalle preoccupazioni che cercano occasioni di fortuna, sognano, sperano, si disperano e che mai potranno permettersi di sperperare i soldi da noi dissipati in una sola serata nei lindi quartieri esterni. Il taxi passa veloce; luci elettriche illuminano un paio di banchetti ambulanti circondati da sfaccendati. Poi intravedo dal finestrino abbassato degli anziani, al buio, che razzolano tra i rifiuti, dividendosi gli avanzi con magri animali senza padrone.
Infinite volte, viaggiando, mi sono misurato e confrontato con la povertà estrema, quella disarmante che non sembra fornire vie d’uscite terrene: i sordidi slum che circondano Lima e New Delhi, i campi profughi giordani in cui si ammassavano famiglie irachene in fuga dai massacri o quelli ubicati ai margini delle foreste vulcaniche del Ruanda, popolate da ragazzini violenti, chissà se Tutsi o Hutu.
Ma forse proprio con Fabio, anni or sono, toccai il fondo mentre attraversavamo gli altopiani del Tigrai. Villaggi di lamiere abitati da disperati seminudi immersi nel fango e nella sporcizia. Magri come cadaveri; neri come demoni. Solo le pupille spiritate, di un bianco impressionante, dimostravano una parvenza di vitalità. Non chiedevano niente, non facevano niente. Inerti, osservavano il transito lungo la strada di polvere che lambiva il loro Inferno terreno; come se adesso, davanti ai nostri occhi, passasse un anonimo gatto randagio.
È comunque sempre questione di un attimo: la stanchezza della giornata sopraffà ogni vago scrupolo che inizia a montare nella coscienza.
Scrive Kafka in una delle sue lettere: “Da un certo punto in avanti non c’è più modo di tornare indietro. È quello è il punto al quale si deve arrivare”.
Dopo un lungo viaggiare, Fabio è convito di aver trovato il suo porto sicuro.
Piccole-grandi storie; una delle innumerevoli che l’Atlante, il Monte dei Monti, vede dipanarsi dinanzi ai suoi piedi, secolo dopo secolo, fin dall’origine di questo mondo, quando, per punizione divina venne qui collocato il Titano omonimo a sostenere le colonne che separano la terra dal cielo.
Buona vita placido amico!