Minima Cardiniana 465/1

Domenica 28 aprile 2024, V Domenica di Pasqua
San Pietro di Chanel, San Vitale, San Lucchese da Poggibonsi

EDITORIALE
Il 25 aprile scorso avrebbe dovuto essere, come molti da anni chiedono e qualcuno addirittura pretende, una “festa di tutti gli italiani”. È quanto il presidente Mattarella ha raccomandato definendolo addirittura un “dovere”. Ma i “doveri”, come tutti sanno, hanno un rovescio della medaglia, i “diritti”. E allora ascoltiamo per una volta serenamente anche le ragioni di quanti, caricati di quel “dovere”, non riescono però a sentirlo come un “diritto”.
Diciamo la verità. Abbiamo assistito a qualcosa di tragicomico per un verso, di avvilente per un altro. Le contraddizioni di un paese ancora profondamente diviso sono emerse perfino nel mondo di associazioni di militanti antifascisti come l’ANPI o all’interno della stessa comunità israelita italiana.
Qualcuno ha negato il diritto ai rappresentanti della Brigata Ebraica – che combatté con valore durante la seconda guerra mondiale – di sfilare alla testa del corteo celebrativo della Resistenza, rinfacciando loro il sostegno al governo di Netanyahu per i crimini dei quali esso si sta rendendo responsabile nella striscia di Gaza. È poi emersa altresì la contraddizione tra l’orgoglio antifascista esibito da alcuni che poi, quando si tratta della guerra tra Russia e Ucraina, non battono ciglio per il fatto che quest’ultima sia sostenuta dai neonazisti del “reparto Azov”. D’altronde, dal momento che da ormai quasi otto decenni si è abituati ad associare la causa degli antifascisti a quella pacifista, è apparso obiettivamente bizzarro che ormai il “paese legale” italiano (vale a dire il governo, quasi tutti i partiti politici, larghissima parte della stampa e degli altri media emittenti televisive in testa) si sia decisamente convertito al fatidico si vis pacem, para bellum, fino a poche settimane fa considerato (peraltro a torto) quasi un motto fascista. Insomma, che cosa sta succedendo?
Dal canto mio, e nelle mie men che modeste vesti di “ballerina di fila” nel rango degli “influencer di terzultimo livello”, ho passato il 24 e il 25 scorsi rifiutando una lunghissima serie d’inviti televisivi o radiofonici a commentare la cosa. Non certo perché io sia reticente a esprimere il mio parere: è cosa che ho sempre fatto, anche quando – ed è accaduto spesso – mi è costata cara. Il fatto è che si trattava invariabilmente, con pochissime eccezioni, d’inviti “avvelenati” quando non addirittura di vere e proprie trappole. Molti avevano bisogno di un nome più o meno decoroso che esprimesse un parere “fuori dal coro”, ma nessuno mi ha potuto né voluto assicurare che mi avrebbero lasciato esprimere la direzione molto particolare in cui mi sarei espresso. L’intento era di utilizzarmi come foglia di fico per dire: “Voilà, vedete? Siamo democratici, abbiamo sentito anche quelli dell’altra parte”.
Ma io non sto affatto “dall’altra parte”, ammesso che ce ne sia propriamente una. Sto per conto mio: e se non mi assicurano di lasciarmi esprimere compiutamente (cosa che non sono disposti a fare), non ci sto.
Entrando nel merito del 25 aprile, è ovvio che nemmeno io – con tutto il mio filogermanesimo, che resta intatto e del quale mi vanto: ma che non è affatto filonazismo – avrei auspicato la vittoria di Hitler; semmai, avrei preferito che la guerra non ci fosse stata, o che l’Italia ne fosse restata fuori come aveva fatto la Spagna di Franco (il che non sarebbe affatto stato impossibile). Per il resto, nessuno può ipotecare il futuro e quindi spiegarci che cosa sarebbe certamente accaduto se l’esito della guerra fosse stato altro da quello ch’è stato: ma questo non è certo un argomento suscettibile di essere trattato davanti a un grande pubblico poco o per nulla preparato.
Le mie reticenze specifiche nei confronti di troppo comode e troppo leggere dichiarazioni di antifascismo – i celebri “due granelli d’incenso” bruciati dinanzi all’ara della Dea Roma che tra II e IV secolo i pagani chiedevano ai cristiani per lasciarli in pace – non hanno che pochissimo (non arriverei a dichiarare che non abbiano nulla) a che fare né con la storia della mia famiglia che fra ’43 e ’45 si spaccò in due (la sezione dei parenti paterni con la Garibaldi, quella di quelli paterni con la Guardia Nazionale Repubblicana), né con la mia giovanile (1956-1963) militanza missina, impegnata ma atipica: ero un giovane missino esplicitamente antinazionalista, fautore di un “Risorgimento” federalistico (cfr. Cattaneo), antinterventista per il ’14-’18 (anzi, filoceccobeppe), anticolonialista (ho sempre tifato per il Negus a proposito del ’35-’36) e simpatizzante della fronda fascista di sinistra (Berto Ricci ecc.) o addirittura di certa sinistra (Fidel Castro ed Ernesto Guevara, per esempio). Insomma, uno strano miscuglio di tradizionalismo cattolico antimoderno ed (ebbene, sì) di “filostalinismo”. Ho scribacchiato qualcosa qua e là, al riguardo: chi vuole, troverà nella mia ohimè fin troppo ampia bibliografia tutto il materiale che vuole, a partire dalla paradossale “autodenunzia” di una quarantina di anni da, il libro Scheletri nell’armadio (Editrice Roccia di Erec).
Tracce di tutto ciò, nell’ormai vecchio e grasso Cardini sono museificate, ma evidenti. E il Cardini addirittura se ne vanta. Molti conoscono, e qualcuno ne fu testimone oculare, l’episodio della grande manifestazione missina del 1962 a Trento e a Bolzano per l’italianità dell’Alto Adige: Cardini, allora componente della Direzione Giovanile del MSI, finì con alcuni suoi sconsiderati sodali per andar a brindare nella sede delle Sűdtiroler Volkspartei; e sfacciatamente tuttora si vanta di essere amico di Frau Eva Klotz, la quale addirittura ritiene quelli della Volkspartei altrettanti, spregevoli, collaborazionisti filoitaliani. D’altronde, come sanno quanti sul serio stanno attenti alle mie dichiarazioni e alle mie scelte di campo, da ormai molti anni mi dichiaro con convinzione cattolico, socialista ed europeista (fautore di una soluzione non federale, bensì confederale di un’improbabile unità politica europea). E mi dispiace che solo ora l’Europa cominci a sognare un esercito comune, quello per il quale Robert Schumann si batté inutilmente per tanto tempo, e che ora si vorrebbe organizzare dal momento che lo “scudo” della NATO sembra vacillare, a costo di restare come si dice col “cerino acceso in mano” a sostenere da soli, noi europei, le “minacce” di Putin, quelle delle quali nessuno ha contezza ma che una banda di politicastri e di pennivendoli assicurano essere terribili e incalzanti.
Ma il vecchio Cardini, con questo fardello passato di follìe, di paradossi e di contraddizioni a livello addirittura pittoresco, perché non si decide una buona volta a far ingresso nel coro venticinquaprilista pur rivendicando il diritto a rimanere stretto nella sua nicchia reazionario-bolscevica?
Risponderò con dolente sincerità. Soprattutto dopo quel che è accaduto quest’anno, proprio non me la sento di tardivi peana conformistici. Lascio da parte il solito usurato teatrino delle polemiche e la penosa kermesse che ha avuto protagonista Antonio Scurati. Resto da parte mia ancora solidale con la vecchia dichiarazione parlamentare di Luciano Violante: rispetto dovuto anche a chi combatté lealmente e con onore dall’altra parte; non certo né ai fanatici né ai criminali, ma senza dubbio a chi davanti al disorientamento generale dopo l’8 settembre e al comportamento vergognoso di Vittorio Emanuele III scelse l’“onore”, o quel che tale gli parve, anteponendolo magari alla libertà. Vorrei che finalmente, rivendicando la bontà della causa della Liberazione, si rendesse omaggio a chi con coraggio e lealtà preferì non passare con quelli che fino a un attimo prima erano stati i nemici; auspicherei che si ribadisse nel contempo la condanna per i molti crimini dei quali alcuni “della parte giusta” si resero responsabili (il “triangolo della morte”, le foibe, le stragi spesso per motivi personali, le ragazze ausiliarie dell’esercito di Salò che non erano reparti combattenti e che nella stragrande maggioranza non meritavano i trattamenti cui furono sottoposti, dal taglio dei capelli alle torture e alle sevizie che si protrassero a lungo anche dopo il 25 aprile); vorrei insomma – diciamocelo tra medievisti – che valutando i comportamenti dei protagonisti si tenesse presente, accanto allo ius ad bellum (chi era “nel giusto” e chi “nel torto”) si tenesse conto anche dello ius in bello (come i singoli combattenti si comportarono: ci furono dei criminali anche tra i vincitori). Certo, si dovrebbe andare al di là delle storie personali: ma non è facile, e al di là di un certo segno mi chiedo addirittura fino a che punto ciò sia giusto e possibile. Ecco perché io, che “fascista” non sono mai stato sul serio nemmeno quand’ero un ingenuo e ignorante (ma onesto) ragazzo missino, ho difficoltà a dichiararmi sic et simpliciter antifascista e senza rilevare le ambiguità di tale termine in apparenza così chiaro e netto (antifascista Churchill, antifascista Stalin, antifascista Einaudi, antifascista Togliatti che pur nel ’36 aveva scritto quello strano eppur intenso appello Ai fratelli in camicia nera). Non si può – né da parte del presidente della repubblica, né di nessun altro – continuar a ripetere che “il 25 aprile è la festa di tutti gli italiani” e continuar poi a offendere con discriminatoria violenza tutti coloro che fecero a torto o a ragione, ma in buona fede, la scelta di restar fedeli a quello che sembrava loro l’onore della patria e la fedeltà a un’alleanza per sbagliata e scellerata che fosse; non si può continuar a recitare il mantra dei “repubblichini” TUTTI servi sciocchi o criminali di Hitler, corresponsabili dello sterminio eccetera, fingendo di dimenticare la vergogna di un sovrano che fugge lasciando il suo popolo in balìa degli eventi e chiedendogli intanto di resistere fino all’ultimo, il disorientamento che colse tutti gli italiani e al quale essi risposero in modo diverso ma con pari sconcerto, la dignità di chi scelse di restare al suo posto ben sapendo che ad attenderlo c’erano solo la sconfitta e la sofferenza, per quanto forse sulle prime la crudeltà della guerra civile non fosse prevedibile nella forma nella quale si sarebbe purtroppo in seguito presentata.
E insomma, last, but not least, fatemelo dir chiaro A ottant’anni di distanza, l’Italia si trova con un capo di governo ex-missino o giù di lì e con un cinquanta-sessanta per cento di aventi diritto che non vanno ma volare. Se gli antifascisti puri, duri e fieri di esserlo non sono riusciti in tanto tempo a convincere tutti gli italiani, se oggi ci troviamo a questo livello di antipolicità e di disamore per la politica, se più della metà dei nostri concittadini non vanno nemmeno a votare e molti di quelli che ci vanno scelgono un partito che reca ancora la fiamma come emblema, ve ne sarà bene qualche motivo. Sono essi che hanno fallito, perché sono essi che hanno gestito il paese permettendone il degrado al quale siamo ormai giunti e la disaffezione che si sono guadagnati: essi che, a dirla parafrasando Miguel de Unamuno, “hanno vinto, ma non convinto”.
Ora, non siamo io e la gente come me a dover “rientrare nel coro”: sono lorsignori che debbono convincerci ch’è il caso di rientrarvi. Sono essi a dover lavorare per conquistare sul serio il paese che hanno avuto nelle mani senza riuscir a provare la bontà delle loro idee attraverso la bontà delle loro opere.
Dal canto mio, parafrasando lo Shatov de I demoni di Dostoevskij, affermo che con gioia potrò dire senza più riserve di credere nell’antifascismo appena sarò messo nella condizione di farlo. Quando esso avrà dimostrato la sua eccellenza, quando avrà adempiuto quanto meno ai suoi impegni: quando a non dir altro avrà condotto la nostra società civile alla piena libertà, che è (anche se ce ne siamo dimenticati) quella socioeconomica; quando non ci sarà più chi non può garantirsi una vita dignitosa, un’istruzione adeguata per i suoi figli, un’assistenza medica pubblica gratuita ed efficace. Finché non ci sarà un passabile, accettabile livello di generale libertà dal bisogno, di giustizia sociale, l’ironia sul “fascismo che fece anche cose buone” resterà fuori luogo e le chiacchiere sul “25 aprile di tutti” resteranno quello che sono. Chiacchiere. FC