Domenica 28 aprile 2024, V Domenica di Pasqua
San Pietro di Chanel, San Vitale, San Lucchese da Poggibonsi
DIO E MAMMONA
UNA BREVE NOTA SULLE ORIGINI DEL CAPITALISMO
di Luigi Copertino
Il motore finanziario
La finanza è da sempre il motore del capitalismo. Lo è stata sin dagli esordi medioevali dell’economia proto-capitalistica. Tra XIII e XV secolo, in particolare nell’Italia settentrionale, si imponeva la rivoluzione socio-economica dei ceti borghesi emergenti, i quali erano portatori di nuove forme di produzione e distribuzione che necessitavano di “guarentigie” e di “statuti di libertà” non possibili senza una profonda modificazione delle strutture del sistema agricolo e fondiario feudale.
In quei secoli non c’era ancora una netta distinzione tra mercante e banchiere. I mercanti erano anche banchieri ossia commerciavano e trafficavano crediti e debiti come fossero stoffe o spezie. Nella piazza comunale del mercato il mercante svolgeva anche la funzione di cambiavalute e le monete si scambiavano sullo stesso banco sul quale erano esposte le merci in vendita. Una differenziazione netta tra mercante e banchiere maturò lentamente in un processo secolare. Del resto gli stessi mercanti sovente erano ancora legati al possesso fondiario o provenivano dal ceto artigianale. Terra e bottega artigiana sono realtà produttive stabili e, per loro natura, non mercantili, non dinamiche.
Nei comuni medioevali forti erano le tensioni sociali tra le corporazioni di artigiani e quelle dei mercanti. L’artigianato esisteva già in età feudale e si urbanizzò quando nelle città si aprirono spazi di commercializzazione dei prodotti che prima, nell’economia curtense, non sussistevano. I più scaltri tra gli artigiani compresero le potenzialità di arricchimento offerte dalla “mercatura” e si trasformarono in mercanti dando origine a un nuovo dinamico ceto che, insieme, trafficava merci e denaro. Questa nuova classe era padrona dei mezzi finanziari necessari alla stessa produzione artigianale urbanizzata e divenne la finanziatrice degli artigiani. Questi ultimi, dipendendo sempre più dai mercanti-banchieri per lo sbocco della propria produzione, andarono inevitabilmente incontro ad un destino di subordinazione che si realizzò dapprima nella forma della produzione a cottimo – gli artigiani lavoravano soltanto per uno o pochi mercanti committenti che ne finanziavano e remuneravano, bassamente, l’attività – e poi nella forma del lavoro dipendente quando l’economia proto-capitalista del tempo assunse forme più mature e già prefiguranti, in modo germinale, quelle moderne dell’industrializzazione ancora di là da venire.
D’altro canto anche all’interno dello stesso ceto artigianale andavano formandosi differenziazioni sociali tra il maestro, gli apprendisti ed i garzoni. Se la realtà “iniziatica” dell’Arte e l’unità giuridica della Corporazione creavano le condizioni dell’unità comunitaria, era alla lunga impossibile impedire l’emersione del contrasto di interessi tra i maestri, che erano i dominus in seno alle corporazioni, ed i garzoni salariati la cui remunerazione, già povera di per sé, subiva anche la pressione verso il basso comportata dalla dipendenza del maestro di bottega dal mercante-banchiere e da circostanze varie come eventuali cadute recessive della domanda o spinte inflattive sui prezzi.
In questo panorama storico, in trasformazione, apparvero anche le prime lotte tra capitale e lavoro nelle forme corporative proprie dell’epoca. La rivolta dei “Ciompi”, ossia degli operai dell’arte della lana, nella Firenze pre-medicea del XIV secolo (giugno-agosto del 1378) – che per breve tempo riuscirono ad imporre una sorta di proto-sindacalismo ottenendo una propria corporazione riservata ai soli salariati e rappresentata nel governo cittadino – fu espressione di tali lotte, le quali si coloravano anche di contenuti misticheggianti a sfondo millenaristico ed ereticale e che, nel caso fiorentino, prepararono la strada all’ascesa della dinastia bancaria dei Medici. Cosimo il Vecchio, infatti, comprese perfettamente che se avesse usato le proprie risorse finanziarie in una politica di favore per i ceti meno abbienti, praticando prestiti agevolati in modo da sostenerne le attività, avrebbe dotato il suo casato di una base di consenso popolare idonea alla conquista del Comune, prima, e della Signoria, poi.
Rinviando, in proposito, agli studi di Franco Franceschi, Duccio Balestracci ed altri insigni storici[1].
Proto-capitalismo e proto-sindacalismo
Tra XIV e XV secolo si forma, dunque, una sorta di “proto-capitalismo” che, sebbene non possa dirsi matrice diretta del capitalismo moderno – perché quest’ultimo ha caratteristiche molto diverse connesse soprattutto con il perfezionarsi dei mercati finanziari, con la rivoluzione tecnologica del XVIII secolo e la progressiva secolarizzazione della società –, mette in evidenza il ruolo sempre più centrale che già all’epoca andava assumendo l’elemento finanziario e creditizio dell’economia rispetto a quello produttivo. É il mercante-banchiere, che intanto inizia a trasformarsi in imprenditore, così distinguendosi dal banchiere vero e proprio, ad organizzare i maestri artigiani, spesso riducendoli a lavoratori dipendenti secondo forme più o meno variegate di salariato, attraverso la divisione tra di essi del lavoro in fasi distinte volte all’ottenimento del prodotto finale.
Non ancora esistendo una netta distinzione tra imprenditore e banchiere, come nei secoli successivi, in questo periodo il mercante-imprenditore è anche un mercante-banchiere ossia un trafficante di merci insieme ai crediti e, quindi, di risorse finanziare che egli accumula e poi investe. Il “popolo ricco”, le Arti maggiori, sono espressione di questo ceto finanziario-imprenditoriale in costante ascesa. Contro di esso, tuttavia, si registra il formarsi di una embrionale coscienza di classe da parte degli stessi maestri artigiani, semi-dipendenti o già salariati, in alleanza con le altre categorie sociali ancor più svantaggiate, come appunto i lavoratori più minuti. Nel caso fiorentino, come detto, essi erano i Ciompi.
Il rilievo quindi per il quale, nello stesso periodo, tentò di affermarsi, senza successo, un “proto-sindacalismo”, secondo le forme corporative tipiche del tempo, se naturalmente proposto con la stessa prudenza usata a proposito del carattere effettivamente “capitalistico” del proto-capitalismo basso medioevale, non è illegittimo. In ogni caso, la ricerca storica dimostra che l’immagine di una civiltà urbana fondata su associazioni produttive egalitarie, quindi su basi di democrazia comunale, non sempre corrisponde alla realtà, molto variegata, dello scenario sociale basso-medioevale. Al contrario, registriamo la formazione di una nuova gerarchia sociale, che si sostituisce a quella feudale. Una nuova gerarchia basata, questa volta, sulla tendenziale preminenza dell’elemento finanziario che muove il nascente capitalismo produttivo.
Il Sacro/Santo, il Politico e l’Economico
Questa preminenza resterà il carattere proprio del capitalismo, anche maturo, ma ne rappresenterà contestualmente l’elemento di maggior debolezza e contraddizione. Più che dal contrasto tra le componenti del mondo produttivo, ossia imprenditori e lavoratori, che pure sussisterà ma dimostrandosi, nel corso delle vicende storiche, di essere suscettibile di composizione equitativa, la storia del capitalismo è caratterizzata, soprattutto nella sua veste postcristiana, dal conflitto tra il suo motore finanziario e la sua natura di migliorata organizzazione produttiva reale.
Si tratta del conflitto tra il denaro – che punta ad autoriprodursi e che, pertanto, usa la produzione reale nella misura in cui è funzionale alla sua riproduzione, per sganciarsene ogni qual volta le circostanze storiche e l’avanzamento delle tecniche finanziarie lo hanno reso possibile – e il lavoro ricomprendendo in esso sia il lavoro imprenditoriale, direttivo, che il lavoro esecutivo, intellettivo o manuale. Un conflitto che, all’alba del XXI secolo, dopo il tramonto dello Stato nazionale, il quale giocoforza, per la sua stessa sopravvivenza, era riuscito ad imporre alla finanza, con mezzi giuridicamente coercitivi, un ruolo sociale legandola alla produzione reale e al territorio, sembra farsi ancora più radicale fino al punto che, attualmente, l’elemento finanziario si è reso quasi del tutto indipendente dalla produzione trasformandosi in un sistema virtuale, derivato ed autoreferenziale, di auto-riproduzione monetaria, ex nihilo, sempre più distaccato dalla concreta base produttiva dell’economia reale.
Tra Politico ed Economia c’è sempre stato uno stretto rapporto, con fasi alterne di prevalenza dell’uno sull’altra o viceversa. Anche i poteri finanziari hanno sempre corteggiato l’Autorità politica. Un po’ alla volta detti poteri sono riusciti non solo a porsi nei suoi confronti in termini paritari ma anche a surclassarla fino ad asservirla. In età feudale il Sacrum Imperium esprimeva il primato del Politico e con tale primato dovette confrontarsi la nascente borghesia comunale senza, tuttavia, riuscire a ribaltarlo. La dantesca “gente nova di subiti guadagni” dovette piuttosto concordare con esso un modus vivendi nel riconoscimento ineludibile del Regnum.
Nella Cristianità sarebbe stato impossibile non riconoscere, a tutti i livelli della gerarchia sociale, l’Autorità dei Due Soli, Impero e Papato. Tanto è vero che lo stesso ceto dei mercanti-banchieri e le dinastie da esso espresse, come quella medicea, assurgendo a ruoli di governo, cittadino o signorile, mentre surrogavano l’aristocrazia militare-fondiaria, facevano proprie a livello locale le medesime forme rituali, gli stessi simboli e gli stessi poteri, dell’imperium esercitato dell’Autorità Politica tradizionale. Questo accadeva non solo per mero mimetismo, come troppo facilmente si dice, ma per condivisione di una visione del mondo sacrale, per quanto rivisitata, riformulata e, in germe, “contaminata”, nell’adattamento ai tempi nuovi, dall’emergere del potere finanziario auto-centrico.
Dato che il Politico aveva fondamento innanzitutto nel Sacro-Santo – Santità e Sacralità non sono in opposizione ma modi di manifestarsi dell’Unica Fonte Divina – il rapporto tra Politico ed Economia era, in ultima istanza, anche un rapporto tra quest’ultima e il Santo-Sacro. In altri termini, il rapporto tra Sacro, Politico ed Economico era una specie del più generale rapporto tra Sovra-mondo, Mondo Intermedio e Mondo creato. Questo implicava inevitabilmente problemi di conflittuale interrelazione anche tra la sfera della Santità sacrale e la sfera dell’Economia nel continuo adattamento delle cangianti forme storiche della finanza e della produzione agli imperativi etici – che spesso si cercava di aggirare con stratagemmi che tuttavia salvavano le apparenze formali – derivanti da principii archetipici e trascendenti ritenuti in sé immutabili.
Va notato che questo continuo adattamento, questo continuo braccio di ferro tra l’etica sociale cristiana e le esigenze della nuova economia, segnala il freno che nel mondo medioevale trovava l’emergente potere finanziario, motore del capitalismo, e lascia aperta la domanda circa le forme, le dinamiche, le dimensioni, diverse da quelle che poi abbiamo effettivamente conosciuto, che il capitalismo avrebbe potuto assumere se tale freno non si fosse, alla lunga, indebolito.
La tradizionale avversione alla rendita finanziaria
Tutto il processo di trasformazione storica delle forme politiche ed economiche, cui abbiamo sopra accennato, si sviluppò, infatti, in seno ad una Cristianità che fondava la propria legittimità sulla Rivelazione Primordiale Adamitica continuata, dopo la sincope delle origini, nella Tradizione Abramitica e ristabilita nell’Incarnazione del Verbo, per la salvezza dell’intera creazione imperniata sull’Uomo Imago Dei. Sin dall’Antico Testamento, la Tradizione Abramitica ha guardato con sfavore alla rendita da denaro senza investimento in attività produttive. Tale approccio fu ereditato dal Cristianesimo (“prestate senza nulla sperarne”, Lc. 6, 34-35). L’avversione ecclesiale alla rendita finanziaria, infatti, non dipendeva soltanto dal pregiudizio aristotelico sulla “infecondità del denaro” ma aveva, per l’appunto, radici bibliche. Lo stesso Tommaso d’Aquino non condannava l’investimento del denaro in società commerciali o artigianali ma soltanto l’interesse da prestito di denaro senza che il prestatore fosse anche socio e quindi partecipe del lavoro societario e del rischio d’impresa. In Aristotile l’Aquinate trovava le argomentazioni “razionali”, ossia scientifiche secondo la scienza, ovvero la filosofia, del tempo che era per l’appunto aristotelica, per dimostrare la concordanza tra la Rivelazione biblica e la “retta ragione”, ma non era lo Stagirita la base principale delle argomentazioni tomiste.
In altri termini, il pensiero cristiano di fronte al problema del giusto uso del denaro ha sviluppato, in concordanza con le sue radici bibliche, un atteggiamento di favore verso l’attività produttiva reale e di sospetto verso le attività finanziarie puramente speculative. Questo approccio cristiano, naturalmente, pesava nelle teorizzazioni e nella prassi che andava facendosi strada con l’emergere della nuova economia protocapitalista per la quale il ruolo della finanza era già centrale. Se è vero che si arrivò diversi secoli dopo ad una plateale rottura tra Chiesa e nuovo mondo emergente, è altrettanto vero che quella rottura non era un destino ineluttabile. La nuova economia nacque in seno al quadro etico abramitico-cristiano sfavorevole alla rendita finanziaria e i suoi stessi esponenti, almeno fino al XV secolo, ne condividevano i precetti benché, per necessità pratiche, cercassero accomodamenti ed adattamenti tali da salvare, per quanto possibile, insieme le esigenze etiche e la sostanza economica. Nei libri contabili dei mercanti-banchieri c’era sempre, immancabile, la voce “per Messere Domine Dio”. In detta voce contabile erano registrate le donazioni caritative mediante le quali si restituiva alla comunità una parte dei profitti ottenuti mediante l’uso speculativo del denaro. Non era una ipocrisia. Era un modo di restare, con pace della coscienza, buoni cristiani pur in una economia che chiedeva un approccio con il denaro diverso da quello tradizionale.
La stessa Chiesa cercò di andare incontro a questi uomini nuovi, dei quali come di tutti gli uomini Essa aveva comunque a cuore la salvezza. E se è eccessiva la tesi di Jacques Le Goff, secondo la quale il purgatorio sarebbe stato inventato tra XIV e XV secolo per sovvenire agli scrupoli di coscienza dei mercanti – in realtà il purgatorio ha solide basi scritturali oltre che mistico-rivelative e quindi di “invenzione” può parlarsi solo come di “riscoperta” di una verità di fede sino a lì poco considerata –, di certo l’introduzione di quella forma di credito sociale che furono i francescani Monti di Pietà andava incontro alle necessità di quei contadini ed artigiani non proprio poveri in canna, perché si trattava di famiglie con risorse proprie ma non bastevoli per dare solidità alle proprie attività economiche, offrendo loro un accesso al credito a prezzo moderato. Lunga fu la polemica contro tali istituzioni, accusate dai rigoristi di praticare usura benché a basso interesse, dell’ordine del 5%, ma alla fine la Chiesa ne riconobbe la legittimità morale in quanto adattamento etico ad una prassi finanziaria ed economica che ormai contemplava necessariamente la rendita finanziaria.
Il problema era semmai come impedire alla rendita di primeggiare e di auto-accumularsi a danno delle esigenze sociali ed economiche della comunità. I Monti di Pietà erano una risposta a questo problema. Risposta che, secoli più tardi, tra XIX e XX secolo avrebbe trovato una riedizione moderna nel credito sociale delle banche popolari, delle casse di risparmio, delle cooperative mutualistiche tanto di matrice cattolica che laico-socialista.
Origini cattoliche del capitalismo?
La tesi, oggi molto diffusa, per la quale il capitalismo sarebbe stato inventato dal Cristianesimo cozza contro la realtà teologica e storica. Se è vero che l’atteggiamento biblico verso il mondo – per il libro della Genesi la creazione è cosa buona – è certamente ottimista, in quanto l’essere non è una caduta da una Oscurità insondabile, come nelle gnosi spurie, ma un dono d’Amore, sicché anche l’attività economica ha una valenza positiva, è altrettanto vero, e troppo facilmente lo dimenticano gli assertori delle radici cattoliche del capitalismo, che nella visione abramitico-cristiana l’economia non può darsi scissa da un’etica di donazione e di carità sociale, la quale è esattamente il contrario dell’avidità dell’accumulazione capitalistica fine a sé stessa.
Nel XV secolo – ossia quando con la crisi umanistica la Cristianità iniziò ad entrare in crisi e il pensiero cristiano, nonostante gli sforzi di importanti teologi come Nicolò Cusano, non riuscì, come invece erano riusciti i Padri della Chiesa nei primi secoli, a recuperare il rinascente neoplatonismo che andava riappropriandosi di forme puramente pagane – proto-economisti già essenzialmente postcristiani, come il fiorentino Leon Battista Alberti, nei loro scritti intorno alla “masserizia” mostravano già un completo distacco da qualsiasi scrupolo etico nel rapportarsi con il tema delle loro preoccupazioni ovvero come accumulare sempre di più senza darsi cura o pena del prossimo.
“Che cosa ha sconvolto”, scrive Piero Roggi, “il delicato equilibrio culturale e operativo medioevale? Che cosa ne ha incrinato lo spirito economico facendo nascere una società discordante, insomma una società capitalistica, già durante il Quattrocento? La risposta è secca: se la società medioevale era dominata dall’idea della ‘limitazione’ (di detenzione e d’uso) della ricchezza, la società umanistica, al contrario, è dominata dall’idea della ‘illimitatezza’. Oltrepassare quella linea ideale che dalla sufficienza porta all’eccedenza, insistere su quell’idea di mancanza di un confine, entro il quale mantenersi se si vuole che le ricchezze non ingombrino la vista metafisica, questo varcare la soglia del limite, coincide con il momento stesso della nascita dello spirito capitalistico […]. Quel che conta è che cada il limite all’accumulazione della ricchezza e che l’egoismo distributivo, che tiene per sé quanto prima veniva elargito ai poveri, si impossessi della mente degli operatori economici. Nella nuova società, alla gloria di Dio si sostituisce la fama e la ricchezza dell’uomo che, messosi al posto del Signore, governa anche i riti di un meccanismo auto-referenziale e auto-idolatrico, facendosi rappresentare in tutto il suo sfarzo. L’accumulazione diventa una virtù, cedere il sovrappiù una debolezza”[2].
Dunque è nel cuore dell’uomo che avviene la decisione definitiva per il bene o per il male, come la Rivelazione attesta sin dai Tempi Primordiali, e questo è tanto più vero anche nella sfera del Politico e dell’Economico.
Cattolicesimo, protestantesimo e capitalismo
Se ha sbagliato Max Weber nell’individuare le radici del capitalismo nel protestantesimo, quello calvinista in particolare, è altrettanto certo che errano coloro che credono di trovare nel proto-capitalismo medioevale le stigmate dell’economia capitalistica di mercato moderna. Infatti quel proto-capitalismo nacque e restò ben chiuso nell’alveo culturale, etico e spirituale di una Cristianità che comunque indicava all’uomo, quale fine principale della sua esistenza terrena e quindi anche della sua attività economica, il Cielo, verso il quale l’intera creazione era in marcia per la conclusione del Disegno Salvifico di Dio che nel Cristo Incarnato, dell’Apocalisse, ha posto il Principio e insieme la Fine della storia, come conclusione dell’unico ciclo temporale di partecipazione ontologica delle creature a Dio e di ritorno a Lui.
Fu solo con la crisi dell’Universalismo medioevale, crisi della Cristianità, che il proto-capitalismo prese la strada postcristiana che poi ha percorso ed assunse il volto e le forme che oggi conosciamo, esaltando sempre più, in particolare, il suo aspetto finanziario fino a farne un motore autoreferenziale che va divorando la stessa economia reale.
L’errore di Weber emerge dalla constatazione che i riformatori protestanti non erano affatto favorevoli all’arricchimento indiscriminato. Al contrario, nelle loro prediche e nei loro scritti essi hanno parole di fuoco, desunte dal retaggio biblico ma anche dalla tradizione medioevale, contro gli usurai, gli speculatori, gli avidi di ricchezze e, d’altro canto, parole di elogio per la povertà evangelica. La questione dell’influsso protestante, non nella nascita del proto-capitalismo quanto nella sua deviazione anticristiana, sta tutta nella rottura del rapporto analogico, dell’analogia entis, tra Dio e mondo, tra Sovra-mondo, Mondo intermedio e Mondo creato.
La rottura di ogni rapporto tra Spirito e materia, tra Fede e ragione, tra Dio e uomo – che in Lutero è cloaca insanabile di peccato –, esaltando l’Apofatico contro il Catafatico, disincarnando l’uomo mediante una spiritualità soggettivistica onde liberarlo dalla corporeità ritenuta irrimediabilmente corrotta, e non solo ferita, ha inevitabilmente opposto il Sacro al Politico/Economico tranciandone la continuità ontologica, sicché, nonostante le invettive dei predicatori protestanti contro la ricchezza smodata, la sfera politica e quella economica hanno rivendicato, per contraccolpo allo spiritualismo disincarnato protestante, la loro indipendenza dalla sfera della Santità sacrale, e dall’etica che ne discende, relegandola nel privato senza più incisività sociale.
Il “sola Fides”, togliendo ogni rilevanza salvifica alle opere, intese quale manifestazione esteriore della trasformazione del cuore ottenuta dalla Grazia, inevitabilmente spinge l’attività economica, e le sue motivazioni, verso una sorte di dominio naturalistico perché viene, in tal modo, meno la subordinazione del produrre e del commerciare ai superiori fini spirituali della salvezza personale e comunitaria. Se la salvezza è questione di fede intimistica e soggettiva, senza che opere anetiche ed a-sociali possano inficiarla, diventa lecita ogni forma di ricchezza comunque ottenuta, anche fuori dal lavoro e quindi anche attraverso la speculazione. Nell’esclusione della fede dal sociale, la ricchezza comunque accumulata è sempre legittima indipendentemente dalle conseguenze negative che tale arricchimento comporta per il prossimo.
Anche l’ascesi intra-mondana proposta dal metodismo calvinista esprime questa rivendicazione, per contraccolpo, di indipendenza della sfera economica. Di fronte alla drammatica incertezza nella quale il predestinazionismo luterano aveva posto la coscienza del fedele nei riguardi della salvezza, Calvino, per placare l’ansia escatologica, indicò nella prosperità e nel successo professionale, quindi nell’accumulazione egoistica (da qui lo sfavore calvinista per il lusso e in genere gli atteggiamenti di dispendiosità, dilapidatori delle ricchezze accumulate), i sicuri segni di salvezza. Come in una sorta di rovesciamento, Calvino restituisce alla sfera economica quella dignità che ad essa aveva negato Lutero ma questa restituzione avviene in uno scenario di totale fideismo irrazionale, ossia senza alcuna partecipazione e continuità analogica tra Dio e mondo, sicché l’economia, una volta raffreddato il momento ancora religioso presente nel calvinismo, se ne va per conto suo ringraziando per l’ottenuta emancipazione da qualsivoglia inferenza etica, o superiore, che adesso è semplicemente negata. Da questo momento il proto-capitalismo nato e trattenuto nell’alveo della Cristianità, che avrebbe potuto prendere ben altre strade coerenti con l’etica cristiana, si avvia verso la separazione e l’autonomia oppositiva postcristiana, in tensione e controtendenza con la Rivelazione. Senza la crisi umanistica, portata alle estreme conseguenze dalla crisi protestante, avremmo forse avuto un altro capitalismo, più sociale, più etico, più cristiano.
[1] Cfr. di F. Franceschi, “I salariati”, in Ceti, modelli, comportamenti nella società medievale (secoli XIII- metà XIV), Atti del diciassettesimo convegno internazionale di studi (Pistoia 14-17 maggio 1999), Pistoia, Centro italiano di studi di storia e d’arte, 2001; “La grande manifattura tessile”, in La trasmissione dei saperi nel Medioevo (secoli XII-XV), Atti del diciannovesimo convegno internazionale di studi, a cura di G. Cherubini, Pistoia, Centro italiano di studi di storia e d’arte, 2005; “L’organizzazione corporativa delle grandi manifatture tessili in Europa: spunti comparativi”, in Tra economia e politica. Le Corporazioni nell’Europa medievale, Pistoia, Centro italiano di studi di storia e d’arte, 2007; Oltre il ‘tumulto’. I lavoratori fiorentini dell’Arte della Lana fra Tre e Quattrocento, Firenze, Olschki, 1993; “…E seremo tutti ricchi”. Lavoro, mobilità sociale e conflitti nelle città dell’Italia medioevale, Pisa, Pacini, 2012; con I. Taddei, Le città italiane nel Medioevo. XII-XIV secolo, Bologna, Il Mulino, 2012. Cfr. di D. Balestracci “Li lavoranti non conosciuti. Il salariato in una città medievale (Siena 1340-1344)”, in Bullettino Senese di Storia Patria, LXXXII-LXXXIII, 1975-1976. Importanti anche i contributi di M. C. Billanovich “Per la storia del lavoro nel Quattrocento: il maglio di Padova”, in Viridarium floridum. Studi di storia veneta dagli allievi a Paolo Sambin, a cura di M.C. Billanovich, Padova, Antenore, 1984, pp. 231-253; di P. Cammarosano. “L’economia italiana nell’età dei comuni e il ‘modo feudale di produzione’: una discussione”, in Cammarosano. Studi di storia medievale. Economia, territorio, società, Studi 03, CERM, 2009; di V. Costantini “Lavoro, conflitti, rivolte”, in Il Medioevo. Dalla dipendenza personale al lavoro contrattato, a cura di F. Franceschi, in Storia del lavoro in Italia, vol. II, diretta da F. Fabbri, Roma, Castelvecchi, 2017; di D. Degrassi “Gli artigiani nell’Italia comunale”, in Ceti, modelli, comportamenti nella società medievale (secoli XIII-metà XIV), Atti del diciannovesimo convegno internazionale di studi (Pistoia 14-17 maggio 1999), cit.; “La trasmissione dei saperi: le botteghe artigiane”, in La trasmissione dei saperi nel Medioevo (secoli XII-XV), 2005.
[2] Cfr. P. Roggi, “Introduzione” a A. Fanfani, Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo, Marsilio, Venezia, 2005, p. XXII.