Minima Cardiniana 466/4

Domenica 5 maggio 2024
VI Domenica di Pasqua, San Gottardo

VELA A MOMPRACEM
Riprendiamo un racconto che fa parte della raccolta I racconti del Mala bar. Diario di un viaggiatore in Thailandia, Solfanelli editore, Chieti, 2020
FANTASMI
di Luigi G. de Anna
Dalla banca dove dovevo firmare il contratto per conto della mia ditta, mi avevano scritto che l’incontro era stato anticipato addirittura di due mesi. Un’amica che vive a Bangkok mi consigliò di prendere un hotel in Sukhumvit, la lunga arteria dei centri commerciali, delle banche e dei negozi di lusso. Il luogo dove avevo l’appuntamento di lì si raggiunge facilmente. Bangkok è infatti famosa per i suoi “traffic jam”, gli ingorghi che la rendono invivibile nelle ore di punta.
Avevo dunque cercato in internet un hotel da quelle parti. Il primo che comparve nella lista delle offerte di Agoda era il Nana hotel. Ottimi prezzi e lusinghiere recensioni da parte dei clienti.
Per curiosità cercai in internet qualcosa su questo albergo e lessi che l’hotel Nana era stato costruito verso la metà degli anni Sessanta per ospitare i soldati americani stazionati in Vietnam o nelle basi dell’aviazione USA in Thailandia. La loro licenza rientrava nel programma di R&R, Rest and Recreation, come veniva chiamato. Rimanevano cinque giorni, poi tornavano in Vietnam. Una storia per me interessante, avendo da poco letto un libro di Michael Herr, Dispatches, che tratta proprio della Guerra del Vietnam. Del resto io stesso appartengo a questa generazione del Vietnam, e di quegli avvenimenti ne ho un vivido ricordo e, lo devo ammettere, qualche sasso lo avevo lanciato anch’io contro il consolato USA.
Quando arrivai non restai deluso. L’hotel, che stavano rimodernando, era ancora molto simile a quello originario degli anni Sessanta. Cercavo di immaginare come fosse la vita in quell’hotel, dall’aria oggi decisamente vissuta. Devo però aggiungere che non poca fu la mia sorpresa nel constatare che l’hotel era proprio difronte a Nana plaza, uno dei siti a luci rosse più noti di Bangkok. A partire dalle otto di sera si animava, e il viavai di turisti, ragazze in cerca di compagnia e venditori di cibi suscitò la mia curiosità di osservatore.
L’hotel ha una veranda che dà direttamente sul parcheggio, in fondo al quale si trovano le freelancer, le ragazze che al calar del sole sostano in attesa dei clienti. L’atrio è un continuo via vai di giovani donne che salgono o scendono dalle stanze dell’hotel. In teoria dovrebbero lasciare la carta di identità alla security, ma non sempre gliela chiedono. È una misura opportuna, nel caso qualcuna ne approfitti e fugga con l’“argenteria”, come chiama il portafoglio un mio vecchio amico, da anni frequentatore della Thailandia.
La notte – ero andato a dormire presto perché ancora scombussolato dal cambiamento di fuso orario – fui svegliato dal fragore assordante della musica che proveniva da Nana plaza. Non potevo più chiudere occhio e fui costretto a scendere per chiedere alla recezione di darmi un’altra stanza che non fosse al secondo piano, possibilmente dalla parte opposta del Nana plaza. Per fortuna era bassa stagione e non fu difficile accontentarmi.
Oramai non avevo più sonno. Mi appoggiai al bancone della reception e mi misi a sfogliare un dépliant. L’impiegato del turno di notte, cui mi ero appena rivolto, forse per riparare al torto fattomi dal suo albergo, mi portò una tazza di caffè fumante e una bottiglia di acqua gelata. Era un uomo anziano, probabilmente sulla settantina. Di bassa statura, con gli occhiali dalla montatura in oro che stentavano a stare in equilibrio su un piccolo naso. Mi sorrideva, come sempre sorridono i Thai. A quell’ora non aveva molto da fare. Mi chiese di dove fossi. Dissi di essere americano, ma di padre italiano. La domanda seguente fu ovvia. Che cosa facevo a Bangkok? Aveva certamente capito che non ero uno dei soliti frequentatori di quel quartiere. Fu allora che mi colse una curiosità.
– Da quanto lavora in questo hotel?
– Da una vita.
– E cioè?
– Da quando fu inaugurato, nel 1967.
Volli saperne di più.
– Quindi lei lavorava qui quando ci venivano i soldati americani?
– Certo. Erano buoni clienti, lasciavano delle mance generose. A me e alle ragazze. Vede, quel Nana plaza lì di fronte nacque proprio per loro. Presto le ragazze della periferia e della campagna cominciarono a venire qui. I soldati pagavano in dollari, se le portavano in camera, bevevano fino ad ubriacarsi e la mattina magari qualcuno si svegliava senza più il portafoglio. Eh, ne avrei di storie da raccontare!
– Me ne racconti una, non ho più sonno. Le storie mi piacciono.
L’uomo mi guardò a lungo, anzi, mi scrutò con attenzione.
– Le ricordo qualcuno? – gli chiesi incuriosito.
– Può darsi, ma è passato tanto tempo.
– Tanto tempo da che cosa?
– Oh, non credo che la storia potrebbe interessarla…
– Mi metta alla prova.
– Lei crede ai fantasmi?
La domanda mi parve strana. Sapevo dell’amore dei Thai per le storie di spiriti e fantasmi, comunissime peraltro anche a cinesi, malesi e indocinesi.
– Beh, se ne vedessi uno potrei anche crederci… – risposi con un sorriso un po’ maleducatamente beffardo. Ma l’impiegato non colse la mia ironia. Fece una lunga pausa e continuò.
– Lei voleva una storia su questo albergo? Eccola: le ho detto che qui venivano i GI in licenza dalla guerra. Si ubriacavano, si portavano in camera le ragazze che avevano cominciato a frequentare il bar della lobby scoprendo il nuovo business del bum bum a pagamento, qualcuno si innamorava e giurava che sarebbe tornato. Dopo i cinque giorni della licenza ripartivano per la guerra. Chissà quanti di loro hanno ora il nome sul lungo muro nero del Vietnam Veterans Memorial di Washington.
L’impiegato interruppe il suo racconto, appariva turbato.
– Vuole un altro caffè?
– No, grazie.
– Una birra?
– Alle quattro di mattina? – tagliai corto, ansioso di sentire la storia che l’uomo aveva promesso di raccontarmi prima che se ne pentisse.
Riprese il suo racconto.
– Una notte – aveva socchiuso gli occhi come per ricordare meglio – successe una cosa terribile: due GI ubriachi violentarono ed uccisero brutalmente due ragazze thailandesi che avevano portato in camera. Le trovarono la mattina, i corpi straziati, immerse in un lago di sangue che dal letto dilagava sul pavimento.
– Terribile! – esclamai vergognandomi dei miei compatrioti. – Furono arrestati?
– Oh, no! Naturalmente se la cavarono; la polizia militare li allontanò rapidamente dall’hotel. Furono rispediti in tutta fretta in Vietnam. Non ci fu nessuna indagine. A chi poteva importare la morte di due prostitute Thai?
La storia mi aveva impressionato, e gli chiesi dove, in quale stanza fosse stato consumato quell’orribile crimine.
L’uomo stava per rispondermi quando dall’ufficio uscì una Thai in gonna e giacca blu.
Pai baan kâp, vai a casa, continuo io il turno.
L’uomo mi guardò come per scusarsi, e cogliendo nel mio sguardo la curiosità rimasta insoddisfatta mi disse:
– Aspetti un momento.
Scomparve nell’ufficio e poco dopo ne tornò con una copertina di pelle un po’ consunta.
– Legga qui, me lo restituirà domani.
Non disse altro, giunse le mani nel solito wai, il gesto di saluto dei Thai, e se ne andò.
Me ne tornai in camera. All’improvviso la stanchezza del lungo viaggio mi aveva colto. Mi stesi sul letto e caddi in un sonno profondo.
La mattina seguente andai a fare colazione nella grande sala ristorante del Nana. Le cameriere, giovani ed efficienti, sgomberavano rapidamente il tavolo di chi si alzava.
Alcuni degli ospiti erano farang (come in Thailandia chiamano gli occidentali) che se ne stavano soli al tavolo, digitando nei loro cellulari; altri sedevano con la Thai con cui avevano passato la notte e altri ancora erano coppie miste fisse. Non c’erano bambini.
Mi colpì una ragazza. A prima vista mi sembrò essere giovane, poi, passandole vicino per andare al buffet, mi accorsi che giovane proprio non doveva esserlo, aveva la solita età indefinibile delle donne Thai. Girava tra i tavoli come se stesse cercando qualcuno. Si fermava un attimo, chiedeva qualcosa al farang single di turno, e qualche volta si sedeva al suo tavolo per un po’. Poi si rialzava e ricominciava la sua ricerca. E questo fino a quando si sedette al tavolo di un uomo piuttosto avanti negli anni. Era sulla settantina. Quando, incuriosito dalla coppia, gli passai accanto come per caso, sentii che l’uomo, che avevo dall’apparenza creduto essere un giapponese, parlava con un forte accento americano. La donna ora sembrava essere veramente interessata. Lo si capiva da come spingeva in avanti il corpo verso l’uomo, quasi stesse cercando un contatto fisico, lo guardava negli occhi, sorrideva, poi rideva per qualcosa che lui le diceva. Di tanto in tanto posava la sua mano sul suo braccio, in un gesto che era più che amichevole. Il gesto che avevo visto fare nei bar lì vicino dalle ragazze quando vogliono concludere col farang. Lui, con un’aria timida da venditore di orologi, non tardò a cadere nella rete.
La ragazza aveva lunghi capelli neri, ma arruffati e non lisci come hanno di solito le Thai. Mi colpirono gli occhi, grandi, strani, irrequieti, quasi gelidi anche quando rideva. Anche il vestito mi sembrava stonare, un abitino pateticamente fuori moda, chissà da quale bancarella di roba usata lo aveva comprato.
La scena mi aveva distratto dalla cartella dalla copertina di pelle che mi ero portato dietro e che non avevo ancora avuto il tempo di aprire. Finii di bere la prima tazza di caffè, me ne versai un’altra e cominciai a leggere.
Era una raccolta di articoli di giornale. Il primo, il più vecchio, portava la data del 20 maggio 1968. Non potei non notare che lo stavo leggendo esattamente cinquant’anni più tardi. Una coincidenza ben strana. Ma non fu la sola.
L’articolo del Bangkok Post era su tre colonne, il titolo era: “Un duplice delitto al Nana hotel”. Ecco che cosa l’uomo della reception mi avrebbe volute raccontare.
L’articolo riportava i particolari dell’episodio. Due GI si erano portati in camera due giovani ragazze che avevano conosciuto in un vicino bar. Forse perché avevano resistito alla loro violenza, erano ubriachi fradici e per di più avevano fumato hashish, le due ragazze erano state barbaramente uccise. Ambedue erano state prima violentate e poi sgozzate in un impeto di malvagia rabbia. Evidentemente i due GI avevano agito aiutandosi l’uno con l’altro.
Qui finiva l’articolo. Girai la pagina. Due giorni dopo il Bangkok Post annunciava che i due soldati erano stati sottratti dalla Military Police alla polizia thailandese e, fatti rapidamente salire su un aereo, erano stati rispediti a Da Nang.
Ancora un altro articolo scritto una settimana più tardi. Il quotidiano si lamentava nell’editoriale del fatto che i due GI fossero stati sottratti alla giustizia locale, e Peter Nakajima e Frank Giuliani avevano così potuto evitare un’esemplare condanna.
Sobbalzai sulla sedia: anch’io mi chiamo Frank Giuliani! Ma di questo assassino non sono affatto parente. O almeno spero, pensai con un sospiro.
Richiusi la cartella. Mi guardavo intorno quasi smarrito. E fu allora che notai che il nippo-americano e la giovane se ne stavano andando, mano nella mano, lasciando la sala.
“Il mano nella mano” in Thailandia è il chiaro segno del raggiunto contratto: la donna prende per mano l’uomo come per dire: “Ora è mio”; è un segno inequivocabile di possesso. Mai altrimenti i Thai camminerebbero in quel modo. Il contatto fisico in pubblico è giudicato essere inappropriato, come del resto non educate sono le effusioni, anche se innocenti.
Ma lei aveva un’aria come dire… dura, ecco… sorrideva ma non c’era gioia in quel sorriso… mi fece… lo ammetto… paura…
Lasciai la sala subito dopo la coppia. Fuori faceva molto caldo, mi ritirai quindi in una piacevole pasticceria che dava su Sukhumvit e mi misi a leggere una raccolta di poesie di Rudyard Kipling. Affascinato dalla sua poesia Mandalay stavo infatti esaminando la possibilità di passare qualche giorno in Myanmar. Quella lettura era proprio adatta.
Il pomeriggio passò rapidamente. La sera uscii in cerca di un ristorante per cenare. Non avevo però appetito e mi accontentai di un pad thai comprato a un banchetto lungo Soi 11, una traversa di Sukhumvit. Bevvi una birra in uno dei tanti bar della stessa strada e mi ritirai abbastanza presto.
– Stanza 406 – dissi alla ragazza della reception, che mi porse la chiave col solito sorriso.
Fu allora che mi colse un irragionevole timore che mi fece rabbrividire. Vidi all’altra estremità del banco il vecchio Thai che avevo conosciuto la notte precedente; stava parlando con un cliente. Quando si liberò, gli restituii la cartellina.
– Vorrei sapere… ecco, vorrei sapere qual è la stanza dove fu commesso l’omicidio di cui mi ha parlato.
– La stanza dei soldati era la 406 del quarto piano.
Lo guardai stupito. Io occupavo proprio la 406. Era la stanza che mi era stata data dopo aver lasciato quella al secondo piano perché troppo rumorosa.
– Ah! – esclamai senza tradire il mio stupore e il mio disappunto.
Il Thai sorrise e aggiunse:
– Ma lei non crede ai fantasmi, quindi…
Salii in camera. Lessi la posta elettronica, ma non c’era nulla di importante. Spensi il computer.
Passavano le ore e non riuscivo a prendere sonno. Il condizionatore d’aria faceva troppo rumore, ma se lo spegnevo il caldo diventava soffocante. Quanto migliore era il vecchio ventilatore a pale dell’hotel Continental di Saigon, pensai con un sospiro. Ma in realtà ciò che mi teneva sveglio era l’idea di essere ora nell’esatto luogo dove erano state assassinate le due ragazze. Non potevo distogliere da questo i miei pensieri.
Alla fine decisi di scendere in strada e fare due passi. Erano le tre di notte. Nana plaza era ancora affollatissima, e davanti all’hotel c’era la consueta fila di freelancers in svogliata attesa di improbabili clienti. Molte erano le ragazze e pochi i farang in cerca di compagnia. La maggior parte di loro preferiva gli spettacoli a luci rosse nei bar a go go di Nana plaza o di Soi Cowboy.
Terminata la mia passeggiata notturna, mi accinsi a tornare in albergo. Quasi sulla soglia fui fermato da una giovane donna che, in uno stentato inglese, mi chiese “pai nai?” “dove stai andando”? e concluse: “I come with you”. Declinai cortesemente l’offerta e mi avviai verso l’ascensore. La ragazza era scomparsa. Ma salito al quarto piano, la vidi davanti alla porta della mia camera. Come avesse fatto ad arrivarci non lo capivo, forse aveva letto il numero sulla chiave che avevo in mano e mi aveva rapidamente preceduto con l’ascensore di servizio.
La guardai con una certa sorpresa, feci un cortese cenno di congedo e aprii. La ragazza si infilò invece nella camera. Non sapevo come comportarmi. Fu lei la prima a togliermi dall’imbarazzo. Le dissi di parlare lentamente perché non parlo bene il thai. Capii che mi pregava di non mandarla via. Mi disse che non aveva avuto clienti, aveva bisogno di soldi. Aveva fame. Veniva da un villaggio della campagna. Di giorno guadagnava qualcosa scaricando i camion che portano la frutta al talaad, il mercato.
Mi disse di chiamarsi Pon, o almeno così compresi, parlava in maniera convulsa e questo non mi aiutava certamente a capirla. Mi chiese se poteva usare la doccia. Le indicai dove era l’asciugamano. Si attardò a lungo, chissà quando aveva potuto godere di una vera doccia. Poi alla fine uscì. Nuda.
C’era qualcosa che mi turbava in quel corpo, ma non era la nudità in sé, era un corpo stranamente pallido pur essendo le Thai piuttosto scure di carnagione; il ventre leggermente rigonfio, sembrava incinta.
Le chiesi, indicandolo: “Thong mai?”, cioè aspetti un bambino? Lei negò con veemenza e io lasciai cadere la cosa. Si stese sul letto. In lei non c’era alcuna movenza sensuale, anzi, il corpo era irrigidito, le mani posate a coprire pudicamente i seni.
Questo mi fece pensare che non fosse una vera professionista; infatti, quando le chiesi se era la prima volta che si accompagnava a un cliente, mi disse di sì. Tremava, e ora cercava di avvolgersi nel lenzuolo come per nascondersi e proteggersi.
Restai impressionato dal timore che leggevo sul suo volto e volli rassicurarla che non mi interessava affatto fare bum bum; lei mi ringraziò stupita, e ancor più quando le diedi comunque del denaro, certamente più di quanto guadagnava in una settimana al mercato. Si strinse a me in un gesto di riconoscenza e quasi immediatamente cadde in un sonno profondo. Avrei potuto dirle di andarsene, ma mi aveva fatto una grande tenerezza. Per un po’ rimasi a guardarla, la testa reclinata sul cuscino, poi mi coricai accanto a lei. Il suo sonno era agitato. Posai la mano sul suo braccio per rassicurarla e tranquillizzarla. La pelle era fredda, forse a causa della lunga doccia e dell’aria condizionata.
Mi addormentai, non senza un certo timore. Avevo messo il portafoglio, la carta di credito e il passaporto al sicuro nella piccola cassaforte che si trova in ogni stanza di hotel in Thailandia, ma certo, di storie di farang fatti fuori per essere rapinati ne avevo già sentite.
Verso le 5 del mattino Pon si svegliò; aprii gli occhi per vedere che cosa facesse. Rovistò nella borsetta e ne trasse un accendino e un pacchetto di sigarette. Se ne accese una. Andò a fumare nel bagno. Quando uscì si mise a sedere sul letto; la rimproverai benevolmente e le dissi che il fumo fa male (ma a me dava fastidio, nella stanza non c’era neppure una vera e propria finestra che si potesse aprire). Aveva sete. Presi una bottiglia d’acqua dal frigo. Vidi una cosa che mi colpì, non riusciva a portarla alla bocca per bere, il braccio si muoveva a strappi. Ho letto che esiste in Indocina una malattia ereditaria, piuttosto diffusa, del sistema neurovegetativo che si chiama dystonia. Pensai fosse malata. Mi fece ancora più pena.
Mi disse che doveva andarsene. Non aggiunse altro. Si rivestì rapidamente e nell’atto di salutarmi mi mise nella mano una immagine di Buddha, uno di quei medaglioni che si vedono qui portati da tutti come amuleti per difendersi dagli spiriti.
Scivolò rapidamente fuori dalla stanza senza voltarsi indietro. Era appena uscita quando notai sul bianco lenzuolo del letto un anello. L’avevo visto al suo dito. Non era di valore, una pietra rossa, probabilmente sintetica, in una montatura di similoro. Mi chiesi come avesse potuto perderlo, un anello non si sfila da solo. Mi vestii rapidamente, scesi di corsa per cercarla e restituirglielo. La strada era piena di gente che usciva dai bar che stavano chiudendo. Lei era scomparsa.
Tornai in camera, mi spogliai e mi coricai. Fu allora che mi accorsi di alcune macchie di sangue sul guanciale. Come era possibile? di chi era quel sangue? Mio non di certo, era forse di Pon? Ma non avevo notato che avesse ferite o perdite di sangue quando mi ero coricato accanto a lei.
Restai lontano da Bangkok per alcuni giorni, e feci ritorno al Nana hotel. Un gruppo di turisti indiani teneva occupata la reception. Mi sedetti nella lobby aspettando il mio turno.
Sul tavolino alcune copie del Bangkok Post, vecchie di qualche giorno.
Nella pagina della cronaca di uno di essi lessi qualcosa che mi raggelò: “Un omicidio in Sukhumvit”, era il titolo dell’articolo. Un orribile crimine era stato commesso il 23 maggio precedente proprio in una camera dell’hotel Nana, e cioè poco dopo la mia partenza. Un anziano turista americano di origine giapponese, Peter Nakajima, era stato trovato sgozzato. Nessuno aveva assistito all’omicidio. La stanza in cui era avvenuto il crimine… sì… era la 406 del quarto piano. Riposi il giornale sul tavolino del bar.
Chi aveva ucciso così selvaggiamente quell’anziano turista? E perché? La polizia brancolava nel buio.
Ma io, ora, sapevo.