Domenica 19 maggio 2024, festa “ufficiale” della Pentecoste
ANEDDOTI, CAVALCATE ALATE, SCIVOLONI IN SALSA THAILANDESE
L’ANTIFASCISMO E L’“USO PUBBLICO DELLA STORIA”
di Andrea Rizzi
L’ultima settimana di aprile in Italia è da diversi lustri teatro di celebrazioni e di contrapposizioni ideologiche tra opposte parti, in quel ginepraio confuso ed enfatico misto di retorica, mitologia e verità. Nonostante i radicali mutamenti del mondo post pandemico e l’ascesa al governo di forze di centrodestra (che in più occasioni hanno ribadito il distanziamento dal Ventennio), si sviluppa in questi giorni a tutti i livelli, dalle realtà locali a quelle nazionali, quel fenomeno definito da Habermas “uso pubblico della storia”, inteso come utilizzazione del discorso storiografico ai fini di altri ordini di discorso e, nel nostro caso, quello politico-istituzionale e appunto ideologico. Discorsi ufficiali, prolusioni, incontri celebrativi ricordano i giorni della Liberazione in un fiume enfatico che molto spesso straripa e stiracchia la verità fattuale, ormai definita, dalla storiografia. Proprio questa enfasi, questo entusiasmo, deve aver ispirato la penna di Paolo Berizzi che, lo scorso 23 aprile, scriveva su la Repubblica una nota nella sua rubrica Pietre titolata “Trasvolata”[1].
Nulla di male, ci mancherebbe! La polemica di Berizzi era diretta contro la visita del senatore di FdI Roberto Menia a Bangkok e una foto, pubblicata su X, peraltro sfocata. Berizzi scriveva che “Menia, accompagnato dal responsabile FdI Thailandia Carlo Scala, ha consegnato all’ambasciatore la targa, in ricordo della trasvolata italiana di Italo Balbo, fascista della prima ora, uno dei quadrumviri della Marcia su Roma e ministro dell’Aviazione”. La notizia, così letta, risultava assolutamente curiosa e meritevole di approfondimento non risultando, almeno a noi, alcun collegamento logico tra Italo Balbo e la Thailandia, almeno in termini aviatori diretti.
Una breve ricerca ci ha reso edotti che la targa era riconoscimento del Premio Nazionale Caravella Tricolore, un premio culturale rivolto a personalità d’eccellenza che aggiungeva alla sua dimensione nazionale un Premio Caravella Tricolore nel Mondo 100°+1 Anniversario Aeronautica Militare, destinato ad Arturo Ferrarin e Francesco De Pinedo nel ricordo delle loro storiche trasvolate intercontinentali.
Non Italo Balbo ed i suoi stormi dunque, bensì Ferrarin e De Pinedo, premiati rispettivamente per i raids Roma-Tokyo del 1920 e Sesto Calende-Melbourne-Tokyo-Roma del 1925! Il vizio della polemica ad ogni costo può fare brutti scherzi anche a giornalisti di chiara fama. Vista la questione nei termini di storia aeronautica, va anzitutto ricordato che la fase pionieristico/eroica che quei due voli incarnarono, ironia della sorte, venne forzatamente superata dalle direttive del quadrumviro Balbo che, divenendo prima Sottosegretario di Stato nel 1926 e successivamente Ministro dell’Aeronautica nel 1929, promosse una più confacente massificazione del volo che celebrasse con trasvolate di gruppo il prestigio internazionale del Regno d’Italia e del regime a scapito dei singoli.
L’incontro thailandese del senatore Menia intendeva ricordare il passaggio dei due voli per la Thailandia ormai un secolo fa, ma di cui proprio tra marzo ed aprile ricorre l’annuale anniversario. In entrambe queste imprese, ma soprattutto nel Roma-Tokyo, la Thailandia, allora Regno del Siam, ebbe una sua parte e non di poco rilievo nel determinarne gli esiti. Per ragioni di spazio ci concentreremo solo sul raid del 1920, ricordando però che il volo del “Gennariello” (idro S.I.A.I. S.16 ter, quindi non velivolo terrestre) di Francesco De Pinedo ed Ernesto Campanelli ricalcò per tappe essenziali il volo Roma-Tokyo, transitando in Thailandia una prima volta tra il 19 e 24 aprile 1925 – attraccando a Phuket – e tra il 22 ed il 27 ottobre 1925, a Bangkok durante il percorso del ritorno[2].
Il raid a tappe Roma-Tokyo transitò per la Thailandia tra il 27 marzo ed il 2 aprile del 1920, date indicative, come vedremo. A volare sul Siam furono due degli undici velivoli italiani partiti da diverse parti d’Italia con l’obiettivo di raggiungere il Paese del Sol Levante. Si trattava di un’impresa tipicamente dannunziana, ciclopica, voluta dallo stesso Vate che intendeva con essa collegare il Regno d’Italia con il Giappone, patria dell’amico poeta giapponese Harukichi Inoue Shimoi, arruolatosi nel 1917 come volontario, ardito sul fronte italiano della Grande Guerra e successivamente fiumano. Il progetto del Vate era sorto nel marzo 1919 e ruotava attorno ai piloti della “Serenissima” che avrebbero dovuto volare in pattuglia ed in venti giorni raggiungere l’ambita meta. Con ciò si doveva dimostrare l’importanza dell’aviazione civile come mezzo di trasporto postale e successivamente di merci e persone. In sostanza, accanto all’usuale retorica di ogni ideazione dannunziana, vi era una più concreta volontà commerciale di entrare nei mercati aviatori orientali e particolarmente in quello cinese e giapponese prima che gli alleati francesi ed inglesi conquistassero definitivamente quei mercati. Il Regno d’Italia aveva da poco accolto 40 piloti e 100 meccanici giapponesi a Malpensa, dato che all’epoca il Giappone poteva disporre di un’industria aeronautica piuttosto arretrata rispetto a quella italiana ed occidentale. Va anche ricordato peraltro che il Regno non era estraneo al mondo orientale, vantando all’epoca il possesso della minuscola concessione di Tientsin in Cina, ottenuta nel 1901 a seguito della partecipazione italiana alla repressione della rivolta dei Boxer. È giusto aggiungere che diverse fonti attestano come vi fosse una chiara volontà del governo italiano, retto da giugno 1919 da Francesco Saverio Nitti, di utilizzare l’impresa aviatoria Roma-Tokyo per distrarre D’Annunzio ed allontanarlo dal Paese colmandolo di onori in un momento piuttosto delicato in cui non si era ancora definita la questione dei confini orientali.
I documentati archivi della Marina Militare italiana che fu coinvolta nella farraginosa fase logistica della spedizione, attestano invece che la Direzione Generale Aeronautica annetteva importanza commerciale strategica all’impresa, in particolar modo nei riguardi della Cina e del resto difficilmente sarebbe possibile spiegare la motivazione politica dopo la rinuncia di D’Annunzio all’impresa. In senso commerciale andava vista anche la scelta di quattro diversi tipi di aereo divisi tra Caproni e S.V.A., utili a dare ampia visibilità alla varietà produttiva dell’industria nazionale, ma tutt’altro che pratici per la distanza e le difficoltà del tragitto. Per quanto di recente progettazione, si trattava di velivoli ad uso militare, scarsamente sicuri e con motori che non permettevano percorrenze oltre le 8-9 ore di volo. Tutta l’organizzazione dell’impresa fu costosissima. Trattandosi di un volo a tappe su un percorso stabilito in zone molto spesso impervie, senza piste di atterraggio e materiali di ricambio, la Direzione Generale Aeronautica a partire dall’estate 1919 iniziò ad inviare per nave uomini e materiali disseminandoli lungo il tragitto e mantenendoli in quei Paesi per diversi mesi. Al Regno del Siam vennero assegnate 5 tonnellate di materiali di cui 2 di benzina e cinque militari di cui un ufficiale e quattro di truppa che, partiti da La Spezia con il piroscafo “Nippon” il 29 agosto, erano giunti a Singapore a fine ottobre 1919.
La scelta degli equipaggi fu altrettanto caotica ed a fronte dell’enorme preparazione di uomini e materiali non fu assegnato un adeguato servizio stampa all’impresa (la questione è dibattuta), lasciando ai piloti il compito di rapportare le singole tappe.
La partenza scaglionata dei velivoli venne posticipata di alcuni mesi per ragioni organizzative. Il Caproni Ca.3 pilotato da Scavini e Bonalumi fu il primo a partire l’8 gennaio 1920, ma la partenza che risultò poi vincente fu quella del 14 febbraio 1920 da Roma. In quel giorno partirono due amici veneti Arturo Ferrarin, con motorista Gino Capannini e Guido Masiero, accompagnato dal motorista Roberto Maretto. Pilotavano entrambi degli S.V.A. 9, versione aggiornata dello S.V.A. 5 del volo su Vienna dell’agosto 1918. L’aereo che il “Moro” Ferrarin doveva utilizzare era incorso in un incidente poco prima della partenza. Per riuscire a partire venne adottato lo S.V.A. 9 che il cugino Francesco aveva utilizzato nel fallito raid Padova-Parigi-Roma del marzo 1919, costato la vita al leggendario Natale Palli e che versava in condizioni precarie. Riparato alla meglio notte tempo, pendente a destra, il velivolo partì da Roma con la vernice ancora fresca. A dare la misura del misto di eroismo e follia che circondò questa pionieristica avventura va detto che i piloti non disponevano di aggiornate carte geografiche, affidandosi alla bussola ed alla loro esperienza, oltre al fatto che il “Moro” partì con un velivolo rabberciato alla meglio la notte e verniciato il giorno stesso della partenza. I due amici Ferrarin e Masiero si erano accordati di volare in pattuglia, ma diversi eventi contrastarono quei piani tra atterraggi di emergenza, incontri con indigeni armati e diversi incidenti meccanici. L’arrivo a Calcutta avvenne il 10 marzo 1920. Gli altri equipaggi nel frattempo avevano dovuto ritirarsi dall’impresa per le più diverse sciagure occorse. Il solo Ferruccio Ranza, asso dell’aviazione di guerra e compagno di Baracca, era riuscito a raggiungere l’India prima di cadere, affrontando negli scali combattimenti, prigionie ed avventure di ogni tipo. Rimanevano pertanto in gara gli equipaggi di Ferrarin e Masiero che si separarono nuovamente a Calcutta per poi ritrovarsi a Shangai il 2 maggio. Da Rangoon, in Birmania, dopo problemi al motore, il “Moro” volò verso Bangkok. Il volo tra la Birmania e la capitale siamese fu particolarmente complicato, sia per le condizioni atmosferiche che costrinsero Ferrarin a volare a ridosso della foresta data la nebbia fitta, sia per la paura di avarie che costringesse l’equipaggio ad atterrare, con la certezza di trovar la morte in foreste vergini irraggiungibili, infestate da belve e serpenti. Questa ansia del sorvolo sulla foresta tra Birmania e Siam pervade il racconto di Ferrarin che narra di odori balsamici e di un forte odore di ozono che rilasciavano le piante, procurando diversi fastidi al pilota. L’incontro con la ferrovia fu la svolta di salvezza dato che seguendone il tracciato Ferrarin e Capannini giunsero al campo scuola siamese dove furono ben accolti e festeggiati. Il soggiorno dell’equipaggio a Bangkok fu piuttosto breve, ma utile per tracciare alcune note descrittive. Il “Moro” raccontava in Voli per il mondo di aver visto “donne dalle forme bellissime, ma dai brutti volti, divotamente intente per scopo rituale a cogliere sui corpi nudi l’acqua piovana”[3], che si inginocchiavano al passaggio dello straniero e, se sposate, mostrando denti nerissimi, dipinti da una vernice speciale usata per tale scopo. Il pilota notava anche che “le donne sono tenute in vilissimo conto”. La permanenza fu occasione per attendere alla cerimonia di cremazione della regina morta l’anno precedente, vedere gli elefanti bianchi rinchiusi nei loro recinti dorati, visitare la città e svolgere una visita di rappresentanza. Bangkok raccontava di una poco numerosa comunità italiana che, conoscendo evidentemente i gusti veneti, offrì al pilota una cena di polenta ed uccelli, ma la descrizione si sofferma anche sulle architetture bianche, sul palazzo e la tomba reale “costruiti per lo più in marmo di Carrara” e da architetti italiani. Il Re del Siam accolse amabilmente il pilota veneto e Capannini nonostante il lutto e promettendo loro una decorazione militare per l’impresa. Rimaneva però la paura nel racconto del “Moro” per quell’ambiente esotico che disturbava il sonno per la paura dei serpenti: “Prima che mi coricassi, un soldato siamese, con squisito pensiero, si mise a suonare il piffero per far sortir i serpenti dalle coltri, se per caso ve ne fossero di annidati, e quando, ispezionato anche il letto, si convinse che tutto era in regola, mi aperse la porticina del reticolato e poi la richiuse accuratamente”[4].
La partenza da Bangkok avvenne il 2 aprile 1920 con arrivo in Ubon Ratchathani dopo un volo di sei ore. Si trattava di una tratta intermedia di soccorso, nel cuore delle foreste della Thailandia. L’attesa per alcune parti di ricambio indispensabili per il velivolo durò quindici giorni dato che la partenza per Hanoi in Vietnam avvenne solo il giorno 17 aprile 1920. Il “Moro” descriveva quel territorio come una regione piana “talmente ricoperta e gonfia di vegetazione esuberante che il terreno, dall’alto, sembra quasi una superficie di muschio e velluto”. Il campo di atterraggio era una radura artificialmente creata nella foresta, un luogo descritto come solitario e selvaggio dove venivano accesi dei roghi per tener lontane le belve e usando i cavalli con i loro nitriti quale mezzo di allarme per imminenti pericoli provenienti dalla foresta. Furono anche in questo caso quindici giorni non semplici per Ferrarin e Capannini, obbligati a dormire in gabbie metalliche per impedire ai serpenti di entrare nei giacigli. La descrizione della notte è abbastanza eloquente: “Non si poté chiudere occhio, perché il silenzio della foresta era rotto da sibili di serpenti, dal barrire di elefanti e dalle urla di tigri e pantere, orchestra strana e diabolica”[5].
L’altro equipaggio di Masiero e Maretto proseguiva il suo percorso transitando in Birmania e proseguendo per il Siam. Dobbiamo alla passione di Luigi Luppi la possibilità di leggere il diario di Roberto Maretto, edito per la prima volta nel 2021 dopo essere rimasto per un secolo inedito. Maretto era un meccanico di Cadoneghe che fin da giovane era entrato in Ansaldo e conosceva perfettamente il motore dello S.V.A. 9 e per tale ragione era stato scelto da Masiero, a sua volta padovano.
Il volo da Rangoon a Bangkok fu travagliato a causa delle alte temperature dell’aria e della perdita dell’olio dal motore. Masiero e Maretto furono perciò costretti ad atterrare in una risaia in un luogo imprecisato della Thailandia occidentale. Accolti da una tribù definita di selvaggi “armati di lunghi coltelli infilati fra i capelli e quasi tutti nudi”[6], Maretto descrive come in quel momento avesse creduto nella propria fine, vistosi circondato ed impossibilitato a comunicare. In realtà le apprensioni del motorista erano infondate. La visione di un oggetto misterioso come l’aereo aveva attirato una moltitudine di curiosi tra gli abitanti di quella regione che prima scoppiarono in gran risate e successivamente portarono in trionfo il minuto meccanico. Quei thailandesi incuriositi dal velivolo “si divertivano a montare su e giù dall’aeroplano e lo facevano con una così abile manovra, che sembrava avessero fatto sempre quel mestiere”[7]. Grazie ad un figlio di italiani individuato nella folla fu possibile recuperare l’olio per il motore e raggiungere Bangkok. Qui l’accoglienza da parte degli Ufficiali aviatori del Siam fu cordiale, descritta come unica tra quelle avute durante il viaggio. Torna, nel diario scritto in quei giorni da Maretto, la descrizione di una capitale del Regno del Siam che aveva subito l’influenza italiana. La narrazione di Maretto è molto semplice e composta e non è dubitabile che ciò che scrive sia vero e non frutto di racconti inventati che trascrive nelle pagine del suo diario. È forse esagerato ciò che scrive riguardo al Regno del Siam: “È assodato che nel Regno del Siam tutti gli ingegneri costruttori, pittori, scultori, musicisti e dottori sono italiani”; “il seguito del Re è italiano”; “l’Italia la stimano e la conoscono quale maestra del mondo”[8]. Nonostante le esagerazioni, il motorista ci lascia un’interessante descrizione del Siam. La capitale Bangkok veniva descritta come “poco bella, città antiquata e con stile bizzarro” in cui i migliori palazzi, ed in primis quello reale, erano stati realizzati da italiani con marmi di Carrara (confermato dalle parole di Ferrarin) e sempre di progettazione italiana erano il teatro e la direzione delle ferrovie dello Stato. La narrazione di Maretto è descrittiva e si concentra sulla presenza degli elefanti bianchi, rimane affascinato da un piccolo villaggio costruito dal Re, talmente piccolo che le persone di statura normale non possono accedervi, luogo definito, non a caso, per “cavallette”. Sono gli italiani ad accompagnarlo nella sua visita. Gli raccontano l’aneddoto che il Re del Siam, buono, semplice e bizzarro, adora mangiare le uova al tegame in una bettola in centro a Bangkok e che quando alloggia in campagna si fa accompagnare in città solo per tale vizio. Piccole cose, soprattutto voci della collettività italiana. Altrettanto semplici ma significative le parole di Maretto sull’aviazione siamese. Raccontava il motorista di aver trovato grande affetto e competenza tra i colleghi aviatori locali, ma che essi avevano imparato a volare durante la guerra in Francia e pertanto pilotavano aerei francesi, aggiungendo che “sono entusiasti del nostro aeroplano, anzi lo preferivano al loro, ma dovevano stare attaccati ai francesi, più che altro per ragioni politiche, avendo la colonia francese che confina col loro Stato”[9].
Masiero e Maretto partendo da Bangkok giunsero dopo poche ore su Ubon dove incorsero in un incidente di volo dovendo attendere 17 giorni l’arrivo dei magneti di ricambio per il velivolo. Anche Maretto, come Ferrarin, racconta la paura della notte, delle belve, dei serpenti e l’uso quotidiano dell’elefante al posto dei cavalli come mezzo di trasporto e di lavoro. Furono giorni complessi che potevano significare la resa e la fine del viaggio che fu portato invece felicemente a termine anche dal secondo equipaggio. In due tappe però Masiero e Maretto dovettero ricorrere all’uso di treno e nave, garantendo pertanto la vittoria a Ferrarin e Capannini che furono gli unici partecipanti ad aver percorso tutto l’itinerario in aereo.
Il raid Roma-Tokyo si concludeva il 31 maggio 1920 in maniera trionfale per i due piloti italiani a Tokyo dopo essere durato 105 giorni, di cui 25 di volo, con 80 giorni di sosta nelle varie città toccate. Frattanto in Giappone il “Moro” venne a tutti gli effetti divinizzato. Il rientro in Italia invece fu infelice, accolto nella più totale indifferenza dell’opinione pubblica concentrata su ben altre questioni. La stessa spesa del raid fu soggetta a commissione d’inchiesta e vi fu chi disse con malignità che in fondo se un turista fosse partito da Roma contemporaneamente a Ferrarin avrebbe potuto passare un mese in Giappone ed essere tornato a Roma il giorno dell’arrivo a Tokyo del pilota veneto[10].
In realtà erano discorsi maligni che non volevano recepire i cambiamenti inevitabili di quella rivoluzione verticale[11] che la Grande Guerra aveva accelerato ed un progresso civile e militare che avrebbe fatto dell’aereo uno dei mezzi fondamentali della modernità. Sul significato di quello che fu il volo per il Giappone e l’Oriente, sull’entusiasmo che scatenò, lasciamo a Ferrarin la chiusura[12]:
Non dite che sono un Dio, miei piccoli e buoni uomini gialli, non mandatemi incontro il vostro infinito stuolo di bambini ridenti, a cantarmi i vostri banzai! Perché io non posso, come Cristo, alzare le mani e benedire questo stuolo d’uomini miei fratelli, perché io sono un uomo come loro. Non aprite le porte dei vostri Templi, dove l’aria è piena di mistero, perché il mistero io l’ho appena sfiorato, ed esso mi opprime, mi uccide come voi. I miei fratelli bianchi sono tutti buoni e grandi come me. Laggiù, lontano, di dove giungo con queste piccole ali, tanti sono i miei compagni, e molti più eravamo… Sono morti. Ma verranno in molti un giorno. Una nube che oscurerà il sole con piccole ali tricolori.
Una generazione di uomini che per il progresso dell’umanità e per l’Italia ha sacrificato giovinezza e vita[13]. Certo giornalismo distratto e malevolo dovrebbe riflettere.
[1] P. Berizzi, Trasvolata, “la Repubblica”, 23 aprile 2024, p. 25.
[2] F. De Pinedo, Un volo di 55.000 chilometri, Mondadori, Milano, 1926.
[3] A. Ferrarin, Voli per il mondo, Mondadori, Milano, 1929, p. 54. Qualcuno rileverà giustamente che Arturo Ferrarin scrisse una sorta di instant book già nel 1921, Il mio volo Roma-Tokyo (ora anche in ristampa Idrovolante Edizioni). Si legge però che le note di viaggio scritte tra una tappa e l’altra relative al Siam furono perdute durante il rientro per nave in Italia. Per tale ragione è necessario affidarsi alla narrazione successiva. Una biografia di Ferrarin è quella di V. Ferrarin, Arturo Ferrarin. “Il Moro”, Edizioni Egida, Vicenza, 1994.
[4] Idem, p. 55.
[5] Idem, p. 57.
[6] R. Maretto, Il mio volo Roma-Tokyo, IBN Editore, Roma, 2021, p. 47.
[7] Idem, p. 48.
[8] Idem, p. 49.
[9] Idem, pp. 49-50.
[10] R. Gentilli, 1919-1922. Gli anni perduti dell’aviazione italiana, IBN Editore, Roma, 2020, p. 109. Gentilli, in questo dettagliatissimo lavoro lacunoso di fonti, tratta del volo tra pagina 98 e 109.
[11] F. Minniti, La rivoluzione verticale, Donzelli Editore, Roma, 2018 e, indubbiamente utile, E. Lehmann, Le ali del potere. La propaganda aeronautica nell’Italia fascista, Utet, Torino, 2010, pp. 5-38.
[12] A. Ferrarin, Il mio volo Roma-Tokyo, Idrovolante Edizioni, 2019, p. 163.
[13] Arturo Ferrarin perì collaudando un velivolo a Guidonia nel luglio 1941. Guido Masiero perì collaudando un velivolo a Cinisello Balsamo nel marzo 1942. Gino Capannini venne abbattuto assieme a Italo Balbo sopra Tobruk nel giugno 1940. Roberto Maretto morì di malattia contratta in servizio a Padova nel febbraio 1942.