Minima Cardiniana 468/6

Domenica 19 maggio 2024, festa “ufficiale” della Pentecoste

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Clotilde Bertoni, Nel nome di Dreyfus. Storia pubblica di un caso di coscienza, Bologna, il Mulino, 2024, pp. 656, euri 34,00
UN’INTERVISTA ALL’AUTRICE CLOTILDE BERTONI
di Gabriele Parenti
L’Affaire Dreyfus, il più celebre caso giudiziario, ebbe risvolti politici e determinò un cambio d’epoca proiettando la Francia nel XX secolo. È, inoltre, considerato emblema del modo in cui i pregiudizi sociali, amplificati da una violenta campagna di stampa, abbiano potuto condizionare la vicenda costruendo un “colpevole ideale”.
Peraltro, anche la ricerca della verità fu resa possibile dalla pressione dell’opinione pubblica: le prove a discarico sarebbero state ben presto archiviate e Dreyfus sarebbe morto in carcere se non fossero state sostenute da eventi mediatici, come il J’accuse di Zola.
Iniziato nel 1894 in modo rocambolesco con il ritrovamento di un documento segreto in un cestino della casta straccia, L’Affaire appassionò il mondo intero, a seguito dell’ingiusta condanna del capitano ebreo Alfred Dreyfus per alto tradimento e della ricerca della verità che portò alla sua completa riabilitazione.
La vicenda e i suoi risvolti sono oggetto di un recente volume Nel nome di Dreyfus. Storia pubblica di un caso di coscienza (il Mulino, 2024) di Clotilde Bertoni, docente di Letteratura italiana e Teoria della letteratura nell’Università di Palermo.
Questo saggio offre un’ampia e dettagliata panoramica sulla vicenda dai mille volti, dove si uniscono antisemitismo, spirito di casta dell’esercito, il ruolo dei giornali, la progressiva presa di coscienza di larga parte dell’opinione pubblica, la revisione e il nuovo, incredibile processo di Rennes. E inoltre, la personalità di Dreyfus, dei suoi accusatori, di coloro che presero le sue difese, con molti altri temi che s’intersecano. Come emerge da questa intervista che ho realizzato con l’autrice.

Fu un errore giudiziario o consapevole ricerca di un capro espiatorio?
La condanna di Dreyfus è più che un errore: come viene constatato presto, è un vero e proprio crimine giudiziario. Dreyfus è incriminato e arrestato in base a un solo, labile indizio (la somiglianza tra la sua grafia e quella di una lettera – il cosiddetto bordereau – che attesta un’azione di spionaggio); il ministro della Guerra in carica lo dichiara colpevole pubblicamente, mentre l’istruttoria è ancora in corso; dopo un processo a porte chiuse, un Consiglio di Guerra di sette membri lo condanna all’unanimità unicamente in virtù, oltre che dell’indizio di cui sopra, di testimonianze senza basi, e di altri documenti che però non hanno niente di probante (e oltretutto gli sono stati sottoposti illegalmente, all’insaputa della difesa).
Non parlerei poi di consapevole ricerca di un capro espiatorio. Dreyfus viene spesso ritenuto capro espiatorio del fanatismo antisemita, ma è così solo in parte: l’antisemitismo non è il centro motore degli eventi, sebbene vi giochi un ruolo importante. Lo Stato Maggiore viene definito “un focolaio di antisemitismo”, ma è presumibilmente un’esagerazione, non suffragata da dati oggettivi: qualcuno degli ufficiali coinvolti nutre preconcetti sugli ebrei, ma per lo più è difficile stabilire a che livello; e, a quanto risulta, quelli che occupano i ruoli chiave non hanno di questi pregiudizi. Probabilmente al principio credono davvero Dreyfus colpevole, e agiscono in fretta, smaniosi di colpire la collettività, e suggestionandosi a vicenda, in un esempio, più che di banalità, di stupidità del male; quindi sostengono la condanna per tutelare la propria fama di infallibilità; e per la stessa ragione, quasi tutto l’esercito li appoggia fino alla fine, con compatto spirito di corpo e con ostinazione oltre ogni evidenza.

Lei ha scritto che in senso lato, l’Affaire è anche una storia d’amore. Perché?
Come ho provato ad argomentare nel libro, l’Affaire è una storia d’amore a più facce: è una storia di amore fraterno, perché il vincolo di sangue sentito con l’anima da Mathieu Dreyfus – “il fratello indistruttibile”, inizialmente unico a non rassegnarsi – si dilata via via tra i combattenti (Zola lo nota presto) in un senso di fraternità ideale, provvisorio ma indimenticabile; è una storia di amore generoso, di solidarietà, di sodalizi, di abnegazione; è una storia di amore per l’umanità e per la giustizia, vissuto nel fondo della carne.
Lo provano tanti esempi. Innanzitutto, l’ardore con cui il Mathieu appena citato e Lucie, la moglie del condannato, combattono per lui incessantemente (Mathieu rinunciando per anni a tutta la sua vita). Oppure, il coraggio dello scrittore ebreo Bernard Lazare, il primo intellettuale sceso in campo, che cerca di sensibilizzare gli interlocutori più vari, sbattendo contro muri di scetticismo e noncuranza, con quella che un articolo uscito in occasione della sua scomparsa prematura definirà “meravigliosa testardaggine”.

Un’ondata di solidarietà che cresce progressivamente…
Da citare, ovviamente il processo Zola: lo scrittore anziano, fragile, ma fermamente coraggioso, che entra e esce dall’aula subissato da contumelie e assalti degli antisemiti, ma circondato da amici che gli fanno scudo con il loro corpo; lo scienziato Édouard Grimaux, che testimonia caldamente in favore suo e di Dreyfus (senza conoscerli affatto), mentre già sa che il ministro della Guerra (da cui dipende la Scuola Politecnica dove lui insegna) lo punirà facendolo destituire, sottraendogli la cattedra e il laboratorio sua ragione di vita; il socialista Jean Jaurès che, testimone a sua volta, trasforma la propria deposizione in un comizio talmente trascinante da disarmare per un istante persino il severissimo presidente della Corte (e che sarà poi tra le anime principali della battaglia, perché capace come nessuno di intrecciare strategia politica e appassionata umanità).
Lo scrittore Octave Mirbeau, penna al vetriolo e dolce cuore, che mentre Zola è forzatamente lontano dalla Francia, si occupa delle sue vertenze giudiziarie e delle spese a esse legate, prontissimo a rimetterci di tasca; i dreyfusardi che si stringono le mani esultanti nell’udienza di Cassazione che dispone una nuova inchiesta; Séverine, giornalista di punta della “Fronde” (giornale dalla redazione interamente femminile, in prima linea nella lotta), che, dopo aver affrontato un’operazione rischiosa confortata dall’affetto delle colleghe, si informa sui nuovi passaggi del caso appena uscita dall’anestesia e riprende a scriverne ancor prima di iniziare la convalescenza; il senatore Auguste Scheurer-Kestner, altro pioniere della battaglia, che, definitivamente relegato fuori scena da una malattia irreversibile, chiede notizie degli sviluppi letteralmente fino all’ultimo respiro.
E l’atteggiamento (valorizzato appieno solo da studi recenti) dello stesso Dreyfus: che, tornato dall’Île du Diable fisicamente distrutto ma prontissimo alla lotta, fronteggia nel processo di Rennes le calunnie che, secondo le sue parole, tornano a “strappargli il cuore e l’anima”; e che, anche dopo la grazia, seguita a combattere per la riabilitazione totale, rinunciando per amore della giustizia pure all’amor proprio, seguitando a dimostrare intensa gratitudine anche agli alleati che, come il colonnello Georges Picquart, arrivano a trattarlo con freddezza e quasi con disprezzo.

L’Affaire cambiò la storia della Francia… forse anche quella dell’Europa?
Come chiarisco nel libro, la storia segna sicuramente una svolta: Léon Blum, allora giovane dreyfusardo, esagererà parecchio nel dire che, passato “il ciclone”, la Francia si ritrova identica a com’era. Di conseguenze rilevanti ce ne sono: il fronte radicale e quello socialista (che contribuiscono alla lotta dreyfusarda, anche se in tempi diversi e fra divisioni varie) ne escono rafforzati; a causa delle sue responsabilità nella vicenda (innegabili, ma a volte troppo enfatizzate), la Chiesa cattolica è bersagliata di attacchi, di cui si avvantaggiano le leggi che a inizio Novecento ridurranno massicciamente il suo peso in ambito francese; molti intellettuali cercano di incanalare il senso dell’impegno maturato in nuove iniziative (ad esempio le Università popolari). I mutamenti, però, sono ben meno drastici di quelli auspicati al momento.

In che senso?
Malgrado alcune riforme che ne limitano un po’ gli arbitri, l’esercito, vero principale colpevole, non vede intaccato il suo prestigio; gli intellettuali non riescono a raggiungere un ruolo stabile, e abbastanza autonomo dalla politica; le speranze di radicale metamorfosi finiscono frustrate, la pur già contestatissima società borghese e liberale resiste alla scossa.
D’altra parte, se nell’immediato non arriva a incidere abbastanza sul corso della grande storia, l’Affaire diventa subito e per sempre un riferimento ideale indimenticabile: seppure sbiadito nella memoria, non smette mai di costituire un incitamento e un modello per le battaglie contro i regimi totalitari e per quelle contro le trame dei regimi democratici, per tutte le sfide al potere, per tutte le denunce scomode.

C’erano tutti gli ingredienti da feuilleton. Ma perché ha parlato di vicenda mediatica “fino alla stravaganza”?
L’Affaire è tal tempo stesso una tragedia e uno spettacolo: probabilmente è la cifra di ogni scandalo moderno ma in questo caso spinta a livelli estremi.
Da un lato, è una storia di lacrime e sangue, vero e proprio calvario per Dreyfus, dolore terribile per i suoi familiari; è costellato di tragedie satelliti, di altri dolori, di lutti, delitti, scontri; è combattuto non solo a suon di processi, scontri parlamentari, articoli e libri, ma pure di duelli, pugni e schiaffi; promuove divisioni feroci e alleanze ardenti, forma molte coscienze giovani, scuote molte coscienze già formate.
Ma d’altro lato, è una fonte inesauribile di conversazioni, pettegolezzi, intrattenimento, curiosità morbosa: se per parecchie vite è una sterzata sconvolgente, per parecchie altre non è che un irresistibile diversivo, un gradevole condimento della quotidianità; è disseminato, oltre che di tragedie, di banchetti e mondanità; se molti personaggi diventano famosi in sua virtù, altri cercano di sfruttarlo per ricavarne fama o status.
Le stravaganze che lo punteggiano sono innumerevoli. Intanto, ci sono le stravaganze effettive, dall’unica prova trovata (almeno probabilmente) in un cestino dell’Ambasciata tedesca, alla condanna spropositata, alle morti misteriose. Poi ci sono le millanterie dell’esercito e dei colpevolisti: la storia della dama velata che avrebbe soccorso Esterhazy, parlandogli di un complotto a suo danno (è identificata con i personaggi più vari, si crede pure che fosse Du Paty de Clam travestito; ma molto semplicemente non è esistita mai); quella di un autentico bordereau sparito subito, a cui si sarebbe interessato personalmente Guglielmo II, apponendovi annotazioni di suo pugno; le varie leggende imbastite sulla morte del colonnello Henry, autore (forse su mandato) di una prova a carico creduta cruciale e poi riconosciuta falsa, che gli antidreyfusardi trasformano in eroe e martire.
E ancora ci sono gli aspetti tipici di quella che è già a tutti gli effetti “una società dello spettacolo”, caratterizzata dagli aspetti che i social e i reality show dei giorni nostri non hanno affatto creato ma solo ingigantito.

Qualche esempio tra i più curiosi?
Il business fiorito sugli eventi, che va dai cappelli con il ritratto di Dreyfus ricamato sulla fodera, ai posacenere che sfoggiano citazioni del J’Accuse, a una versione del gioco dell’oca incentrata sull’accaduto; il processo di Rennes in cui gli spettatori si litigano i posti, sui biglietti si fa disinvolto bagarinaggio, da ogni parte del mondo accorrono reporter di grido (alcuni dei quali non sanno una parola di francese), i prezzi degli alberghi salgono alle stelle, l’allora notissimo attore André Antoine, sentendo Dreyfus replicare al generale Mercier suo accusatore, sbuffa che lui avrebbe saputo gridare quelle parole con un tono assai più commovente.