Minima Cardiniana 469/5

Domenica 26 maggio 2024, Santissima Trinità

L’INFINITO 25 APRILE
LETTERA APERTA ALLA PROF.SSA MICHELA PONZANI
di Bruno Bosi
Ho seguito e apprezzato il suo modo di condurre Rai-Storia, ritenendo che lei, giovane e dotata di eccellenti capacità, fosse un esempio di come uscire da schemi vecchi, inconcludenti e ripetitivi che hanno portato alla paralisi e alla negazione della democrazia. La presentazione del suo libro, Processo alla resistenza, su YouTube, mi sembra che si presti ad essere strumentalizzata, oppure lo ha fatto per sua scelta: anche gli storici possono fare politica, ma le due cose non vanno confuse. Il messaggio che ne esce è di legittimazione di una parte politica alla quale dovrebbe seguire una delegittimazione della controparte, un messaggio divisivo che produce conflittualità mentre la democrazia è un metodo che deve produrre condivisione. Ormai le due parti sono entrambe così delegittimate che devono scannarsi su fascismo e antifascismo mentre sui problemi reali e attuali concordano sulla necessità di prendere ordini dalla NATO o dagli USA e il loro ruolo è di farli digerire ai cittadini.
Mio padre, classe 1927, nell’inverno 43/44 era stato prelevato da una pattuglia di soldati tedeschi come presunto renitente alla leva, poi rilasciato, quando mio nonno riuscì a dimostrarne l’età. Il gesto non gli era piaciuto e decise di aderire alla vicina Repubblica partigiana di Montefiorino (MO). Sono sempre stato molto fiero di questa scelta di mio padre e anche invidioso in quanto lui, un ragazzo di 16 anni, stava facendo la storia, mentre oggi non contiamo più niente nemmeno da adulti. Non ho mai sentito da mio padre parole di odio o di disprezzo nei confronti di chi combatteva dall’altra parte. Ho sentito invece disappunto per i cosiddetti partigiani dell’ultima ora, e complessivamente un sentimento di delusione: visto come sono andate le cose nel dopoguerra, ne valeva la pena? Mio padre, finita la guerra, proclamata la repubblica e promulgata la Costituzione, andò a lavorare in Belgio nelle miniere di carbone.
“Resistenza” mi sembra un termine riduttivo per indicare un fenomeno, prevalentemente portato avanti dai giovani che volevano un cambiamento radicale, volevano voltare pagina. Era più adatto il termine “Rivoluzione” per indicare quella scelta, ma venne accuratamente accantonato in quanto temuto dal ceto dirigente che era passato dalla monarchia alla dittatura e mirava a superare indenne il periodo di dittatura, qualsiasi fosse la futura forma istituzionale, monarchica o repubblicana. Tra i partigiani c’era una forte presenza di ex perseguitati dal fascismo come appartenenti a partiti di sinistra, e questo non piaceva agli americani, che in seguito alla spartizione decisa a Yalta potevano impedire una svolta rivoluzionaria. Per il popolo, e soprattutto per i giovani, la speranza di un futuro migliore veniva identificata con l’arrivo degli americani, mentre diventava inaccettabile l’imposizione tedesca di Mussolini. Da qui nasce la svolta rivoluzionaria dei partigiani, che però erano ufficialmente rappresentati dai vecchi partiti ormai sotto il controllo degli americani: nessuno di questi era favorevole a uno sbocco rivoluzionario dagli esiti imprevedibili. Gli americani che avevano occupato militarmente una parte del paese non si fidavano dello stato, della monarchia e dell’esercito italiani, ma non risulta che ci siano stati movimenti a sostegno del decaduto regime fascista. Dove dominavano i tedeschi, anche questi non si fidavano degli italiani e non fornivano loro armi pesanti, ma pretendevano da questi il mantenimento dell’ordine pubblico, che significava stroncare l’insorgere di bande di ribelli. Questo consentiva a Graziani di emanare disposizioni che prevedevano la fucilazione immediata per i renitenti alla leva, determinando l’affluenza di tanti giovani nell’esercito della Repubblica Sociale di Salò, non necessariamente di provata fede fascista. Stando alla stima di Giorgio Bocca, i partigiani erano da 50 a 60mila; pochi, ma questo torna a loro onore. Era più difficile scegliere di fare il partigiano che arruolarsi nella Repubblica Sociale, il rapporto era di uno a dieci. Poi la guerra era ormai tra tedeschi e americani, e alle esigenze della guerra erano sacrificati i principi umanitari. Come in tutte le guerre, la violenza e le atrocità diventano la regola. Inutile continuare ad elencarle, stupirsi o biasimarle. Se viene fatto è solo come atto di arroganza da parte dei vincitori. Sono giudizi che provengono da chi non ha partecipato alla guerra ma ha imposto ad altri di partecipare. Lei parla di Psicanalisi del guerriero di Claude Barrois dove sostiene che la guerra è la legittimazione a uccidere bilanciata dalla possibilità di essere uccisi. A quel punto, se non vogliamo cadere nell’ipocrisia, tutto è concesso sul teatro delle operazioni di guerra. Ormai ci eravamo abituati a spedizioni punitive fatte passare per guerre contro paesi non in grado di reagire: queste non erano guerre, ma atti di terrorismo. Se la guerra viene fatta con paesi che hanno modo di opporsi, le atrocità diventano la regola e chi le deve vivere non può più esprimere il suo disappunto. Lo può fare prima che inizi la guerra, e in paesi dove ufficialmente vige un sistema democratico può avvenire in modo pacifico.
Nel 1943 quasi tutti erano stati fascisti, più o meno convinti, più o meno compromessi: non ho mai sentito esprimere particolari forme di odio nei confronti dei repubblichini da parte di ex partigiani. Non è da escludere che anche da parte degli ex fascisti ci fosse l’intento di costruire una società completamente rinnovata. Anche i partigiani, dove riuscivano a prevalere, si organizzavano in piccole repubbliche. Qualcosa in comune lo avevano. Erano le forze conservatrici che dominavano la politica, la società e l’economia ad avere paura del cambiamento e della parola “rivoluzione”. Se c’era un paese inteso come sistema istituzionale da mettere sotto tutela, questo era l’Italia, che si era cacciata in modo “maramaldesco” in due guerre mondiali dalle quali poteva e doveva restare fuori, con ripensamenti e cambi di fronte durante il corso della guerra. La continuità di una classe politica indecente, che aveva solo aspetti negativi, a partire dalla responsabilità per l’avvento della dittatura, la si fa apparire come volontà politica della resistenza di assicurare una continuità dello stato che non era assolutamente tra le finalità che avevano indotto i giovani a ribellarsi. In un sistema democratico il numero diventa importante: si inizia a gonfiarlo contando i partigiani dell’ultima ora e nello stesso tempo a destrutturare la carica rivoluzionaria relegandola alla funzione di contrasto al fascismo per sempre, mentre era un risultato già ottenuto. La nostra classe dirigente, non avendo le capacità, il coraggio e la volontà di affrontare i problemi reali, tende a perpetuare ancora oggi lo scontro col fascismo: dichiarandosi “antifascisti” costringono chi è critico nei confronti di questa democrazia a immedesimarsi nel fascismo. Non è un problema solo italiano: tutti i mali vengono imputati al nazismo e a Hitler; Putin è il nuovo Hitler, si dice, e queste assurde affermazioni, più che screditare Putin agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, portano a rivalutare Hitler. In fondo, ciò che non funziona e rischia di condurci in una nuova guerra mondiale è la smisurata bramosia di potere di chi vuole essere il dominatore di tutto il pianeta con un governo unipolare della globalizzazione. Questa pretesa, espressa dall’Occidente democratico, è più estremizzata e pericolosa oggi di quanto non lo fosse nei regimi totalitari che avevano portato alla guerra mondiale. Ma come allora è una pretesa politicamente assurda che può solo portare a una guerra altrettanto assurda e destinata al fallimento. Oggi viviamo un’epoca di declino che corrisponde al tramonto del dominio occidentale sul resto del mondo, che si protrae da cinque secoli. La possibilità di tornare a perseguire un futuro migliore all’interno di un sistema di pacifiche relazioni globali è più in linea con la proposta di un governo multipolare della globalizzazione avanzata dai BRICS. Noi europei abbiamo la dimensione e le capacità di portare il nostro contributo a una strutturazione della globalizzazione che rispetti le particolarità locali. Questo percorso è ostacolato dall’atlantismo, ovvero dalla servile sudditanza dell’UE agli interessi della potenza militarmente egemone che, oltre a farci pagare i costi, ci riserva il ruolo di campo di battaglia nel confronto con le nuove forze emergenti. Di nuovo siamo trascinati in una guerra che, se ancora non viviamo, è solo per la prudenza dell’avversario; nessuna possibilità, in questo senso, è stata data ai popoli europei di esprimersi. Siamo sommersi da una propaganda che fa apparire come unanime la più opinabile delle soluzioni, la volontà di andare alla guerra. Un’assurdità resa possibile dallo stato di conflittualità paralizzante di qualsiasi significativa azione politica dovuta a divisioni che non hanno più ragione di esistere e tendono a trasferirsi sui problemi attuali: fascismo e antifascismo, comunismo ed anticomunismo, sì-vax e no-vax, pro Russia e pro Ucraina. Il mondo è messo in pericolo dai paesi occidentali in teoria democratici. Se ancora lo sono, è possibile una svolta di portata rivoluzionaria con sistemi pacifici, ma più aspettiamo e più diventa probabile il coinvolgimento anche accidentale in una guerra nell’interesse solo della finanza predatoria, poche migliaia di ultraricchi che, col seguito di lacchè, arriva ad un 1% della popolazione mondiale. Questi dominano il restante 99% solo in base alla regola del divide et impera. Quindi basta con questa retorica divisiva: il fascismo non è il problema attuale, nel 99% dei dominati ci sono anche i consciamente o inconsciamente neofascisti, ma cerchiamo di toglierci di dosso il dominio di questo 1%, poi semmai torneremo a litigare tra comuni mortali. Ogni 25 aprile si producono un’enormità di scritti volti a osannare la Resistenza, nel tentativo di legittimare una classe dirigente che calpesta i principi esposti nella Costituzione, nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e nei trattati istitutivi dell’UE. Ora questi dirigenti, con estrema disinvoltura, ci stanno catapultando in un’“economia di guerra”, che significa contravvenire alle regole della democrazia con atti di precettazione e razionamento. Chissà se questi provvedimenti sono espressione della sovranità del popolo, o, piuttosto, di un regime autocratico. Il dubbio mi sembra lecito, ma non è ammesso. Alle prossime elezioni non ci sarà la possibilità di esprimere il dissenso e un ricambio dei vertici. La metà degli aventi diritto non andrà a votare perché non si riconosce nelle istituzioni che hanno ridotto la democrazia a una mera formalità.