Minima Cardiniana 470/8

Domenica 2 giugno 2024
Ricorrenza convenzionale (non liturgica) del Corpus Domini
LXXVIII anniversario della proclamazione della Repubblica italiana

LIBRI LIBRI LIBRI
FEDERICO RAMPINI, Il nuovo impero arabo, Milano, Solferino-Il Corriere della Sera, 2024, pp. 268, euri 16.
Confessiamo il nostro debole per Federico Rampini: un giornalista intelligente, di talento, colto nonostante qualche scivolata, che ci sta simpatico non tanto per le sue abituali posizioni – che ci trovano praticamente sempre schierati dal lato opposto – quanto per la chiarezza e la tempestività. E naturalmente per le bellissime bretelle, che pur non sono un indumento da noi privilegiato.
Rampini, intanto, non è affatto filoamericano. È proprio americano, per quanto abbia conservato la doppia cittadinanza. Da lui non ci aspettiamo alcuna obiettività, ma non ci delude sulle questioni che affronta, il nucleo delle novità che gli si presentano dinanzi. Ha scritto difatti libri agili, informati e utilissimi – anche se non o non del tutto condivisibili – sulla Cina e sull’Africa, sempre caratterizzati da una certa simpatìa sui generis anche per cose e persone che evidentemente considera contrarie alla sua linea: il che è in genere buon segno, per quanto nemmeno lui sia esente dal difetto basilare di tutti gli “occidentalisti”: cioè il considerare sempre e comunque l’Occidente dalla parte del senso della storia e della ragione.
Da lui era ovvio considerare con positivi accenti l’Arabia Saudita, per quanto il suo giudizio che essa abbia “rotto con il passato” e “dismesso al cultura dell’invidia” appaia – detto da lui – frutto più di volontà di confondere le acque che non di fraintendimento. L’Arabia dei Beni Saudi ha saputo molto presto – con l’aiuto prima britannico, quindi statunitense – mantenere il suo ruolo di “custode dei Luoghi Santi” del Profeta e al tempo stesso il suo carattere di rappresentante di quella sorta di movimento “mormone” del mondo islamico che è il wahhabismo, di abilissima gestrice dell’immensa ricchezza petrolifera che l’ha fino dagli Anni Venti del secolo scorso posta in una speciale condizione rispetto al resto del mondo arabo, di quello musulmano e del mondo e di portabandiera di un suo specialissimo “tradizionalismo” aperto nelle sue élites al nuovo, alla corsa all’egemonia finanziaria e tecnologica, agli investimenti lungimiranti. Niente di strano che simpatizzi con Muhammad bin Salman (e con Matteo Renzi): né gli rimprovereremo il fatto che ciò implichi la consapevolezza che i suoi beniamini siano tra i principali affossatori delle prospettive d’indipendenza della Palestina, soffocata dalla “pace di Abramo” (un progetto che sopravviverà al tristo Netanyahu).
A Rampini perdoniamo anche le gaffes che di quando in quando commette sul piano propriamente storico: come quando, lui occidentale e occidentalista, elogia il mondo musulmano che in passato era “avanti” rispetto al nostro, e celebrava con Omar Khayyam la libertà del vino e dell’amore mentre in Occidente c’erano l’inquisizione e la caccia alle streghe: il che non è vero intanto perché l’Islam ci ha insegnato ben altro (dalla matematica alla medicina all’astronomia alle istituzioni universitarie) che non Omar Khayyam, rispetto al quale noi avevamo già l’amor cortese, il romanzo arturiano e la poesia goliardica mentre la caccia alle streghe non è tanto roba del buio medioevo quanto del luminoso Rinascimento.
Dove semmai il brillante, simpatico Rampini proprio ci delude è nelle pagine che riguardano l’Iran: primo, in quanto portano forse involontariamente acqua al mulino dell’equivoco (l’Iran non ha per nulla a che fare con il mondo arabo, a parte qualche infima minoranza); secondo, in quanto l’elogio del “moderno” shah Mohammed Reza Pahlavi – servo degli americani e massacratore dei suoi sudditi – è del tutto fuori luogo al pari della condanna senza remissione dell’attuale regime, tantopiù che il consenso elettorale del quale esso gode viene denunziato come fermo a poco più del 40% dei votanti senza tener conto del fatto che in Europa e negli USA l’astensionismo è addirittura più alto; quanto alle speranze nel giovane, brillante Azizi, se son rose fioriranno, ma attenzione perché le rose hanno anche le spine.

FRANÇOIS PÉTIS DE LA CROIX, La vera storia di Turandot, Milano, Luni, 2020, pp. 94, euri 13.
Non dà per il momento purtroppo granché a sperare, il centenario pucciniano del 2024: la natìa Lucca sonnecchia come le è proprio, da Massaciuccoli poco di nuovo, il Ministero appare tiepidamente interessato: forse il colpo di reni arriverà con la Turandot veronese dell’Arena, molto attesa.
Frattanto, comunque, ben venga questa traduzione italiana di un estratto dell’opera Les Mille et Un Jours. Contes Persans edita tra 1710 e 1712 dell’orientalista François Pétis de la Croix che ebbe grande successo: il gioiello più splendente di quella collana era la storia della bella, gelida principessa Turandot, dei suoi enigmi mortali e del suo amore per un principe ridotto dalla sconfitta militale nella condizione di nomade cercatore di fortuna. Una bella storia, che ricevette anche l’attenzione del drammaturgo settecentesco Carlo Gozzi, collega e concorrente del Goldoni: il Gozzi raccontò la storia di Turandot in un’opera teatrale piacevole, fedele all’originale nonostante qualche spunto ripreso dalla “Commedia dell’Arte”. Forse ad apprezzare le note di Puccini saranno ancora una volta soprattutto i cinesi, che lo hanno sempre fatto.