Domenica 9 giugno 2024, Sant’Efrem, Diacono e dottore della Chiesa
RIPERCORRENDO IL CAMMINO DELLA NOSTRA CATTIVA COSCIENZA
IL GIORNO DELLA CADUTA DEL MURO DI BERLINO
MEMORIE, RIMPIANTI, RIMORSI IN UN NON-ANNIVERSARIO CHE ANCORA CI TURBA (9 NOVEMBRE 1989)
Ho un ricordo che mi perseguita, che mi turba. Anzi, un vero e proprio rimorso, Gli anniversari non c’entrano. La memoria ha le sue logiche, i suoi percorsi, le sue crudeltà sottili.
Trentacinque anni. Eppure sembra ieri. Avevo quasi mezzo secolo, allora: e mi sentivo vecchio, pesante, ingrigito. Eppure, quelli furono forse i miei anni migliori. Ero da poco divenuto cattedratico, scrivevo su “Il Tempo”, su “Il Sabato” e sul “Giornale Nuovo” del grande terribile Montanelli. Avevo piazzato un paio di libri di un certo successo, mi chiamavano spesso in TV e anche alla “Biennale” di Venezia. Avevo per la testa un sacco d’idee che allora mi parevano chic e mi facevano passare per una specie di enfant terrible: non per nulla ero amico di Umberto Eco. Potevo permettermi il lusso di dirmi reazionario e al tempo stesso castrista, anzi “guevarista”. Amavo il Che. Ma la mia grande passione era soprattutto l’Europa. E in quel magico novembre del 1989, mentre il rumore dei blocchi di cemento che rotolavano dallo sbrecciato Muro di Berlino riempiva il mondo, mi sentivo davvero a un passo dal sogno della mia bella Patria unita da Lisbona a Mosca, da Stoccolma ad Atene. Era caduto quello che nella DDR per 28 anni la retorica ufficiale aveva chiamato Antifaschistischer Schutzwall: che nome ridicolo…
Trentacinque anni fa mi portarono in regalo da Berlino una reliquia. Un sasso grigio, scabro, con qualche traccia di colori e di graffiti. L’aveva raccolto non lontano dalla Bornholmer Strasse; lì accanto, le foto mostrano un gruppo di belle ragazzine ridenti che avevano allestito un banchetto per la vendita di quelle reliquie, blocchetti informi di una decina di centimetri cubi a qualche dollaro l’uno. Ricordo la gente che si abbracciava per le strade: là a Berlino, qua da noi. Si brindava e si cantava. Seduti sui cumuli di cemento sbrecciato, i ragazzi della Volkspolizei ridevano anche loro, le giacche dell’uniforme sbottonate e i mitra a terra. Alexanderplatz: ricordo ancora le voci di Milva e di Battiato. Un mondo nuovo cominciava, un continente nuovo era all’orizzonte. Pace, giustizia, unità. In Germania, subito. In Russia, domani. In tutto il mondo, presto. Ditelo a tutti. Gridatelo a chi ancora non ci crede. Urlatelo nelle orecchie di chi si ostina a non voler sentire, a non voler capire.
È quietamente amaro, il ricordo di tutto questo in tempi nei quali i pacifisti di professione si stanno dando sui media a forsennate danze di guerra. Allora mi sentivo vecchio ma pieno di speranza nel domani. Il Muro era caduto: presto sarebbero caduti tutti i muri dell’odio, in tutto il mondo. La mia Patria europea sarebbe diventato un solo grande paese: era il sogno che cullavo da quando avevo vent’anni. Com’era bella l’Ode a Schiller della IX di Beethoven, il nostro Inno Europeo…
Oggi sono vecchio davvero. I muri si sono moltiplicati, da Israele al Messico e perfino da noi, attorno ai condomini dei ricchi. E sul mio, sul nostro domani, si addensano cupe minacce. Il mondo è più diviso di prima, l’odio e l’ingiustizia ancora più difficili da sopportare. Guerra nel XXI secolo? Avremmo riso in faccia a chiunque lo avesse anche solo ipotizzato, in quei giorni in cui tutti mettevamo fiori nei nostri cannoni. Eppure, invece…
Ho ottantatré anni, e ho passato la vita sognando; ho anche lavorato, e tanto, ma non vedo attorno a me i frutti del mio lavoro. Un giorno l’Angelo mi chiederà: “Che cos’hai fatto della tua vita, dove sono le tue speranze?”. E non saprò che cosa rispondergli. Alexanderplatz: c’era la neve…
Franco Cardini