Minima Cardiniana 472/6

Domenica 16 giugno, Domenica XI del Tempo Ordinario
Santi Martiri Quirico e Giulitta, San Ceccardo Patrono di Carrara

VELA A MOMPRACEM
UNO SCIAMANO LAOTIANO
di Stefano Andres
Luang Prabang, uno dei luoghi sacri dell’Asia.
Così l’immaginario occidentale etichetta l’antica capitale laotiana centro del buddismo theravada.
La mia inquieta ricerca di tradizioni non poteva quindi non condurmi in questo lembo di terra incastonato tra due fiumi: il Mekong, la Madre dei fiumi, ed il suo affluente Nam Khan.
Posto che la Spiritualità non segue logiche umane, non riuscivo ad afferrare nemmeno minuscoli frammenti dell’Assoluto, pur visitando rispettosamente decine di templi, mirando le puntute cupole degli stupa, seguendo monaci dalle tuniche arancioni e dai piedi scalzi in processione all’alba alla ricerca di cibo.
In parte il Laos, nel corso di questi ultimi trent’anni, aprendosi al turismo ha almeno parzialmente perduto la spontaneità del Sacro. Tra edifici restaurati a beneficio della necessità estetica e cerimonie divenute spettacoli da fissare in un’immagine digitale.
Al contempo mi rendo consapevole di non possedere gli strumenti per penetrare anche solo approssimativamente le tradizioni orientali.
Un amico che da anni vive alcuni mesi all’anno nel sud est asiatico mi aveva avvisato… Dentro ad una chiesa degli occidentali di media cultura siamo in grado di riconoscere simboli, riti, gesti, stili architettonici, generi pittorici… ma a queste latitudini ci sfugge (mi sfugge) il significato di quasi tutto ciò che passa davanti agli occhi… draghi anguiformi che scendono da tetti e ringhiere, giovani imberbi armati di spada incastonati sui portali e statue dorate di Buddha filiformi dal sorriso enigmatico e dalla gestualità delle mani sempre differente.
A seguito di una solenne indigestione di templi, soddisfatto più nell’estetica che nello spirito, lascio la “Sacra” Lunag Prabang per assecondare le mie aspirazioni corporee.
Condotto da un tuk tuk privo di sospensioni fin dove la strada finisce, inizio un trekking selvaggio attraverso l’umida e fangosa foresta laotiana, pullulante di insetti. La stagione monsonica magnifica il paesaggio nei suoi colori ma rende la marcia faticosa.
Dopo alcune ore, ecco apparire il villaggio di Liam Liao abitato da agricoltori animisti dediti alla coltivazione del riso (forse anche dell’oppio), alla raccolta di caucciù e di una corteccia che i cinesi acquistano per utilizzare come medicamento.
Mi concedo una pausa di riposo; un sorso d’acqua, una sistemata alle stringhe delle scarpe e uno sguardo alla maglietta e ai pantaloni maculati di mota rossastra.
Nel mentre, dall’interno di una capanna di bambù dal tetto spiovente sento giungere un’insolita cantilena. Tong mi spiega che è in corso un rito sciamanico.
Approfittando della porta aperta, entro nell’abitazione; seduti su una panca di fronte a un altare improvvisato mi danno le spalle i quattro membri di una famiglia, evidentemente i genitori e i due figli. Dietro di loro l’anziano medicine man, vestito non con chissà quale paramento, ma con dei mal tagliati pantaloni di stoffa beige che gli arrivano alle ginocchia, una volgare camicia scozzese e un copricapo che mi ricorda quello di un beduino. Con gli occhi semichiusi, agitando un comune tamburello, recita parole ritmate. Parole antiche, arcane, ispirate.
Si tratta di un incantesimo – mi spiegano – per placare gli spiriti che da alcuni giorni disturbano il nucleo familiare. I pee, gli spiriti, vivono ovunque, nella realtà sensibile e in quella sovrasensibile, vanno ammansiti, placati, onorati. Come in questo caso, nelle criticità bisogna ricorrere al mor, allo sciamano, il quale possiede gli strumenti sapienziali per interloquire con il mondo sovrannaturale.
Le tecniche dell’estasi.
Non ci sono barriere fisse nemmeno nello status: coloro che oggi appartengono al genere umano un giorno potranno appartenere a quello degli spiriti. E viceversa.
Si tratta solo di spiegazioni basilari, adattate alle mie strutture mentali, che mi bastano per inquadrare una scena comunque lineare nella sua semplicità rituale.
Ai piedi dello sciamano un porco legato nero come la pece, apparentemente mansueto, che di lì a poco, conclusa la nenia, sarebbe stato sgozzato. Appare pacifico, rassegnato più che stordito. A volte, grugnendo, si sovrappone alla preghiera ritmata.
Attraverso le assi di legno rari fasci di luce filtrano all’interno dell’abitazione. Una modesta candela posta sull’altare aumenta la visibilità. Svela le azioni. Favorisce la suggestione.
Usciamo e riprendiamo il cammino.
Noto delle donne curve nei campi adiacenti al villaggio che ripetono gesti plurisecolari, utilizzando per la coltivazione strumenti agricoli consunti e primordiali. Dei bambini completamente nudi e incrostati di sudicio si rincorrono tagliandoci la via.
A poco a poco dopo la sosta niente pare come prima.
Gli elementi si svelano a chi è ad essi profano.
Immergendosi nella vegetazione, la foresta con i suoi grovigli, suoni e odori assume nuovo significato.
Le pietre scivolose suggeriscono dove posare i piedi incerti mentre le foglie e l’erba comunicano attraverso il proprio scomposto movimento favorito da un flebile vento. Gli animali che popolano quei verdi labirinti si manifestano, forse, come spiriti reincarnati.
L’anima sfugge e la volontà vola in alto. Non precisamente un senso di unione panica… monta però una nuova consapevolezza; il senso di appartenenza a un ciclo vitale. Essere microcosmo nel macrocosmo mentre la natura diviene la Natura.
Ciò che doveva essere una prova fisica è divenuta, senza essere cercata o provocata, una prova iniziatica.
Compresi in quel momento che la regione di Luang Prabang è ancora terra di Tradizione. Terra del Sacro.