Minima Cardiniana 474/5

Domenica 30 giugno 2024
Santi Primi martiri della santa Chiesa di Roma

VELA A MOMPRACEM
DAVID
di Luigi G. de Anna
Kho Sichan è un’isola di modeste dimensioni a sud di Bangkok, meta dei turisti per il suo clima mite e dei bangkokkiani che ci vanno nei fine-settimana. Ma ora non è alta stagione e il ferry che ci porta da Koh Loi all’isola non è neppure pieno (ma lo sarà al ritorno, quando i thailandesi rientrano dopo la gita domenicale).
Nella baia dondolano le navi mercantili e i portacontainer, quasi tutti con bandiera di un paese asiatico. Più sotto c’è il Golfo di Thailandia e poi il Mare del Sud della Cina.
L’hotel Somewhere ha poche stanze, un piccolo ristorante e una piscina. E qui la prima sorpresa: un giovane thailandese col grembiule da cuoco ci chiede se siamo italiani. Parla l’italiano con un delizioso accento toscano. Ha vissuto per i primi venti anni a Prato; per via della madre thailandese che gli ha trasmesso la nazionalità, è venuto qui per fare il servizio militare, in marina. Poi è restato, ma ha nostalgia della Toscana. Chissà se sa cucinare la ribollita.
Non c’è molto da vedere a Kho Sichan: il villaggio si snoda lungo la strada principale con il tipico affastellarsi nelle città thailandesi di edifici sgangherati e altri più curati, e ovunque, quasi in una catena interminabile, i localini dove si prepara da mangiare. Non ci sono boutique per turisti, qui si pensa solo a mangiare, un’attività che tradizionalmente impegna i thailandesi per buon parte della giornata.
Noi ci adeguiamo. E la sera andiamo in cerca dell’unico ristorante raccomandato ai turisti nelle guide.
– Di dove siete?
È la domanda di prammatica, ma ora ce la rivolge un farang, piuttosto avanti negli anni. Parla l’inglese con accento americano, ma parla anche il thai perfettamente, mi fa notare Teeng con una certa sorpresa e con un malcelato rimprovero.
David ha 81 anni. È sposato con una thai della regione di I-san (sembra che buona parte delle mogli dei farangs debbano venire di lì). Gestisce il ristorante da una ventina di anni.
– Dove ha imparato così il bene il thai?
– Da giovane lo dovevo studiare 6 ore al giorno.
– Dove?
– A Udorn Tani.
A Udorn Tani, negli anni della guerra del Vietnam, c’era una grande base americana, da dove partivano anche i B52 che bombardavano il Sentiero di Ho Chi Min.
Sono incuriosito, e con una punta di malizia chiedo:
– Era nei Green Berets?
Mentre i GI americani si limitavano ad imparare un basic thai, come fare bum bum o suki suki, utile con le ragazze dei bar che proliferarono per venire incontro alle loro esigenze, i Berretti Verdi venivano impiegati come istruttori in Laos (il laotiano è molto simile al thai) o per missioni tra le Hill tribes del nord dell’Indocina, quindi dovevano imparare le principali lingue locali.
– Avrei voluto – risponde con un sorriso David, ma non aggiunge perché non fosse entrato in quel corpo. – Andai come volontario in Vietnam. Avevo vent’anni.
– Abbastanza raro.
– Vengo da una famiglia di militari. Lo era mio padre, e mio nonno era un generale della US Army.
– Complimenti.
– Mi misero in un reparto che in Thailandia si occupava di intelligence.
– Che tipo di intelligence?
– Il nostro compito era di ascoltare e trascrivere le trasmissioni radio che potevano interessare l’ambasciata.
Il ruolo delle ambasciate USA, a Bangkok, come a Saigon, come a Vientiane, non era solo diplomatico, ma anche militare, tanto che chi a tutti gli effetti dirigeva le operazioni militari era l’ambasciatore.
– In realtà esistevano vari centri di comando e di conseguenza di informazione; a parte noi, c’era l’esercito, e naturalmente la CIA.
– Ho sentito da un canadese che lavorò in Vietnam cose raccapriccianti sulla CIA. Mi raccontò che interrogavano i prigionieri su un elicottero, e se non erano soddisfatti delle risposte li buttavano di sotto.
David non commenta.
– Sono state fatte cose terribili, la vera storia della guerra americana, come la chiamano i vietnamiti, non è stata ancora scritta.
– La scriva lei.
David sorride.
– O almeno scriva le sue memorie.
– Me lo impediscono le mie figlie… e mia moglie.
E ride
– Esisteva molta ostilità tra i servizi.
Riprende.
– La CIA ci guardava con sospetto e spesso le notizie che fornivamo venivano fatte cancellare perché erano in conflitto con quelle che fornivano loro. La CIA era fortemente politicizzata in senso anticomunista. Io lavoravo tra Thailandia e Laos, dove operavano altri personaggi che non appartenevano all’esercito.
– Vuole dire Air America e i Raven?
– Esatto. Ci guardavano con sospetto e perfino disprezzo e non potevamo frequentare i locali dei piloti di Air America, la compagnia aerea della CIA, che si occupava anche di commercializzare l’oppio che veniva dal nord dell’Indocina.
– Chi erano i Raven?
– Erano piloti militarizzati destinati alle operazioni segrete, ma tutto era segreto in Laos, dove gli Stati Uniti combattevano una guerra non solo non dichiarata, ma di cui non si doveva parlare.
– Si dice che la guerra del Vietnam sia stata persa non sul campo di battaglia, ma su quello dell’informazione.
– In parte è vero. La libertà concessa ai media di informare il pubblico ne condizionò i limiti strategici.
– Perché questo non è successo con le altre guerre americane che l’hanno seguita?
– Perché non c’erano più soldati coscritti, non c’erano madri e padri che piangevano i loro figli, non erano più guerre basate sullo sfruttamento delle frange più povere, visto che i figli delle buone famiglie bianche in Vietnam non ci andavano. Le guerre americane che seguirono vennero combattute da soldati professionisti e comunque la loro giustificazione propagandistica fu molto più elaborata di quella semplicistica della “teoria del domino”.
– Nasce la guerra planetaria al terrorismo.
– Appunto. Il terrorismo, nell’interpretazione che ne dava G.W. Bush, minacciava tutti, e non solo gli americani. L’attacco alle Twin Towers, seppure con un numero di vittime molto inferiore rispetto ad altre guerre, non aveva un precedente, nella drammaticità della narrazione, in quello che succedeva in Vietnam, dove i bombardamenti dei B52, il napalm, le uccisioni di massa nei villaggi non avevano su noi americani il medesimo impatto. E non ci fu soltanto una My Lai, di My Lai ce ne furono altre. E poi il body counting: il generale Westmoreland voleva i morti, pensava che ammucchiandoli avrebbe vinto la guerra. E allora si tagliavano le orecchie ai morti, si infilavano in un nastro e diventavano festoni per decorare le baracche. Nel libro di Cristopher Robbins, The Ravens. Pilots of the Secret War of Laos, si legge di un bambino laotiano senza orecchie. Gliele aveva tagliate il padre per venderle a un soldato americano.
Teeng ha un sussulto e smette di cenare.
– Le guerre si devono fare col consenso dell’opinione pubblica, da noi in America e da voi in Europa, ecco quindi che i media assumono un’enorme importanza, e sono media che, consciamente o meno, soddisfano alle esigenze del dominio USA.
– Mr. David, direbbe queste cose in America?
– Da tanto non ci torno.
Sorride sornione.
E io penso che bene, esistono anche americani come lui.
David si rivolge a Teeng nel suo perfetto thai e le chiede che programmi abbiamo per l’indomani.
Lo guardo con ammirazione.
Peccato che americani come lui si siano perduti nelle selve dell’Indocina.