Minima Cardiniana 475/1

Domenica 7 luglio 2024, Beato Benedetto XI

EDITORIALE
Molti amano la storia per anniversari. Di tanto in tanto, anch’io amo adeguarmi: e vorrei ricordare qui il Novantesimo dei moti parigini del febbraio 1934, quando i partecipanti a due “opposti” cortei, uno di destra e uno di sinistra, si unirono per protestare contro il governo intonando a turno la Marseillaise e l’Internazionale. Il giornalista e scrittore Robert Brasillach, vicino all’Action Française, commentò: “Avrei voluto che quel momento non fosse finito mai”. Undici anni dopo, Brasillach veniva fucilato per tradimento: fu De Gaulle a volere quell’esecuzione, contro la quale  si era levata la voce di molti.

PARIGI, 6 FEBBRAIO 1934
UN RICORDO DI ROBERT BRASILLACH
Ma anche se tali cortei di protesta erano ormai divenuti familiari, nessuno avrebbe mai immaginato quel che sarebbe accaduto il 6 febbraio. La grande manifestazione dei Vecchi Combattenti che era stata annunciata, si sarebbe rivelata qualcosa di diverso da una platonica passeggiata, con tante belle scritte “perché la Francia viva pulita e onorata”? Quelli che si erano allarmati non erano dei fifoni? Alle nove, quella sera Jouvet dava una prima, in avenue Montaigne, al Teatro dei Campi Elisi, a due passi da Rond-Point. Vi assistetti, era il mio lavoro, all’epoca. Nella sala non c’erano più di trenta persone, desiderose di rivedere l’affascinante commedia di Sutton Vane: Au grande large, che rievocava l’atmosfera di dieci anni prima, i suoi morti in croce, il barman, il giudice supremo con casco coloniale. Noi non eravamo turbati, anzi, mancava poco cominciassimo a prenderci in giro. Non sapevamo che alle sette e mezza la polizia aveva già sparato sulla folla, che si contavano già i morti, ben più reali e concreti di quelli di Au grande large! Alle undici e mezzo, uscendo dal teatro, restammo impietriti davanti a uno spettacolo incredibile: qualcosa di vivido e fiammeggiante danzava in lontananza, al di sopra delle teste, così sembrava; guardavamo senza capire cosa fosse quel fuoco nero, oscillante: era un autobus rovesciato su un fianco a Rond-Point. E tutto d’un tratto, mentre ci avvicinavamo, ci venne incontro una folla enorme, automobili stracariche di grappoli d’uomini e di donne passavano suonando il clacson, anziane signore cominciarono a correre, dandosela a gambe. Capimmo subito che non si trattava più di una manifestazione, ma di una vera e propria rivolta.
Era da tanto tempo che Parigi non viveva una simile notte. Migliaia di persone, quella notte, non andarono a letto ma camminavano e correvano nel vento gelido, l’agitazione era generale. Operai, borghesi, uomini della strada, tutti dicevano: – Domani porteremo con noi bombe e granate. I vecchi dissidi politici si appianavano di colpo, i comunisti si mettevano d’accordo con i nazionalisti, e al mattino L’Humanité pubblicava un proclama per chiedere ai suoi lettori di unirsi ai Combattenti della Prima Guerra. Una immensa speranza nasceva dal sangue, la speranza di una Rivoluzione nazionale, quella Rivoluzione che il vecchio Clemenceau aveva definito impossibile “finché i borghesi non fossero stati tutti uccisi in place de la Concorde”. Quella rivoluzione “impossibile” prendeva forma e poderosa consistenza nella tragica notte del 6 febbraio, in cui accaddero avvenimenti sorprendenti e disparati: le dimissioni del Presidente della Repubblica, le notizie che parlavano di centinaia di morti, l’ebbrezza, la collera, la disperazione. I feriti vennero raccolti al Weber, e Monsignor de Luppé, con tutta la sua bardatura episcopale, andava a benedirli. La divina coppia, il Coraggio e la Paura, come ha scritto Drieu La Rochelle che ha perfettamente compreso quella notte esaltante, si ricongiungeva e spazzava le strade. Oggi potremmo pensare che, in realtà, il 6 febbraio non fu altro che un subdolo complotto. Quelle truppe eterogenee, gettate all’assalto disarmante, seguivano soltanto il loro istinto e non un piano, uno schema definito. Al centro della rivolta, dove avrebbe dovuto trovarsi una direzione strategica, non c’era assolutamente nulla. Probabilmente ci saranno stati degli incontri, degli abboccamenti, degli accordi, tra alcuni personaggi, nei giorni che precedettero il 6 febbraio. Ma la massa li ignorava del tutto, ed il seguito della sommossa dimostrò che era stata del tutto inutile e mal preparata. Il mattino del 7, una Parigi lugubre come non l’avevamo mai vista, le rivendite di giornali assediate (molte testate non avevano avuto il tempo di fornire una versione ufficiale dei fatti, e dedicavano la prima pagina alla maggioranza della Camera), venivamo a sapere un po’ alla volta delle dimissioni di alcuni membri del governo e, contemporaneamente, delle perquisizioni e delle inchieste aperte dalla Magistratura su diversi esponenti nazionalisti. Nel corso del pomeriggio, mentre mi trovavo del tutto solo nella redazione di Millenovecentotrentatre, mi telefonò Paul Bourget per chiedermi se era vero che avevano arrestato Maurras: fu l’unica occasione in cui ebbi modo di sentirlo di persona, aveva una voce ansimante, incrinata dalle lacrime, tremante. Eppure si profilava già all’orizzonte la figura del pacificatore, di Doumergue, vecchio Presidente della Repubblica, il cui sorriso era celebre quasi quanto quello di Mistinguette. Il Regime ricorreva ad uno dei suoi espedienti prediletti.
E così tutto ebbe termine. Il 9 febbraio, i comunisti tentavano ancora di salvare la Rivoluzione sociale. Jacques Doriot, capo di “Rayon communiste de Saint-Denis”, sguinzagliò sulla stazione Nord i suoi ragazzi, giovanotti rudi e senza paura, che caddero sotto i colpi delle guardie. Ma ormai la teppaglia invadeva Parigi, il 12 sarebbe stato il suo giorno, e poi tutti si dimenticarono dell’unità sociale e nazionale.
Qualche giorno dopo, aprendo i giornali, si veniva a sapere che alla vigilia di deporre in giudizio sul caso Stavinksy, un magistrato, Prince, era stato trovato morto su un binario della ferrovia vicino a Dijon, in un posto chiamato Come-aux-Fées. Ancora una volta, non è difficile definire la sensazione unanime dei francesi, nei confronti di questo nuovo fatto: Prince era stato assassinato. Eppure quest’omicidio tirava in ballo troppa gente, troppi potenti del regime. Nel giro di pochi giorni, non si capì più nulla, la tesi del suicidio sembrava inattaccabile, i rapporti della polizia rimuovevano fango e sporcizia, e la morte dello sventurato magistrato andò ad aggiungersi alle altre misteriose dipartite di personaggi della III Repubblica: da Syveton ad Almereyda e Maginot. Da questi fatti gravissimi, la Francia usciva irritata, tetra e pronta – almeno pareva – a tutte le avventure, anche alle più belle. Henry Béraud pubblicava su Gringoire un bellissimo articolo sul “fucilatore” Daladier, e i giornali tedeschi annunciavano: “L’alba del fascismo sorge sulla Francia”.
Quanto a noi, non abbiamo mai rinnegato il 6 febbraio. Ogni anno, in occasione di questo anniversario, portavamo dei mazzi di viole in place de la Concorde, e li deponevamo davanti a quella fontana divenuta ormai un cenotafio (cenotafio sempre più vuoto), in ricordo dei ventidue morti. Di anno in anno, la folla davanti alla fontana, il 6 febbraio, era sempre più sparuta, perché i patrioti francesi, per natura, tendono a dimenticare in fretta. Solo gli autentici rivoluzionari hanno compreso il senso dei miti e delle cerimonie. Ma se il 6 fu soltanto uno sgangherato complotto, per altri versi rappresentò una magnifica e spontanea ribellione, fu una notte sacrificale, che si è scolpita nel nostro ricordo con il suo odore, il vento gelido, pallide ombre in fuga, gruppi di uomini ai bordi dei marciapiedi, e, soprattutto, l’invincibile speranza di una Rivoluzione nazionale, la nascita del nazionalismo sociale nel nostro paese. Che importa se dopo tutto fu strumentalizzato sia a destra che a sinistra; quel fuoco ardente, quei morti rimangono puri. E nessuna meschina strumentalizzazione politica potrà cancellare quel che è stato, quella notte scolpita con il sangue ed il fuoco nella nostra coscienza.
(Robert Brasillach, Il nostro anteguerra, Ciarrapico Editore, 1986, pp. 185-188)