Domenica 14 luglio 2024, San Camillo de Lellis
ALCIDE DE GASPERI ANTISEMITA?
IL PROBLEMA DEL PARADIGMA STORICO-TEOLOGICO DELL’OCCIDENTE
di Luigi Copertino
Nelle righe, che seguono, vogliamo affrontare dal vivo uno dei più delicati problemi che si presentano oggi all’uomo moderno occidentale. Una complessità che non adeguatamente affrontata, ossia laddove non vengano usate chiavi metodologiche ed ermeneutiche adeguate, potrebbe portare, presso il più vasto pubblico a digiuno di problemi storici e tendente ad accreditare semplificazioni giornalistiche sovente riduttive e banalizzanti, a convinzioni deleterie e false. E lo facciano, giusto per metterne in evidenza la citata complessità, prendendo lo spunto da una polemica montata quasi venti anni fa in merito agli scritti giovanili di Alcide De Gasperi sull’ebraismo che hanno fatto (s)parlare qualcuno di un “De Gasperi antisemita”.
L’atto di accusa
Lo storico Günther Pallaver aveva riportato all’attenzione pubblica gli scritti degli anni viennesi dello statista trentino in merito alla questione ebraica[1]. Tanto bastò affinché qualcuno, nonostante i distinguo e le precisazioni dello storico testé citato, cavalcando il paradigma culturale egemone attuale che, dopo l’evento del genocidio nazista, ha condizionato ogni sereno approccio al problema storico, ed anche teologico, del popolo ebreo – quindi attraverso una lettura anacronista dei fatti –, provò ad interpretare quegli scritti giovanili di Alcide De Gasperi come rivelatori di un sentimento antisemita nutrito dal futuro capo di governo della nostra Repubblica postfascista. Gli scritti capo d’accusa sono quelli relativi ad alcuni discorsi tenuti da De Gasperi prima della Grande Guerra, a Merano e a Vienna, e in particolare taluni suoi articoli pubblicati su “Il Trentino” e la “Voce Cattolica” nel primo decennio del secolo scorso. Si tratta di interventi pubblici nei quali il politico trentino mostra di essere fortemente influenzato dall’atteggiamento di avversione verso gli ebrei tipico del cattolicesimo sociale austriaco, ma non solo, il cui leader all’epoca era il borgomastro di Vienna Karl Lueger, inviso al Kaiser Francesco Giuseppe proprio per i suoi eccessi antigiudaici manifestati sovente con toni accesamente polemici.
Il cattolicesimo sociale, come quello di Lueger, a cavallo tra XIX e XX secolo univa una piattaforma anticapitalista di marca populista alla lotta al socialismo. Entrambi, capitalismo, soprattutto finanziario, e socialismo erano considerati, secondo un cliché molto comune in quel periodo, creature dell’ebraismo. Una convinzione che proveniva dall’impressione, non affatto priva di fondamento storico benché troppo assolutizzata, per la quale nel mondo della finanza, apolide e cosmopolita oltre che ateo e irreligioso, fosse forte, se non addirittura prevalente, la presenza dell’elemento di provenienza ebraica, rappresentato da note dinastie di banchieri e finanzieri come i Rothschild e i Rockefeller.
Al giovane De Gasperi sono state imputate espressioni, come le seguenti, che di quelle posizioni culturali e politiche sono indizio.
“Noi non siamo contro gli ebrei, perché d’altra religione e d’altra razza, ma dobbiamo opporci ch’essi, coi loro denari, mettano il giogo degli schiavi sui cristiani. Quando in Austria cominciò la riscossa contro il capitalismo monopolizzato dagli ebrei, fu dannoso alla causa degli operai il vedere gli ebrei impadronirsi della rappresentanza dei loro interessi” (tratto dal Discorso di Alcide De Gasperi a Merano nel 1906, pubblicato da “Il Trentino”, 18.6.1906, pagina 1).
“Non saprei meglio caratterizzare le due armate in campo che paragonarle alla guerra fra Roma e Cartagine. […] Da una parte i cittadini viennesi, i professionisti, gli artigiani, il popolo onesto che lavora e i contadini della campagna che combattono per le mura avite e il focolare paterno, cioè Roma. Dall’altra i semiti di Cartagine, i capitalisti che hanno assoldato un esercito di mercenari, il cui grosso è formato dal proletario socialista internazionale […]. I rappresentanti dell’oro e della bancarotta politica, i fabbricatori della pubblica opinione, i padroni della borsa sono l’etichetta degli altri, che il vero nome è Alleanza Israelita […]. Il loro capo è l’ebreo Ellenbogen [si trattava di un leader socialista dell’epoca]. Dall’altra parte lo schieramento cristiano-sociale che ha assestato i colpi più fieri al capitalismo ebreo e ha introdotto il crocifisso nelle scuole, le monache negli ospedali, ha licenziato i maestri socialisti” (in un articolo pubblicato da Alcide De Gasperi, con lo pseudonimo di Fortis, su la “Voce Cattolica”, autunno 1902, in occasione delle elezioni della dieta dell’Austria inferiore).
“Va esaltata la lotta contro lo straniero e l’ebreo immigrato dalla Galizia e dalla Russia, questo popolo senza patria e senza diritti” (in un articolo di Alcide De Gasperi apparso su “Il Trentino”, 2 marzo 1910).
“La storia austriaca dell’Ottocento riassume ancora una volta la questione ebraica come discriminazione essenziale. Quando la giovane Europa conquistò dalle barricate la lotta politica, trovò che l’ebreo Carlo Marx aveva già fondato la Lega dei comunisti, che l’ebreo Lasalle aveva già un esercito in assetto di guerra, che l’ebreo Heinrich Heinecken e le colte ebree dominavano già nella letteratura ed ebrei dominavano nella industria libraria e una pleiade di professori ebrei avevano già conquistato le cattedre della scienza” (in un articolo di Alcide De Gasperi pubblicato su “Voce Cattolica”, 10 novembre 1902).
Parole molto dure del giovane De Gasperi contro gli ebrei, visti quali corruttori della civiltà cristiana in quanto capitalisti o in quanto comunisti, si ritrovano anche in un discorso ai lavoratori trentini emigrati a Vienna, poi pubblicato dalla “Voce Cattolica” del 1902.
Günter Pallaver, docente all’Istituto di Scienze Politiche dell’Università di Innsbruck, in occasione della polemica contro Alcide De Gasperi alla quale stiamo facendo riferimento, osservò che “uno studio approfondito sull’antisemitismo del Trentino del Novecento non è mai stato fatto” e, circa l’atteggiamento verso gli ebrei nella stampa cattolica di fine ’800 e inizio ’900, fece riferimento alla ricerca di Fabrizio Rasera[2] e allo studio di Quinto Antonelli “Fede e Lavoro”.
Lo storico sudtirolese ammise onestamente che quello di Alcide De Gasperi non era antisemitismo di stampo biologico-razzista. D’altro canto lo stesso statista trentino era stato esplicito in tal senso laddove, nel suo discorso pubblicato da “Il Trentino” del 18 giugno 1906, fece la debita premessa con la quale ammoniva: “Noi non siamo contro gli ebrei, perché d’altra religione e d’altra razza”. Per questo Pallaver lo definisce un antisemitismo “ambientale”, frutto d’assimilazione dell’antiebraismo del cattolicesimo politico ottocentesco.
“De Gasperi è stato fortemente influenzato dalla figura di Lueger”, ha evidenziato Pallaver. “Il suo antisemitismo non è propriamente razzista. Era un tutt’uno con la lotta al socialismo che si avvaleva anche di quegli argomenti e anche di quegli stereotipi, diffusi in un certo mondo cattolico”. Sicché, egli ha sottolineato, “non si può dire che è un antisemitismo rielaborato criticamente da De Gasperi e fatto proprio. Né si può dire che è un aspetto specifico del Trentino di allora, o del mondo cattolico trentino di allora”, perché “è invece un filone di pensiero comune a tutto il movimento cattolico politico tedesco di allora, fortemente caratterizzato dall’esperienza viennese di contatto quotidiano con gli ebrei. Questi erano poi fortemente presenti all’interno dei socialisti per via dell’emancipazione ebraica, e quindi venivano facilmente identificati come il nemico politico. Non per niente si sentiva parlar sempre di un’idra giudaico-massonico-liberal-socialista”.
Il paradigma egemone
“Comunque”, ha commentato ancora Günther Pallaver, “nulla toglie che fosse antisemitismo”.
Ed è qui, a proposito di questa conclusione, che dissentiamo fortemente dall’esimio storico chiaramente influenzato, nel suo giudizio, dal paradigma culturale attuale, di cui si diceva, quello conseguente l’evento del genocidio nazista che ha finito per condizionare ogni ricerca, ogni studio, ogni dibattito intorno alla storia degli ebrei, fino a far assurgere il genocidio da essi subito ad un fatto non più storico quanto teologico, come dimostra l’appellativo ad esso dato di “Olocausto” che sottende una chiara teologia escatologica della storia la quale, prendendo gradualmente il posto di quella cristiana, si è affermata in Occidente, appunto in conseguenza dello sterminio nazista, al modo di una religione civile, di un paradigma fideistico spesso giustificatore di ben precise scelte politiche e geopolitiche, tale da unificare, in una inammissibile confusione concettuale e storica, posizioni religiose, fenomeni storici, atteggiamenti culturali, eventi politici di matrice completamente diversa, nonostante le pur possibili, ed attestate, reciproche contaminazioni e sovente strumentalizzazioni, quali quelle dei nazisti che hanno utilizzato indebitamente certi stereotipi giudeofobici ed antigiudaici di origine socio-economica o teologica, non però razziale, per avvalorare, con argomenti antichi, il loro moderno razzismo antiebraico.
Secondo il paradigma attualmente vigente qualsiasi avversione o critica all’ebraismo è ipso facto “antisemitismo”. In tal modo – nonostante che i fenici, come gli arabi, fossero anch’essi semiti – diventano antisemiti tanto i sacerdoti del dio fenicio Baal, che, in base al Vecchio Testamento, ebbero una contesa teologica, non certo razziale, con il profeta Elia, quanto gli islamici date le molte invettive antiebraiche presenti nel Corano oppure sono bollati di antisemitismo tanto i cattolici preconciliari, e quelli che ancora resistono alla svolta conciliare, quanto i nazisti o i razzisti, protestanti ed anticattolici, del Ku Klux Klan statunitense. Questa confusione, come dimostra la conclusione di Pallaver, ha la sua causa nell’ampliamento oltre ogni limite del termine “antisemitismo” con il quale si è inteso così coprire una gamma vastissima di posizioni ed atteggiamenti genericamente antiebraici compresi quelli, e sono storicamente la maggior parte, non riconducibili al concetto moderno di razza, in senso biologico, impossibile ad affermarsi senza gli apporti della scienza moderna o di talune sue correnti e di ben precise filosofie emerse dal settecento in poi.
Un problema allo stesso tempo semantico, teologico e storico
La questione è, quindi, innanzitutto un problema di definizioni e della loro corrispondenza alla realtà storica e, di conseguenza, un problema di significato dei termini utilizzati. Onde evitare di cadere nella hegeliana notte nella quale tutte le vacche sono nere, tranello che fa comodo politicamente ma non può essere ammesso in un serio dibattito storico o culturale, è quindi necessario fare chiarezza semantica, teologica e storica.
Quello del giovane Alcide De Gasperi, ma anche in genere quello del cattolicesimo sociale e politico otto-novecentesco, e perfino quello, come vedremo, della sinistra socialista dell’epoca, non era antisemitismo ma, casomai, giudeofobia socio-economica congiunta al tradizionale antigiudaismo teologico. Lo stesso Lueger era giudeofobico e antigiudaico ma non antisemita in senso razziale. La giudeofobia cattolico-sociale poggiava su un anticapitalismo che, in particolare, poneva l’accento sui pericolosi ed antisociali aspetti finanziari del capitalismo. Una questione, questa, benché ormai scissa da qualsiasi riferimento razziale, ancora oggi irrisolta ed anzi, oggi, resa ancor più evidente dall’l’avanzamento del processo di finanziarizzazione, ossia di emancipazione del dominio del denaro dai limiti in precedenza ad esso imposti dall’economia capitalista reale.
È noto che anche Hitler ammirasse Lueger ma non è corretto fare del borgomastro cristiano-sociale di Vienna un suo maestro o un suo precursore. Hitler coltivava l’antisemitismo razziale, che è l’unico antisemitismo classificabile come tale ed al quale applicare detto termine. Il razzismo antisemita nasce con la modernità illuminista, a partire dal Settecento, per essere poi elaborato in salsa positivista e darwiniana nell’ottocento. Maestro di Hitler, al cui capezzale il dittatore tedesco andò ad inchinarsi, fu il pensatore razzista di origini inglesi Houston Stewart Chamberlain a sua volta allievo di Joseph Arthur de Gobineau, l’autore del “Saggio sulla ineguaglianza delle razze umane”, nel quale la storia è presentata come lotta tra le razze al modo stesso nel quale Marx la leggeva come lotta tra le classi sociali. Da qui prende le mosse l’interpretazione di Ernst Nolte del nazismo come replica razzista del classismo marxista. Insieme al romanticismo teosofico ed occultista, furono il positivismo e il darwinismo a preparare il terreno dal quale emerse il nazismo e che poi continuò a nutrirlo in tutta la sua parabola. Alle radici del razzismo antiebraico nazista non ci sono né l’antigiudaismo teologico cristiano né la giudeofobia socio-economica – che nel corso dei secoli si erano influenzate reciprocamente – per quanto gli antisemiti razziali, ossia i nazisti, possano aver fatto un uso strumentale della tradizione teologica del “deicidio” e del sentimento popolare di avversione all’ebreo identificato con l’usuraio per antonomasia, secondo un cliché all’epoca prevalente e non sempre rispondente al vero giacché se c’erano ebrei ricchi, per via della loro attività di usurai e di esperti banchieri, vi erano anche ebrei poveri.
Bisogna pertanto, sotto il profilo concettuale e storico, tenere assolutamente ben distinti l’antigiudaismo teologico, la giudeofobia socio-economica e l’antisemitismo su basi razziali. Non sono la stessa cosa e bisogna pertanto valutarli su piani differenziati e diversificati, senza fare dei primi due la premessa dell’ultimo o coinvolgere i primi due negli esiti criminali del terzo. Nel XVI secolo, tanto per dirne una, l’argomento della cosiddetta “limpieza de sangre”, la cui attestazione per accedere a cariche pubbliche era contemplata per consuetudine in taluni fueros ispanici, non costituiva affatto un argomento determinante né derimente nella procedura inquisitoriale della temibile “Suprema”, l’Inquisizione spagnola, volta all’individuazione dei “falsos conversos”, ossia degli ebrei falsamente convertiti e che continuavano a praticare i loro riti e la loro fede dietro apparenze cristiane. Del resto, lo stesso famigerato Torquemada, e pare persino re Ferdinando, era di origine conversa ossia ebrea.
La tradizione giudeofobica socialista
Se si guarda alla storia del socialismo europeo ottocentesco, si scopre che al suo interno sussisteva da tempo immemore una forte vena di antiebraismo a carattere socio-economico, sia a livello colto che a livello popolare. La sinistra ottocentesca fu percorsa da un sentimento antiebraico fondato sull’assimilazione tra capitalismo ed ebraismo che ereditava, certo, anche antichi pregiudizi popolari sugli ebrei quali usurai ma che trovava qualche giustificazione nel fatto indubbio della presenza nel mondo della finanza, sia tedesca che anglosassone, di una forte componente ebraica.
È stato osservato che sussiste: “una tradizione di antisemitismo socialista. […]. Già dalla scuola di Fourier partirono […] le prime puntate contro l’affarismo ebraico, destinate a ripetersi in Proudhon e […] in Marx, che pure discendeva da un’antica famiglia rabbinica: ma il padre si era fatto protestante, per indifferenza religiosa e patriottismo tedesco […]. Marx […] era andato molto oltre […] sulla via dell’antisemitismo, negando un’identità etnico-religiosa agli ebrei fuori del culto del denaro. Legato alla figura paterna, Marx risolveva in tal modo anche una delicata questione di famiglia giustificandone l’abbandono non d’un vero Dio, che per lui era un’invenzione, una soprastruttura, ma dell’antisociale Dio denaro. Nella demonìa del denaro, condizione esistenziale non necessariamente legata alla figura dell’ebreo, Marx aveva individuato meglio che nella lotta di classe la più profonda natura del mondo moderno e, paradossalmente, della secolarizzazione per cui (pur) si batteva”[3].
Il riferimento a Karl Marx va ricondotto alla sua critica al libro “La questione ebraica” pubblicato nel 1843 da Bruno Bauer. Nel proprio saggio di commento, il giovane Charlie Mordekai – tale il vero nome ebraico di Marx – scrisse pagine accesamente “antiebraiche” intese a criticare il Bauer per il quale l’emancipazione degli israeliti passava attraverso la mera laicizzazione degli Stati cristiani. Per Marx, invece, l’emancipazione ebraica doveva passare per l’abbandono della identità religiosa ed etnica, vista come soprastruttura di rapporti economici, per diventare nient’altro che un capitolo dell’emancipazione dell’intera umanità dal capitalismo. Nella sua risposta a Bauer, tuttavia, Marx toccò punte inusitate di avversione verso il popolo ebreo.
“Qual è il culto mondano dell’ebreo?”, scriveva dunque Marx in quelle pagine. “Il traffico. Qual è il suo Dio mondano? Il denaro. Ebbene. L’emancipazione dal traffico e dal denaro, dunque dal giudaismo pratico, reale, sarebbe l’autoemancipazione del nostro tempo. Un’organizzazione della società che eliminasse i presupposti del traffico, dunque la possibilità del traffico, renderebbe impossibile l’ebreo. La sua coscienza religiosa si dissolverebbe come un vapore inconsistente nella vitale atmosfera reale della società. […]. Noi riconosciamo dunque nel giudaismo un universale elemento attuale antisociale, il quale attraverso lo sviluppo storico, cui gli ebrei per questo lato cattivo hanno collaborato con zelo, venne sospinto fino al suo presente vertice, un vertice sul quale deve necessariamente dissolversi. L’emancipazione degli ebrei nel suo significato ultimo è la emancipazione dell’umanità dal giudaismo. L’ebreo si è già emancipato in modo giudaico. “L’ebreo che, ad esempio, a Vienna, è solo tollerato, con la sua potenza finanziaria determina il destino di tutto l’Impero. L’ebreo, che nel più piccolo Stato tedesco può essere privo di diritti, decide delle sorti dell’Europa. Mentre le corporazioni e i mestieri sono chiusi all’ebreo o non gli sono ancora favorevoli, l’arditezza dell’industria si fa beffe della ostinatezza degli istituti medioevali” (B. Bauer, “Questione ebraica”, p. 114). Questo non è un fatto isolato. L’ebreo si è emancipato in modo giudaico non solo in quanto si è appropriato della potenza del denaro, ma altresì in quanto il denaro per mezzo di lui è diventato una potenza mondiale, lo spirito pratico dell’ebreo è diventato lo spirito dei popoli cristiani. Gli ebrei si sono emancipati nella misura in cui i cristiani sono divenuti ebrei. […]. Il denaro è il geloso Dio d’Israele, di fronte al quale nessun altro dio può esistere. Il denaro è il valore universale, per sé costituito, di tutte le cose. Esso ha perciò spogliato il mondo intero, il mondo dell’uomo come la natura, del valore loro proprio. Il denaro è l’essenza, fatta estranea all’uomo, del suo lavoro e della sua esistenza, e questa essenza estranea lo domina, ed egli l’adora. Il Dio degli ebrei si è mondanizzato, è divenuto un dio mondano. La cambiale è il dio reale dell’ebreo. Il suo Dio è soltanto la cambiale illusoria”[4].
Usando il paradigma egemone attuale, la religione civile dell’Occidente, per queste sue parole si potrebbe ben dire che Marx fosse un razzista, un precursore di Hitler, come si è tentato ed ancora si tenta, faziosamente, di dire, non solo nel caso di De Gasperi, del Cattolicesimo, tanto quello teologico quanto quello politico-sociale.
Antigiudaismo teologico e giudeofobia socio-economica
L’antiebraismo socio-economico era profondamente radicato nella cultura rivoluzionaria della sinistra europea sin dal XIX secolo. Ma non si trattava di antisemitismo razziale. Piuttosto vi era in esso l’eco di antiche diffidenze cristiano-popolari ovvero la giudeofobia a sfondo socio-economico che nei secoli premoderni aveva dipinto, a torto ma anche in taluni casi a ragione, gli ebrei come tutti usurai, perfino assassini perché sospettati di dedicarsi ad omicidi rituali di bambini cristiani. Leggende popolari, frutto del conflitto sociale ed economico, che la Chiesa non sempre riuscì a sopprimere data la difficoltà nello sceverare il falso dal vero in tutto ciò che era attribuito agli ebrei o, meglio, a taluni gruppi ebraici chiusi in una sub-cultura intrisa di superstizione, di magia, non a caso legata all’elemento sangue, e di un certo tipo di ambigua mistica neoplatonizzante. Nel clima di sospetto originato dal conflitto sociale tra i ceti subalterni e gli ebrei dediti all’attività bancaria e finanziaria – i loro colleghi cristiani, d’altro canto, approfittavano di questo clima per scaricare su di essi la rabbia popolare – l’antigiudaismo teologico tradizionale finiva per essere strumentalizzato dalla giudeofobia sociale popolare. L’antigiudaismo teologico, infatti, veniva spesso frainteso nei termini semplicistici dell’accusa di “deicidio”, termini mai dogmatizzati in quanto tali dalla Chiesa benché diversi teologi e predicatori ne facessero uso.
La posizione teologica tradizionale della Chiesa in ordine al popolo ebreo – quella agostiniana, per intenderci, che assegnava agli ebrei il ruolo di testimoni del Vecchio Testamento in attesa della loro conversione finale nei tempi escatologici – non consentiva, né consente, di parlare di accusa di deicidio nei termini nei quali se ne è parlato in passato e ne parla oggi, con atteggiamento accusatorio contro la Chiesa, la volgare pubblicistica corrente. Infatti, la base scritturale del problema sta tutta nella prima predicazione apostolica come testimoniata dagli Atti degli Apostoli. Una predicazione rivolta proprio, in prima battuta, agli ebrei, molti dei quali del resto avevano accolto o stavano accogliendo la nascente fede cristiana.
Stando, ad esempio, ad Atti degli Apostoli 2,22-24, nel discorso tenuto da Pietro, il primo Papa, subito dopo l’effusione dello Spirito Santo in Pentecoste, ad un pubblico ebreo, egli disse: “Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nàzaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso fece tra voi per opera sua, come voi sapete bene –, consegnato a voi secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, voi, per mano di pagani, l’avete crocifisso e l’avete ucciso. Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere” per poi aggiungere in Atti 2, 33-38: “‘Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso’”. Ma viene subito riferito che gli ebrei astanti: “All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: ‘Che cosa dobbiamo fare, fratelli?’. E Pietro disse loro: “Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo”.
Dunque, l’accusa formulata da Pietro era di aver peccato con l’ingiunzione a chiedere il perdono, alla conversione. Non c’è alcuna allusione ad un problema di tipo razziale ma neanche ad un problema di “deicidio” dato che la consegna di Cristo ai pagani da parte degli ebrei, per farlo crocifiggere, avviene per adempimento di un disegno salvifico di Dio, come più tardi avrebbe rimarcato anche Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani laddove è detto che la “colpa ebraica” era prevista nel piano salvifico affinché i gentili potessero entrare, in Cristo, nell’Alleanza di Abramo dalla quale momentaneamente gli ebrei sono stati “sospesi”, ma non dimenticati, in attesa della Parusia.
Il punto centrale della prima predicazione apostolica, che inizialmente era rivolta proprio agli ebrei, sta tutto, certamente, nella grave responsabilità assunta con la consegna e la crocifissione di Cristo ma, al tempo stesso – e qui è l’essenza della questione! –, nella possibilità di espiare tale colpa in quanto dovuta, negli stessi disegni divini, ad ignoranza, dunque ad inconsapevolezza, da parte ebraica sulla identità del Crocifisso. Viene pertanto sin da subito affermata una chiara esimente dalla colpa, che oggettivamente comunque sussiste ma senza dolo, senza elemento di volontarietà consapevole, sicché non è consentito parlare di accusa di “deicidio” nei termini discriminatori poi prevalsi in una certa pubblicistica, sia cristiana che anticristiana.
Ne abbiamo riprova in Atti 3,12-16 laddove viene riportato l’altro discorso di Pietro agli ebrei, subito dopo la guarigione di un paralitico attribuita dal popolo presente allo stesso Apostolo e che invece lui dichiara essere il segno della Gloria di Cristo Signore: “Pietro disse al popolo: ‘Uomini d’Israele, perché vi meravigliate di questo e continuate a fissarci come se per nostro potere e nostra pietà avessimo fatto camminare quest’uomo? Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, avete chiesto che vi fosse graziato un assassino e avete ucciso l’autore della vita. Ma Dio l’ha risuscitato dai morti e di questo noi siamo testimoni. Proprio per la fede riposta in lui il nome di Gesù ha dato vigore a quest’uomo che voi vedete e conoscete; la fede in lui ha dato a quest’uomo la perfetta guarigione alla presenza di tutti voi. Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, così come i vostri capi; Dio però ha adempiuto così ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo sarebbe morto. Pentitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati e così possano giungere i tempi della consolazione da parte del Signore ed egli mandi quello che vi aveva destinato come Messia, cioè Gesù. Egli dev’esser accolto in cielo fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose, come ha detto Dio fin dall’antichità, per bocca dei suoi santi profeti’”.
Nella Chiesa odierna, dopo la svolta del Vaticano II, ci si vergogna della cosiddetta “teologia della sostituzione” che postula il sub-ingresso dei pagani agli ebrei quali detentori del Regno di Dio. Una vergogna in realtà senza sostanziali motivazioni, per quanto diremo tra breve, ma dovuta, comprensibilmente, all’incapacità di resistenza alle pressioni seguenti l’evento del genocidio nazista allorché, su richiesta esplicita da parte del mondo ebraico, in particolare nella persona di Jules Isaac a Papa Giovanni XXIII, si tolse dalla liturgia della Settimana Santa l’espressione “pro perfidis judaeis” – che, tuttavia, tradotto dal latino significava soltanto “per gli ebrei increduli”, dunque una preghiera in loro favore, invocante la loro conversione, che, però, alla lunga nel tempo era stata mal recepita quale un marchio di colpa – e si avviò, per l’attività del Pontifico Istituto Biblico, diretto all’epoca dal cardinale Augustin Bea, ad una revisione di quella tradizionale teologia da cui conseguì l’attuale teologia delle “alleanze parallele”.
Secondo questa nuova teologia, quanto meno nelle sue formulazioni più radicali e ambigue, l’Alleanza di Dio con gli ebrei anziché essere soltanto il Patto preliminare poi adempiuto dal Patto definitivo – e quindi in tal senso, come era implicito nella teologia tradizionale, patto non revocato ma soltanto perché posto a suo tempo in vista di quello nuovo e definitivo, giacché il contratto preliminare resta a sostegno del contratto definitivo anche quando quest’ultimo interviene – è diventata una “Alleanza non revocata” di per sé, indipendentemente dalla Nuova Alleanza e che, pertanto, resta valida, in sé e non più in funzione di quella Nuova, anche dopo Cristo. Ciò postula, con tutta evidenza, che gli ebrei non avrebbero bisogno dell’evento cristiano essendo portatori di una salvezza loro propria e specifica, una salvezza riservata esclusivamente ad essi mentre quella di Cristo sarebbe rivolta solo ai gentili. Il che però contrasta con il dato storico. Infatti inizialmente gli Apostoli erano convinti di doversi rivolgere soltanto agli ebrei. Questo approccio implicava l’originaria convinzione, mantenuta nei secoli dalla Chiesa, che anche gli ebrei devono passare per Cristo in ordine alla salvezza. Ci vollero precisi segni da parte di Dio ed una accesa discussione nell’ambito del primo concilio della storia della Chiesa, quello di Gerusalemme, affinché gli Apostoli si convincessero che la predicazione dovesse essere universalmente rivolta a tutti, non solo agli ebrei, e che chiunque, a qualunque popolo appartenga, può essere cristiano ed accedere alla salvezza senza più far ricorso ai riti ed alle pratiche ebraiche. Questa presa di consapevolezza pose fine al “giudeocristianesimo” iniziale per aprire la via all’autonomia definitiva della nuova fede cristiana la quale, senza per questo ripudiare la sua origine ebraica, prendeva le distanze da ciò che già all’epoca iniziava ad apparire come qualcosa di estremamente diverso dall’ebraismo tradizionale e veterotestamentario e che sarebbe sfociato nel giudaismo post-biblico. Il quale si basa più su una presunta “Torah orale e segreta” rivelata a Mosè, quindi sul Talmud, che sulla Rivelazione biblica come interpretata dalla stessa sinagoga fino al I secolo. Questa divaricazione dovrebbe far riflettere, a fondo, tutti coloro che in ambito culturale e, soprattutto, politico parlavano, indistintamente, di “radici giudaico-cristiane” dell’Occidente.
La nuova teologia post-conciliare delle “Alleanze parallele”, di cui abbiamo detto, comporta però, a ben vedere, più problemi di quanti sono quelli antichi che essa ha inteso, illusoriamente, superare. Cristianamente, infatti, nessuno si salva se non per mezzo del Sacrificio della Croce. Che tale salvezza possa avvenire per vie misteriose, ossia anche senza una formale conversione, è cosa ammessa anche dalla teologia antica, la quale pur asserendo che “extra Ecclesia nulla salus” non ha mai preteso di stabilire dove sono stati tracciati i confini della Chiesa. Attenzione: confini visibili – ossia quelli della Chiesa corporea e concreta e non quelli della evanescente Chiesa “invisibile” delle varie eresie – dato che la supposta e probabile esistenza di uomini giusti e in pectore, inconsapevolmente, cristiani impedisce di tracciare una linea netta. Solo Dio conosce dove sono i confini effettivi della Sua Chiesa. Pertanto anche un ebreo, anche un islamico, qualsiasi uomo, si salva, nella prospettiva cristiana, solo in Cristo e per mezzo di Cristo. Non può darsi, cioè, una alleanza parallela o una via di salvezza che prescinda, benché per vie ignote, da Cristo.
Ora, si dà il caso che la ripudiata “teologia della sostituzione” è paolina. Essa trova il suo fondamento in quei passi della Lettera ai Romani, 11 e seguenti, nei quali l’apostolo afferma la “sostituzione-innesto” dei gentili nell’Olivo Santo dell’Alleanza al posto degli ebrei temporaneamente disinnestati. Negli stessi passi, però, Paolo afferma anche l’irrevocabilità dei doni ad Israele sicché egli sottolinea che la caduta degli ebrei era necessaria per consentire, a loro gelosia, la salvezza dei pagani. Motivo per cui il futuro, escatologico, reinnesto degli ebrei nell’Olivo Santo sarà una resurrezione dai morti. Paolo – si faccia attenzione! – non stava inventando nulla di suo perché egli basava la propria teologia sulle parole ammonitrici di Cristo in Matteo 21,42-43 (Matteo predicava il suo Vangelo, non a caso, proprio agli ebrei): “E Gesù disse loro: ‘Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori hanno scartata / è diventata testata d’angolo; / dal Signore è stato fatto questo/ ed è mirabile agli occhi nostri? Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”.
Sul piano teologico, nulla più di questo! Nessuna accusa razziale, nessuna accusa di colpa assoluta e irrimediabile tale da necessitare discriminazioni e persecuzioni. Anzi la “colpa” ebraica della consegna di Cristo alla Croce altro non è, in effetti, che una “colpa” dell’uomo in quanto tale, di tutta l’umanità, pur essendo stati essi, nel Disegno di Dio, gli artefici materiali. Lo stesso san Paolo, mentre spiegava il mistero della caduta degli ebrei, ammoniva i cristiani provenienti dal paganesimo affinché fossero sempre misericordiosi con gli ebrei, la cui caduta ha loro permesso di accedere alla salvezza. E se, poi, non sempre i cristiani sono stati misericordiosi con gli ebrei, questa è altra questione attinente alla debolezza della natura umana.
Per concludere
L’antisemitismo razziale nasce al crocevia tra illuminismo settecentesco – Voltaire, ad esempio, fu autore di giudizi atroci sugli ebrei che egli formulò a causa dell’odio profondo che nutriva per il suo “nemico personale”, ossia Gesù Cristo che era ebreo –, romanticismo völkisch e darwinismo ottocenteschi, con fondamentali apporti teosofici e gnostico-occultistici. Fu in questo clima che vennero poste le radici del pangermanesimo e del nazionalsocialismo. Come ci hanno spiegato George Mosse e Giorgio Galli. Anche storici israeliti di indiscussa autorità e valore professionale, come ad esempio Anna Foa, concordano sul carattere non storiografico ma ideologico di quegli approcci ai problemi qui trattati che, facendo leva sugli occasionali intrecci circostanziali e le reciproche strumentalizzazioni indubbiamente registratesi, tendono a negare o sottovalutare la distinzione, netta e limpida, tra antigiudaismo teologico, giudeofobia socio-economica ed antisemitismo razziale.
Onde non fare di Alcide De Gasperi, per tornare all’occasione dalla quale siamo partiti, un “antisemita”, e con lui tanti altri tra cattolici, socialisti, laici di diversa estrazione, è giunto il tempo nel quale è necessario iniziare a disincantare il paradigma dominante, quella religione civile dell’Occidente, ormai palesemente funzionale alla giustificazione della politica occidentale verso il resto del mondo, che ha fatto dell’“antisemitismo”, tutto includendovi senza distinzioni, la chiave per una lettura colpevolistica dell’intera storia del genere umano o quanto meno della storia dell’Europa e dell’Occidente e che, a ben vedere, è una declinazione – anche se l’ha anticipata di decenni – della cancel culture, di matrice francofortese, nata e cresciuta nelle Università statunitensi.
[1] Si veda il forum Termometro Politico reperibile al link https://forum.termometropolitico.it/archive/index.php/t-285923.html . Anche il comunicato n. 28/2004 del Centro Studi Federici in www.centrostudifederici.org. Entrambi i siti riportano la notizia apparsa su L’Adige del 13 febbraio 2004.
[2] Cfr. Fabrizio Rasera, Il nemico lontano. Cinque schede sull’antisemitismo nel Trentino del primo ’900, in AA.VV., Die Geschichte der Juden in Tirol, “Sturzflüge”, Bolzano 1986.
[3] Cfr. Giano Accame, Ezra Pound economista. Contro l’usura, Settimo Sigillo, Roma, 1995, pp. 96-98.
[4] Cfr. Karl Marx, Friedrich Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1966, pp. 104-106.