Minima Cardiniana 477/3

Domenica 21 luglio 2024, San Lorenzo da Brindisi

IL SONNO DELLA LIBERTÀ CREA MOSTRI
LE ÉLITES MANTENGONO IL POTERE GRAZIE ALL’ISTERIA ANTIFASCISTA
INTERVISTA DI CARLO CAMBI A FRANCO CARDINI

Riportiamo di seguito la versione integrale dell’intervista di Carlo Cambi a Franco Cardini pubblicata, in versione ridotta, dal quotidiano La Verità il 15 luglio scorso.

Professore partiamo inevitabilmente dalle elezioni francesi. In Italia qualcuno ha scritto che è una seconda rivoluzione. Qual è il suo giudizio? È davvero un popolo che si rende protagonista?
Non scherziamo. Il “popolo” francese sta facendo un po’ quel che fanno tutti gli altri in Europa (e non parliamo degli USA, dove le cose vanno molto peggio). Lungi dall’essere protagonista, e non parliamo dell’apparente e del provvisoria per non dir eccezionale “inversione di tendenza” rispetto alla progressiva tendenza all’assenteismo, il popolo francese ha dimostrato una volta di più di essere oggetto anziché soggetto di storia: hanno prevalso l’assordante battage “antifascista”, l’isteria della nation en danger di giacobina memoria, lo sbarramento mediatico al servizio di un potere ancora nelle mani di una élite che continua ad appoggiarsi al composito schieramento “moderato”.

Un tema che si è affacciato nelle lezioni francesi e che però riguarda tutta l’Europa è quello del voto degli immigrati di religione islamica. Siamo vicini alla sostituzione etnica?
Ma quando mai? Parliamoci chiaro. Qui il problema è semmai quello dei cittadini francesi di religione islamica: e la Francia dovrebbe ricordarsi più speso di essere e di essere stata – almeno nelle intenzioni – il modello e la bandiera dei paesi laici, vale a dire rispettosi della libertà religiosa a trecentosessanta gradi garantita dalla legge. Ma negli ultimi anni se n’è dimenticata: e la presenza di un “pericolo fondamentalista-terrorista” (reale e da combattere col massimo rigore, ma contenibile) è servita purtroppo come alibi per provvedimenti laicisti, vale a dire di tipo repressivo e persecutorio nei confronti non solo degli immigrati, bensì dei cittadini di religione musulmana in generale; il che è illegale e anticostituzionale. Chi conosce la Francia sa bene che la maggioranza di tali cittadini è lontanissima da fanatismi e da estremismi di sorta: episodi molto gravi, talora orribili, ma del tutto sporadici non cancellano il fatto che i francesi musulmani sono a schiacciante maggioranza leali cittadini e buoni lavoratori. Vorrei vedere che cosa farebbe il paese senza di loro. E poi l’Islam non ha una “Chiesa”, vale a dire una struttura istituzionale religiosa di tipo normativo; ed è diffuso in moltissimi paesi, non è affatto una “etnìa”. Quindi semmai non di “sostituzione etnica”, bensì di “sostituzione religiosa” si dovrebbe parlare. E siamo lontano anche da ciò: se non altro perché anche l’Islam, come il cristianesimo, è una religione in crisi.

È pur vero che l’Islam ha storicamente cercato di conquistare l’Occidente o con le armi o infiltrandosi. Siamo dentro questo secondo processo?
Al contrario. L’espansione islamica dei secoli VII-X c’è senza dubbio stata, ed ha dato luogo a una nuova sintesi culturale (dal Maghreb alla Muraglia cinese, dall’Atlantico galiziano-lusitano al Sudan) che in seguito è stata ridimensionata dai flussi e riflussi delle vicende politico-demografiche euratlanticafroasiatiche. Questa sintesi culturale è stata trasmessa anche al mondo eurocristiano ed ha dato luogo a una straordinaria stagione scientifica e culturale che ha ripreso in pieno la grande civiltà ellenistica e ha preluso alla Modernità. Dall’astronomia alla matematica alla medicina, la nascente Modernità ha parlato arabo: le università medievali ne sono figlie. Quanto al povero Occidente in costante pericolo, e lasciando perdere le solite crociate, ha presente il fenomeno schiavistico-colonialistico? Siamo ancora dentro a questo processo, avviato dagli europei nel XVI secolo: ne è scaturita la globalizzazione. I postumi di questo mondo si vedono ancora: basti pensare allo sfruttamento sistematico dell’Africa occidentale da parte dei francesi, di recente tornato alla ribalta anche grazie alla coraggiosa denunzia di Giorgia Meloni.

Tra tre giorni l’assemblea di Strasburgo voterà con tutta probabilità la nuova commissione europea con Ursula von der Leyen di nuovo a capo. Ma che Europa è questa? È l’Europa delle élites burocratiche o esiste un popolo europeo?
Se esistesse a tutt’oggi un “popolo europeo”, sarebbe l’ora che battesse un colpo. La generale e diffusa insoddisfazione per quanto è accaduto ai vertici dell’ameba convenzionalmente indicata con la solenne etichetta di “Unione Europea” è motivata dal carattere ambiguo della formazione del nuovo Parlamento Europeo. Vedremo che cosa succederà tra 16 e 19 prossimi, all’atto della prima sessione dell’Assemblea. Certo è comunque che prima o poi, in un modo o nell’altro, quest’Unione Europea – che tale non è – naufragherà: e sarà sostituita o dal caos o (come non oso sperare, ma vorrei con tutte le forze) da una istituzionalmente autentica unità politica; che, tenuto conto delle differenze esistenti all’interno dell’ “arcipelago europeo” e della sua lunga, gloriosa ma tormentata storia, dovrà valorizzare le “differenze” (Vive la différence) e dirigersi una buona volta verso una soluzione unitaria NON federalistica – ad essa inadatta – BENSÌ “confederale”: un’unione non “all’americana”, bensì “alla svizzera”, con una cessione di sovranità nazionale negli stretti limiti dell’indispensabile e la massima libertà possibile sul piano delle dinamiche nazionali e popolari, sociali e culturali. Finalmente, una vera Patria Europea. Richiamo l’attenzione al riguardo su un bel libro di Mark Leonard, che ha ormai vent’anni e che ha avuto un successo pour cause inferiore al suo merito: Why Europe Will Run the 21st Century (London, Fourth Estate, 2005).

Veniamo ad una questione che lei come storico ha più volte affrontato: esiste davvero un’identità europea e se sì come si manifesta? Non crede che movimenti come quello dei “patrioti” animato da Viktor Orban trovi spazio proprio nella mancata affermazione dell’identità europea?
L’identità europea si manifesta nello stesso tessuto della sua cultura: pluralista, poliglotta, ma solidissimamente ancorato nelle sue radici cristiane ed ellenistico-romane, indispensabili per comprendere la stessa genesi dei suoi numerosi, preziosi apporti: il celtico, il germanico, lo slavo, il baltico, l’altaico, l’islamico arabico-afro-turco-balcanico. Ne è nata una civiltà composita ma altamente disposta alle successive sintesi: l’imperiale romano-bizantina (della quale è figlia la stessa Russia), l’umanistica, l’illuministico-romantica; e la koiné culturale elaborata fra V e XIX secolo, pur attraverso pagine dure come la conquista di America, Asia e Africa e il colonialismo, ha prodotto quella “civiltà occidentale” nella quale oggi, al di là delle tensioni politiche, il mondo intero si riconosce. Per questo l’Europa – col suo annesso mediterraneo – possiede una centralità che oggi lo stesso progetto One Belt, One Road, varato dalla Repubblica Cinese nel 2013, riconosce. I vari microneonazionalismi in questi tempi affiorati, compreso quello ungherese (e a fortiori italiano) dovranno riconoscersi in quest’Europa: l’Europa delle cattedrali, delle Università, dei trattati di Westfalia che nel 1648 posero fine alle guerre di religione nel nome della mutua inter christianos tolerantia, nel messaggio unitario e pacifico già lanciato da Lessing e ripreso da Kant. È tempo di metter fine al lungo conflitto fratricida inaugurato nel 1792 dal giacobinismo e aggravato dalle “paci ingiuste” del 1919 e del 1945. La tenaglia che serrava l’Europa fino dagli sciagurati patti Roosevelt-Hitler di Yalta ha già perduto una ganascia con la fine dell’URSS, nel 1991; è ora che perda anche la seconda, la decrepita egemonia statunitense sul mondo. Una volta liberata, l’Europa unita spiccherà il volo: il pianeta intero ha bisogno della sua forza arbitrale e mediatrice.

Il massimo riconoscimento concesso dall’Ue è il premio Carlo Magno, quasi che l’Europa coincidesse con la cultura franco germanica. Non è questa già una manifestazione di suprematismo nei confronti della cultura greco-latina?
Certo: nelle intenzioni. Ma se ai fondamenti dell’era carolingia si toglie quella cultura, che cosa resta a Carlo Magno? Solo i mustacchi franchi.

È il caso – anche di fronte al manifestarsi di un antisemitismo crescente – di riaprire il dibattito sulle radici giudaico-cristiane dell’Europa?
È il caso d’intendersi bene. Le radici giudaico-cristiane non esistono. Esistono le radici cristiane, che hanno elaborato in maniera originale e storicamente (nonché religiosamente) irreversibile quell’ebraismo che sta senza dubbio alla base del cristianesimo – Dio, Elohim e Allah sono un’identica persona spirituale – e alle quali appunto l’ebraismo ha offerto il suo splendido, altissimo e profondissimo contributo. Ciò non toglie che il cristianesimo si sia nutrito anche di cultura ebraica (che cosa mai saremmo senza la Bibbia, senza Maimonide, senza Spinoza?) e che essa ne sia un ingrediente fondamentale. Ma non bisogna dimenticare anche il contributo sia pur polemico dell’antigiudaismo, che NON È sinonimo di antisemitismo (sostanzialmente deprecabile prodotto, quest’ultimo, dello scientismo moderno). Il giudeocristianesimo è altra cosa: agli inizi del cristianesimo, esso era difatti un fenomeno del tutto ebraico, com’è testimoniato dalla primitiva Chiesa di Gerusalemme. La comunità giudaico-cristiana prolungava, nella certezza che il Messia fosse identificabile in Gesù di Nazareth, le forme giudaiche di vita, di tradizione e di pensiero. La situazione mutò nel corso del I secolo d.C., con san Paolo che volse il suo apostolato principalmente ai pagani promuovendo l’abbandono della tradizione giudaico-cristiana. Comunità giudaico-cristiane rimasero comunque a lungo vive, con le loro sinagoghe, tra Palestina, Siria e Mesopotamia. L’archeologia ci ha restituito le reliquie di alcune di esse.

Che pensa della crisi israelo-palestinese e quale soluzione sarebbe possibile/auspicabile?
La crisi israelo-palestinese è un’evoluzione del flusso di popolamento dell’area palestinese da parte dei coloni ebrei sionisti provenienti soprattutto dall’Europa orientale nel corso del XIX secolo. I primi coloni erano stati accolti molto bene sia dalle autorità sultaniali ottomane, allora dominanti in Palestina, sia dagli stessi arabi. I problemi nacquero a partire soprattutto dal secondo decennio del XX secolo, principalmente a causa del malaugurato frantumarsi dell’impero ottomano, dalla scellerata “pace di Parigi” del 1919 e del malgoverno di francesi e inglesi ai quali furono affidati (con funziona “mandataria”) i territori arabo-siro-irakeni nati dalla frantumazione ottomana: per insipienza politica e per calcolo cinico, gli inglesi incoraggiarono in Palestina i nascenti nazionalismi sia ebraico (sfociato nella costituzione dello stato d’Israele) sia arabo. Il resto è storia che dovrebbe essere passabilmente nota a tutti. La soluzione “due popoli – due stati”, senza dubbio equa, appare a tutt’oggi impraticabile: i palestinesi sono in gran parte dispersi in una diaspora che si annunzia inarrestabile, il territorio concepito come area per l’insediamento di uno stato palestinese indipendente è largamente “mangiato” dai coloni israeliani e distrutto dall’esercito israeliano. Da decenni Israele non ottempera alle decisioni dell’ONU e la comunità internazionale appare politicamente e moralmente incapace di resistere all’arbitrio dei suoi governanti. Per il futuro immediato, appare molto probabile che si mantenga de facto un improponibile status quo, col risultato pratico dell’esercizio unilaterale da parte d’Israele di una “autorità mandataria” che nessuno gli ha esplicitamente attribuito, che non sarà mai formalmente autorizzata ma che durerà – come tutte le cose provvisorie – per un lungo, imprecisato periodo. L’ONU, come al solito, tacerà o si volterà dall’altra parte.

Lei da profondissimo studioso, da uomo di accademia, come giudica l’idea di boicottare il rapporto con le università israeliane?
Guardi, io sarei profondamente solidale al mantenersi dei rapporti sportivi, dato il loro altissimo significato etico e umanitario, al di sopra dei conflitti: le Olimpiadi andrebbero celebrate anche in caso di guerra mondiale. E vorrei che anche per tutto quel che attiene l’attività scientifica e artistica, quindi anche quella accademica, valesse una universale esenzione umanitaria dai conflitti (salvo beninteso quanto eventualmente toccasse strettamente l’aspetto militare della ricerca scientifica: anche se enuclearla dal contesto sarebbe nella pratica molto difficile). Quindi, sono nettamente contrario al boicottaggio delle università israeliane: come lo sono al boicottaggio di quelle russe, iraniane, cinesi e così via.

Veniamo ad un argomento che lei ha più volte affrontato con coraggio: la guerra di Ucraina. Quale soluzione è auspicabile e quale è – guardando alla storia – quella possibile?
La soluzione auspicabile è quella più volte pazientemente proposta dal presidente Putin e dal governo russo: l’apertura immediata, senza remore e senza sotterfugi, di un tavolo di trattative NON tra Russia e Ucraina BENSÌ tra Russia e il suo antagonista effettivo, l’Occidente egemonizzato dagli Stati Uniti d’America. Questi ultimi però, tramite il suo braccio armato (la NATO), hanno già risposto con molta chiarezza dichiarando che il percorso dell’Ucraina verso l’adesione alla Nato è “irreversibile”: è vero che tutti gli attuali membri devono essere d’accordo, e che ci sono probabilmente alcune riserve, da parte della Germania e degli stessi Stati Uniti, ad “affrettare il processo”. La situazione, dunque, a tutt’oggi sembra disperata, a meno che le elezioni negli USA non mutino radicalmente la prospettiva. La soluzione possibile è il franco riconoscimento della realtà: la penisola di Crimea è ormai parte integrante della Federazione Russa, come la storia dimostra dalla fine del XVIII secolo; gli oblast del Donbass potrebbero essere ricondotti alla loro situazione anteriore al 2022 mediante però una riforma istituzionale concordata tra Russia e Ucraina che tenesse conto della realtà storica ed etnica di quei dipartimenti oppure inquadrati in una nuova realtà istituzionale indipendente. Per tutto questo, è tassativo che gli ucraini si liberino del nefasto Zelensky e della soffocante egemonia USA-NATO.

Questa sinistra che invoca i diritti non è storicamente orfana della sua ideologia? E del pari non le pare che il dibattito politico sia immiserito dall’inseguire il giorno per giorno senza avere un’idea di società da proporre?
Senta: ormai la differenza sostanziale fra destra e sinistra, nel paese ufficiale, non la vedo più se non nella lotta a coltello per il potere accompagnata da un “dibattito” ai livelli della rissa da stadio, che non a caso qua e là tracima in parlamento. Destra e sinistra perseguono un analogo progetto sociopolitico, fumoso in sé ma eterodiretto da “padroni del vapore” che invece alcune idee chiare ce l’hanno: un progetto di distruzione di quel che resta dello stato sociale, condotto a colpi di una politica di privatizzazioni e di sistematica rapina dei poveri a favore dei ricchi. Quanto alla sinistra, quel che emerge è un partito “radicale di massa” incapace di uscire dalle prospettive individualiste, progressiste e permissivistiche che, sistematicamente adottate, risultano suicide per la società. Questo vale, come ho detto, per il “paese ufficiale”. Quello “reale” si esprime solo con la forma dell’assenteismo elettorale, che nelle intenzioni è teso a creare il vuoto attorno a chi si è impadronito delle istituzioni. Per il momento, tutto ciò sembra non avere esito. Badi che non siamo alla solita “maggioranza silenziosa” della quale si parlava già fin dagli Anni Settanta e che in fondo era tale in quanto solidale con chi aveva la maggioranza. Questa è una “maggioranza ostile”, che disprezza e ignora la politica delle élites ma la lascia spadroneggiare perché non sa, non può, non vuole individuare un catalizzatore. Ma proprio per questo siamo seduti su una carica esplosiva: manca solo il detonatore. La storia insegna (nella misura in cui è capace d’insegnare qualcosa) che in questi casi trovare un detonatore è cosa che può tardare, ma che inevitabilmente succede.

Lei che ha cercato le ragioni del mondo nella storia ha spaventato dall’intelligenza artificiale? Non teme il transumanesimo? Si potrebbe contrapporre a tutto questo un ficiniano rinascimento?
Temo il transumanesimo nella misura nella quale temo le infinite possibilità dell’essere umano nell’adottare soluzioni tanto idiote quanto rovinose ai problemi con i quali egli è chiamato a confrontarsi: ma di solito, dopo errori e magari orrori, una soluzione si trova. L’importante è mantenere ben chiaro il principio secondo il quale è l’intelligenza umana sempre e comunque la padrona del gioco: e sue, e di nessun altro, sono le responsabilità. Nel mio libro recente, La deriva dell’Occidente (Laterza), ho cercato di sottolineare come la ricerca di un equilibrio politico futuro possa caratterizzarsi come ricerca di un nuovo equilibrio, al di là della tentazione della “Volontà di Potenza”. Non so se tale equilibrio potrebbe essere definito come “nuovo Rinascimento”, ma potremmo anche stare al gioco di una definizione del genere. Tenendo presente che per il Ficino l’equilibrio cosmico era stabilito dalla Provvidenza e dall’assetto stellare, mentre per noi il centro di tutto è il recupero di una nuova coscienza etica e sociale in grado di far tacere il sordido e alla lunga distruttivo egoismo che ha caratterizzato la società moderna fondata sull’antropocentrismo, sull’utopia dell’individualismo assoluto, sulla “catena dei dannati” produzione-consumo-profitto e sull’assenza della possibilità di porre un limite alla propria Volontà di Potenza. Questi sono i quattro Cavalieri dell’Apocalisse scatenati fino dal XVI secolo con la Rivoluzione Occidentale che ha avviato la globalizzazione.