Minima Cardiniana 480/1

Domenica 22 settembre 2024, Santa Emerita, martire

EDITORIALE
DI NUOVO SU NEOFASCISMO E ANTIFASCISMO
Cari Amici, mi prendo la libertà di riproporVi il numero 395 dei MC, di due anni fa (per la precisione, domenica 9 ottobre 2022), nel quale ponevo un problema tornato di bruciante attualità in seguito a vari episodi (“adunate” di giovani neofascisti, cerimonie con saluti e bandiere) e a nuove polemiche.

FINALMENTE. DAL MONDO POLITICO DELLA REGIONE TOSCANA, UNA PAROLA CHIARA. MA FORSE UN PO’ SEMPLICISTICA. E SE PASSASSIMO, PIÙ UMILMENTE E CONCRETAMENTE, AI FATTI?
Il difficile momento politico che il nostro paese e il mondo intero stanno vivendo c’impegna tutti alla chiarezza. Non si può quindi non salutare con incondizionato assenso la decisione di Eugenio Giani, Presidente della Giunta Regionale Toscana, il quale ha impegnato tutti noi cittadini della regione a una ferma parola d’ordine, ch’è un impegno morale e politico: La Toscana è antifascista.
Ora, rimane solo un piccolo lavoro da fare. Un passo avanti sulla via della chiarificazione. Perché l’indicazione di Giani, netta e decisa, ha tuttavia un difetto. Non spiega che nel concreto che cosa voglia significare. Sembra chiarissima mentre manca, al contrario, di chiarezza e di concretezza.
Ammettiamo in effetti che ciascuno di noi voglia aderire all’antifascismo, se non si è fin qui posto il problema; o perfezionare il suo impegno in tal senso, se lo sente ancora debole e imperfetto. Che fare?
Per essere antifascisti basta seguire la Costituzione e osservare le leggi del nostro paese. Il guaio è che io non ho trovato, né nell’una né nelle altre, chiarimento alcuno né sulla natura e i caratteri, quindi sul significato del fascismo né su quelli dell’antifascismo. E allora permettetemi di ripetere il grande interrogativo di Vladimir Ilich Ulianov, Lenin, che penso si possa ritenere un antifascista doc: “Che fare?”.
La Costituzione in effetti è al riguardo sibillina. Non parla affatto né di fascismo, né di doveri di militanza antifascista. Si limita a emettere una disposizione “transitoria (quindi, fino a quando?) e finale (in che senso, visto che il secondo aggettivo sembrerebbe confliggere col primo?)”.
Proseguiamo e precisiamo il discorso. La XII disposizione “transitoria e finale” (sic: ?!) proibisce la ricostituzione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista: ed è palese che da allora il paese è vissuto da questo punto di vista in regime d’inadempienza costituzionale in quanto per tutto il XX secolo un partito neofascista c’era eccome – ed evidentemente faceva comodo a troppi, tant’è che veniva sì emarginato e a tratti perseguitato, ma continuava a vivere: al punto che Gianfranco Fini poteva proporre un “fascismo del Duemila”.
Il fatto è che le cose erano complesse. Intanto, il legislatore costituzionale aveva evidentemente la coda di paglia: sapeva bene difatti che proibire la costituzione di un partito lede profondamente un diritto di libertà di pensiero e di coscienza ed era costretto a proibirne la vita sì, ma solo transitoriamente e restando nel vago sia sui limiti cronologici die tale transitorietà, sia su quel che nel concreto si proibiva del fascismo. A questo ci hanno pensato poi altri dispositivi giuridici, a partire dalla celebre “legge Scelba”: che nella forma e perfino nella sostanza però si limitavano a colpire due oggetti: 1. L’uso di simboli e di gesti rituali connessi con il fascismo; 2. La pratica della violenza, considerata evidentemente il nucleo dell’ideologia e della prassi fasciste. La violenza però è un mezzo tattico di lotta politica; può costituire al massimo perfino una strategia e connessa addirittura con un atteggiamento ideologico-culturale “profondo”: ma di esso la legalità democratica può colpire gli esiti pratici e materiali, non l’eventuale sostanza concettuale ch’è un fatto di coscienza. In pratica: si può e si deve proibire l’uso della violenza (e per questo esistono i codici civile e penale, la magistratura, le istituzioni repressive e punitive legali).
Ma bisogna fermarsi qui. Il fascismo aveva un suo bagaglio ideologico-culturale, sia pure da più punti di vista esile e contraddittorio. È discutibile (ed effettivamente oggetto di discussione) che ad esso appartenessero originariamente e strutturalmente il razzismo e l’antisemitismo, veicolati dall’ideologia e dalla prassi nazionalsocialiste. Ma il nazionalsocialismo era ed è identificabile tout court col fascismo? E si può parlare di un solo fascismo o di più “fascismi”? E la riduttiva equazione fascismo = nazismo è corretta e sostenibile?
Noi parliamo di fascismo e di neofascismo/i, ma continuiamo a vederli e a giudicarli dall’esterno: sono qualcosa, anche dall’esterno, nella loro sostanza politica ed etica? I neofascisti, è vero, sono sovente vocianti e maneschi: molti antifascisti, però, rifiutano in linea di principio il dialogo con essi e non fanno nulla per promuoverlo, magari obbligando i recalcitranti neofascisti ad esprimere in modo pacato, logico, sistematico le loro idee e le loro intenzioni.
Chi scrive ha militato nel partito neofascista MSI tra 1953 e 1963, cioè da quando era in età tra i 13 e i 23 anni, ricoprendo negli ultimi tempi anche incarichi direttivi a livello regionale e nazionale. In seguito, pur distaccandosi da quel mondo (fino dagli Anni Settanta mi sono dichiarato, e continuo a dichiararmi, semplicemente cattolico, socialista ed europeista: e non ho più militato in partiti politici) ho continuato a mantenere alcuni rapporti di conoscenza e di amicizia con alcuni esponenti di quel mondo, riscontrandone in molti casi tratti d’impegno politico serio e di vivacità intellettuale.
Alla luce di ciò, ho cercato di elaborare una “carta della compatibilità tra ideali democratici e persone o gruppi sedicenti o giudicabili come neofascisti”: non al fine di renderli “presentabili”, ma semplicemente per aiutare tanto loro quanto il variegato (e al suo interno discorde) mondo antifascista ad entrare in un corretto dialogo.
Ed ecco qua una sintesi di quanto emerge.
Tutti i partiti e i movimenti politici vengono definiti e descritti nei loro programmi e nei loro caratteri ideologici attraverso concetti e metodi che provengono dall’interno di ciascuno di essi. Si ricorre ad esempio ad Adam Smith e ad altri per parlare del liberalismo, a Marx per il socialismo, a Lenin o a Trotzky (e quindi a Gramsci o a Bordiga) per il comunismo. Ma lo stesso ordinariamente non accade per il fascismo: lì si evita ordinariamente di rifarsi ai testi per così dire normativi intrinseci e ci si affida ai pareri esterni, di solito avversari e per giunta pregiudizialmente malevoli. Ad esempio, anziché consultare i contenuti del famoso articolo redatto per l’Enciclopedia italiana da Benito Mussolini e da Giovanni Gentile per presentare, definire e descrivere il fascismo, si ricorre a testi ispirati a uno dei tanti antifascismi disponibili o all’uso generalizzatore e capzioso consistente nel proporre come “fascisti” certi deliri pseudoideologici diffusi da gruppi politicamente e culturalmente né qualificati né qualificabili.
Quando tra Anni Settanta e Anni Ottanta del secolo scorso il sistema comunista sovietico e l’ideologia comunista cominciarono a declinare e ad entrare in crisi, molti furono coloro che, pure riconoscendo in tutto o in parte il fallimento di entrambi, ribadirono comunque le loro convinzioni contrapponendole e un “comunismo reale” al quale non intendevano arrendersi. Perché tale diritto dovrebbe venir negato a chi si professi fascista pur respingendo gli errori e gli orrori del “fascismo reale” storico? Poi, senza dubbio, il modello di un eventuale fascismo “corretto” dovrebbe misurarsi con ogni forma di antifascismo: e su quella base si dovrebbe aprire il confronto.
Proclamarsi antifascisti senza precisare forme e caratteri di un qualunque antifascismo effettivo è impossibile; così come lo è il dirsi antifascisti senza aver chiari i caratteri specifici e inconfondibili del fascismo, quelli che gli sono propri ed esclusivi. La tirannia, la prepotenza, la prevaricazione, la violenza, il pregiudizio razzista o antidemocratico, il disprezzo delle minoranze, l’abuso di potere, la corruzione, il conformismo, possono per esempio ben essere caratteri d’una qualche versione della militanza o di tendenze fasciste: ma non le sono né caratteristiche, né esclusive.
Vogliamo essere ancora più chiari ed espliciti? Ecco qua. Secondo certi dotti politici e certi fini intellettuali, oggi almeno (lasciamo da parte il fascismo come fenomeno storico del passato), il fascismo alberga fondamentalmente in due Idealtypus: primo, l’anziano o quanto meno maturo cultore conformistico della disciplina esteriore e dell’ordine formale (“l’ordine per le strade”, lo definiva Georges Bernanos), più o meno nostalgico del regime e dei suoi pretesi fasti patriottardi, nutrito di semicultura conformistica e retorica, tendenzialmente misoneista e machista, sotto sotto un po’ razzista, decisamente anticomunista e tendenzialmente antimusulmano, cattolico formalista o laico disinteressato ai problemi religiosi; secondo, il giovinotto-giovinastro appena un po’ tinto di cultura punk-pop-skinhead, alquanto ignorante, indisciplinato e strafottente a scuola ma segreto cultore di un ordine gerarchico che lo veda come leader.
Non nego che tali caricature abbiano una loro abbastanza diffusa aderenza al vero. Ma alla luce delle mie dirette e indirette frequentazioni, delle mie letture e della mia adolescenziale-giovanile adesione a gruppi di provocatori-teppisti-picchiatori come “Giovane Europa” e “Ordine Nuovo” che, nella pratica, non erano alcuna di queste tre cose (erano semmai, spesso, dei “picchiati”: in quanto erano pochi e di solito provocati) mi sento di affermare che il sentimento psico-etico-sociale (se non tout court l’ideologia) del neofascista o del filofascista o del “fascista immaginario” medio si connota originalmente attraverso la compresenza di queste tre connotazioni (è necessario che siano tutte presenti, in equilibrio fra loro: altrimenti di fascismo non si può parlare):
1. Convinzione che una società armonicamente costituita si debba proporre attraverso un deciso sentimento comunitario risultante da un comune universo etico-religioso interclassistico ma solidale, animato da un forte senso di giustizia sociale al suo interno tale da incoraggiare la dimensione della collaborazione comunitaria ispirata e se necessario diretta dallo stato e da scoraggiare l’iniziativa privata se e quando vòlta all’accumulo parassitario e tale comunque da provocare fenomeni di concentrazione della ricchezza, forti sperequazioni e disagio nei ceti subalterni.
2. Rispetto delle differenze e delle gerarchie di valori che dialetticamente si creano nel leale confronto tra persone e gruppi di persone e collaborazione di ciascun cittadino al bene comune contribuendo secondo le sue possibilità e ricevendo un compenso in beni e in servizi commisurato al suo valore, ai suoi meriti, alle sue aspirazioni e alle sue necessità.
3. Aspirazione, se e quando se ne creano le condizioni storiche, a un miglioramento delle proprie condizioni personali e a una giusta affermazione, all’interno della compagine sociale e civile cui ciascuno appartiene, della dignità e degli interessi tanto personali quanto comunitari.
Non sfuggirà che nessuno di questi tre punti, l’insieme dei quali potrebbe configurare l’abbozzo di un possibile programma adottabile da chi volesse dichiararsi fascista e restar al tempo stesso fedele alla Costituzione repubblicana (in attesa che l’illiberale XII disposizione “transitoria e finale” della Costituzione, venga abolita-
Da notare che nessuno di questi punti riguarda temi o sentimenti razzisti o antisemiti né propone l’uso di violenze di sorta. In effetti, un possibile fascismo costituzionale dovrebbe esplicitamente rinunziare a due contenuti che, quanto meno nel programma dei Fasci del 1919, non esistevano e che si possono considerare concettualmente estranei al fascismo storico, nonostante gli eventi successivi all’incontro con il nazionalsocialismo. Un fascismo ipotizzato come costituzionale e libero di agire nell’Italia e nell’Europa democratica dovrebbe rinunziare a qualunque sia pur lontana suggestione tanto razzistica quanto liberticida.
Adottando una formula di sintesi, si può affermare che il “triangolo etico-funzionale” di un fascismo consapevole e legittimamente accettato in una società libera nelle sue istituzioni e nella sua vita istituzionale dovrebbe mirare: alla dignità del corpo sociale delineato al punto 1, e definibile come “patria”; a un equilibrio sociale non equivalente al collettivismo, ma tale da contemperare le libertà d’iniziativa e di proprietà non parassitarie con il conseguimento di un livello dignitoso di vita per ciascuno e con la lotta all’egoismo e alla miseria; alla vigilanza affinché i diritti storici e comunitari del proprio gruppo etnoculturale di pertinenza non vengano mai meno, l’imperialismo e il suprematismo vengano costantemente battuti e mai si creino tra i popoli sentimenti di superiorità o d’inferiorità ma tutte le genti collaborino all’equilibrio internazionale e al rispetto reciproco.
Sappiamo tutti che i fascismi storici non giunsero a garantire un equilibrio del genere: ma possiamo constatare come a ciò mirassero attraverso l’esame comparato dei documenti fondamentali da essi espressi: quali – atteniamoci all’Italia – la Carta di San Sepolcro del 23 marzo 1919, fondante dei Fasci; la Carta della Scuola del 1923; la Carta del Lavoro del 1928. La “Lettera ai Fratelli in Camicia Nera” redatta nel 1936 da sessanta esponenti comunisti mirava a un accordo di collaborazione sulla base di quei princìpi; e il fatto che l’inizio del dettato della Costituzione della Repubblica Italiana reciti “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro” sembra rifarsi a princìpi tra i quali non sono ultimi quelli enunziati dalla Carta del Carnaro e da quella di San Sepolcro. Vale la pena di richiamarsi al riguardo con energia al concetto gentiliano di “Umanesimo del Lavoro” e al fatto che moltissimi tra i Padri Costituenti della Repubblica avevano un passato dichiaratamente fascista, non sappiamo se e quanto integralmente rinnegato.
Scritti di pubblicistica connotati da un forte elemento propagandistico e contraddistinti da un’altrettanto forte volontà polemica (cito, attenendomi ai livelli di maggior dignità, il Mussolini Capobanda del Cazzullo) non possono quindi attestarsi su tesi quali quella del fascismo “invasione degli hyksos” né insistere sulla ricostruzione di crimini e di episodi di violenza (che certo vi furono e che vanno denunziati con fermezza) ignorando tuttavia o sistematicamente sottovalutando opere e realizzazioni segnalatamente del periodo 1923-1938. Per riprendere un’espressione ormai divenuta proverbiale, ebbene sì: Mussolini fece anche cose buone, specie nell’àmbito delle realizzazioni e delle istituzioni a carattere pubblico, civile e sociale. Ciò non diminuisce di un grammo le sue pesanti responsabilità né fa recedere di un centimetro l’entità dei suoi errori e dei suoi crimini (ma esiste uno statista antico o moderno del quale non si potrebbe dire identica cosa?).
Non c’illudiamo che politici e istituzioni rispondano a questa che non è affatto una provocazione ma che costituisce un invito alla riflessione e alla discussione. È ora di restituire sul serio lo stesso fascismo, pacatamente e definitivamente, a una discussione storica priva di apologismi e di demonizzazioni. Se non lo faremo, la possibilità che un fascismo ipertrofizzato e isterizzato possa divenire l’irrazionale rifugio di cittadini delusi, disorientati e indignati dinanzi allo spettacolo del fallimento di sedicenti democrazie fondate sulla mistificazione storica e sulla menzogna paraideologica si trasformerà in un pericolo sempre più presente per la nostra società. Il risultato delle recentissime elezioni dopo tre quarti di secolo caratterizzati da un caricaturale crescendo di antifascismo isterizzato è un segnale d’allarme che gli italiani non possono ignorare.