Domenica 29 settembre 2024, San Michele Arcangelo
EDITORIALE
L’ARCANGELO MICHELE. UN CONTRIBUTO
Alla cara memoria dell’amico e collega Giorgio Otranto che all’Arcangelo Michele, alla sua figura e al suo culto dedicò la sua vita di studioso e di animatore del Centro Studi Micaelici del Santuario Garganico.
Parlare dell’arcangelo Michele significa affrontare un còmpito immenso. Certo, le cose si possono fare a vari livelli. Ne ho scelto uno molto semplice: cominciare dal principio, e sdipanare così un discorso che dalla Bibbia ci conduca attraverso alcuni elementi di quella che forse un tempo si sarebbe chiamata “mitologia comparata” – o anche semplicemente storia delle religioni – a quel Michele venerato nella splendida basilica circondata dal mare tra Bretagna e Normandia, sul promontorio Garganico e in infiniti altri luoghi compreso in una non troppo nota grotta della valle del rio Curiasca; un culto che fino a qualche tempo fa non conoscevo e del quale naturalmente mi asterrò qui di parlare in attesa di approfondire l’argomento. Spero che queste note generali, e per più versi forzatamente generiche, possano esser utili a inquadrare il “caso” della spelonca di Coli in un più ampio contesto.
La funzione guerriera degli angeli nell’Antico Testamento è per qualche verso connaturata alla loro stessa funzione di malakoth, mulukh, angheloi, “messaggeri” e quindi esecutori della volontà divina. Resta aperta, nella teologia cristiana, la questione della natura angelica in quanto “sostanza separata”: sono difatti molto forti le tendenze a considerare l’angelo come la semplice espressione della potenza divina, quindi come un aspetto della presenza di Dio in quanto tale.
Questa lettura esegetica si presenta con particolare forza in rapporto con “l’Angelo del Signore”, nel quale si è a più riprese proposto di vedere Dio stesso. L’Angelo del Signore è quello che Abramo promette come scorta al servo ch’egli invia verso il suo paese d’origine per cercar una moglie al figlio Isacco[1]. Egli si manifesta anche in una fiamma di fuoco in mezzo al roveto sull’Oreb[2]. Sempre nell’Esodo, il Signore dice a Mosè: “Ecco, io mando un angelo davanti a te, perché ti guidi durante il cammino e ti conduca al luogo da me preparato. Rispetta la sua presenza e ascolta la sua voce, non ti ribellare a lui: egli non perdonerà i vostri misfatti, perché il mio Nome è in lui”[3].
Durante la marcia degli ebrei dall’Egitto alla Terra Promessa, “il Signore li precedeva di giorno in colonna di nube, e di notte in colonna di fuoco”[4]; “l’Angelo di Dio… andava innanzi al campo d’Israele”[5].
Il carattere guerriero dell’Angelo del Signore, vero e proprio combattente e guida degli ebrei durante l’Esodo, è confermato da un passo relativo alle vicende del tempo di re Ezechia, quando il suo ruolo di manifestazione della potenza di Dio sembra più chiaro: difatti “Quella notte stessa l’Angelo del Signore venne nel campo degli assiri e uccise centottantacinquemila uomini”[6]. Questo carattere oscuro, violento, notturno di alcune manifestazioni della potenza angelica (compresa quella del “distruttore” che percuote l’Egitto uccidendo i primogeniti, e che nel testo biblico s’identifica con Dio stesso)[7] ha fatto discutere i teologi fautori della tesi secondo la quale quella angelica sarebbe una “sostanza separata” – e non un aspetto della potenza divina, come farebbero pensare i nomi degli angeli che recano sempre come desinenza -el (e che significano pertanto “Annunzio di Dio”, “Medicina di Dio” e così via) per cercar di comprendere che tipo d’angelo sia quello in questo caso dinanzi a noi: angelo “buono” o angelo “cattivo”? Ad ogni modo, la natura ministeriale di qualunque tipo di angelo nei confronti di Dio resta confermata, per quanto il carattere di tale ministerialità permanga misterioso.
Parallelo alla funzione militare degli angeli, figura nella Bibbia il loro ruolo di guide e di protettori dei singoli popoli. Secondo taluni passi biblici, ogni nazione – al pari di ogni uomo – avrebbe il “suo” angelo. L’apparizione a Daniele dell’“Uomo vestito di indumenti di lino”[8] parla di un singolare e inquietante argomento: l’angelo che appare a Daniele in forma di uomo dall’aspetto gigantesco e mirabile riferisce di un “Principe del regno dei persiani” che gli si sarebbe opposto “per ventun giorni”, e che a sua volta viene presentato con ogni evidenza come un essere angelico; e di “Michele, uno dei miei primi Principi”, che “venne ad aiutarmi”[9]. Nel medesimo passo, si parla di Michele come “principe” d’Israele[10] e sicuro alleato dell’angelo che parla a Daniele in una lotta che parrebbe opporlo altresì al “Principe di Grecia”[11], cioè all’angelo che tutela le genti elleniche. Il testo di Daniele presenta, a quel che pare, in forme allegoriche le vicende delle lotte tra i popoli del Vicino Oriente tra VI e IV secolo, ma la sua cronologia è particolarmente complessa e confusa. Resta il fatto che, posti da canto i riferimenti agli “dèi delle Nazioni” che la Bibbia propone nei suoi testi elohistici, il testo sacro parla qui di “angeli delle nazioni”, che possono entrar anche in contrasto fra di loro pur restando tutti servitori di Dio. Il tema è fondamentale per lo sviluppo delle questioni angelologiche e demonologiche (poiché la demonologia è una parte dell’angelologia) nella cultura teologica cristiana.
Nella tradizione biblica e esegetica Michele è stato identificato con il capo delle Sabaoth Jahvè, gli eserciti del Signore, identificati d’altronde con le stelle del cielo[12]. Capo delle Sabaoth Jahvè e Angelo d’Israele, dunque, coinciderebbero: la tradizione posteriore ha mantenuto quest’identificazione, facendo di Michele il princeps caelestis militiae. Ecco come egli si presenta – senza dire il suo nome – a Giosuè: “Trovandosi Giosuè nei dintorni di Gerico, alzò gli occhi e vide dinanzi a sé un uomo in piedi, con in mano la spada sguainata. Giosuè, andatogli incontro, gli domandò: – Sei dei nostri o dei nemici? –. E quello: – No, io sono il Principe dell’esercito del Signore, e arrivo ora –. Giosuè cadde bocconi a terra, l’adorò e disse: – Che cosa comanda il mio Signore al suo servo? –. Il Principe dell’esercito del Signore disse a Giosuè: – Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo dove tu stai è sacro”[13]. Il comando del Principe dell’Esercito del Signore a Giosuè Š il medesimo dato a Mosè dinanzi al roveto ardente sull’Oreb.
Gli “eserciti celesti” sono le schiere angeliche che accompagnano “il Fedele, il Verace”, cioè il Christus-Dux dell’ultimo combattimento[14]. Tali eserciti “Lo accompagnano sopra cavalli bianchi, vestiti di bisso candido e puro”[15]. La scena apocalittica ha rappresentato il modello canonico per il tema, poi ampiamente sviluppato, della battaglia in cielo fra angeli fedeli e angeli ribelli. La tradizione angelologica cristiana insiste sugli elementi militari degli angeli, servendosene anche quale metafora dei loro caratteri psicomachiaci e psicagogici.
Il grande arcangelo Michele, difensore del Popolo di Dio e pertanto della Chiesa, è il primo a trovarsi sul nostro cammino. Primo anche perché, essendo il biblico angelo protettore d’Israele – “et ecce Michael, unus de Principibus primis, venit in adiutorium meum”[16] – egli entrò prima dei santi nella venerazione popolare non meno che nella liturgia e nell’iconografia.
La tipologia michelita è delle più tormentate dagli storici delle religioni. Ai nostri fini non serve tornare sulla dibattuta questione dei suoi rapporti con Mithra, che sposterebbero il discorso sull’angelologia e la mitologia indopersiane: basti dire che il culto di Michele, diffuso nell’Oriente cristiano attorno a una figura estremamente ricca di attributi – il dignitario della corte celeste, il giustiziere, il vincitore del demonio nello scontro apocalittico, lo psicopompo-psicagogo – ha certo punti di contatto con la tradizione mithraica, ermetica, apollinea, dionisiaca, osirica, ma che con nessuna di esse s’identifica più di quanto l’analogia o una certo innegabile ma tutto sommato non troppo rilevante reciproca, contingente attrazione, lo consentano. È semmai sulla tradizione scritturale che si basa gran parte della sua fortuna.
Nato di buon’ora nell’Oriente cristiano – sembra in Frigia fino dal III secolo – il culto michelita non fu originariamente guardato con sospetto, come invece lo fu quello dei santi, perché corrispondeva a una tradizione biblicamente attestata. Di là non tardò ad impiantarsi a Costantinopoli e quindi ad espandersi presto nella pars Occidentis dell’impero, seguendo in modo caratteristico certe linee di contatto fra le due aree culturali, e senza dubbio favorito dalla sua somiglianza rispetto a culti uranici e ctonii: il che gli consentiva di sostituirsi ad essi in certi santuari. È il caso della miracolosa apparizione di Michele sul Monte Gargano, che il Liber pontificalis ha fissato ai tempi di papa Gelasio, cioè tra 492 e 496 – anche se le incertezze cronologiche non mancano –, e che di là passò a esser conosciuta e venerata più tardi tra i longobardi: e non solo quelli del ducato beneventano[17]. All’effigie dell’arcangelo, recata in battaglia, il popolo longobardo usava manifestar devozione.
Si è ormai posta da canto la famosa tesi del Gothein che, sulle orme della Deutsche Mythologie di Jakob Grimm, scorgeva in Michele il santo nazionale longobardo, “travestimento” del dio Wotan; e si è corretta l’altra che, in relazione a questa, voleva iniziato ai primi del VII secolo il culto michelita sul Gargano (che risultava così postdatato di oltre un secolo) per più strettamente legarlo alle lotte fra greci e longobardi per il dominio di quei territori.
Ribadito che le origini del culto michelita in Occidente sono da ricercarsi nel suo passaggio attraverso zone di transizione comunque legate all’Oriente o soggette all’influenza di Bisanzio, non v’è certo bisogno di minimizzare la venerazione che l’arcangelo guerriero riceveva da parte dei longobardi e sostituirgli, come loro “santo nazionale”, per esempio Giovanni Battista. L’importante è ricordare che gran parte dell’Italia altomedievale – il meridione della penisola, l’intero litorale adriatico, entrambe le grandi isole, fino a metà del VII secolo il litorale ligure – era soggetta anche politicamente, ma soprattutto culturalmente, a Bisanzio; e che i confini fra Italia bizantina e Italia longobarda erano tutt’altro che impenetrabili, per spiegarsi questa diffusione del culto di Michele nel mondo longobardo senza distorcerne l’iter storico e senza scomodare il dio Wotan.
E del resto anche il provare, se fosse possibile farlo, che la devozione longobarda per l’arcangelo era precedente alla discesa in Italia, non servirebbe a niente. Da decenni prima del momento della discesa infatti i longobardi, cristianizzati da missionari orientali e aderenti al credo ariano, stavano in stretto contatto con Bisanzio: da decenni i loro guerrieri servivano come mercenari in quelle armate che si muovevano al grido di Kyrie eleeison e che avevano come stendardi le sante icone, come condottieri i santi militari[18]. V’era proprio bisogno dell’influsso ravennate e pugliese per diffondere un culto che riempiva gli altari e gli eserciti dell’Oriente? La pratica devota del pellegrinaggio ai Luoghi Santi, viva fin dal IV secolo in Occidente e particolarmente coltivata in determinati ambienti spirituali, quale l’iberno-celtico, spiega da sola come parecchi culti d’origine orientale – e ciò è valido per l’arcangelo Michele come per altri santi militari, né solo per quelli – abbiano potuto impiantarsi in Occidente anche in modi, luoghi e tempi che a prima vista sorprendono. Si aggiunga ch’è ormai stato provato come i longobardi Grimoaldo e Cuniperto si siano serviti del culto michelita quale fulcro della politica di conciliazione fra cattolici e ariani. E con ciò possiamo forse permetterci qui di non lasciarci coinvolgere dalle discussioni sul Michele-Mithra, sul Michele-Hermes, sul Michele-Wotan, pur non dissimulando il loro interesse in ordine soprattutto al legame tra gli aspetti guerrieri e quelli psicagogici dell’arcangelo, e non volendo affatto negare che (magari a livello inconscio o subconscio, comunque “imponderabile”) in più occasioni e in differenti situazioni acculturative il ricordo delle vecchie divinità marziali e funerarie, dei vecchi miti cosmogonici ed escatologici, abbia favorito il qualche modo il diffondersi del culto michelita nelle sue connessioni con aspetti eccezionali, atipici rispetto alla religione cristiana.
Tali aspetti meritano comunque un breve cenno prima di passar oltre. È soprattutto nell’area gallo-germanica che il triangolo Wotan-Hermes-Michele si è presentato all’attenzione di alcuni studiosi. L’identificazione Wotan-Hermes era già stata proposta da Tacito sulla base dei rapporti di entrambi con l’oltretomba: da parte sua il “Mercurio”-Lug alverniate è stato avvicinato a Michele sulla base peraltro di prove tutt’altro che stringenti, a carattere topografico-toponomastico (continuità di luoghi di culto passati dalle divinità pagane all’arcangelo cristiano), tipologico (somiglianza di tratti soprattutto per le cratofanie nonché per le mansioni di psicopompo e di condottiero celeste), oltreché sulla più o meno generica identità della data di certe feste.
Ma per quanto attiene la permanenza dei luoghi di culto, che nel caso di Michele sono in genere in posizione elevata e associati a una caverna, se è vero che l Chiesa può in qualche modo averne tollerato o addirittura incoraggiato il mantenimento, in altri casi è vero il contrario: per esempio il santuario del “Mercurio” gallico sulle vette del Puy-de-Dôme fu proclamato “regno di Satana”. È sembrato prova di continuità il culto di Michele installato in un antico luogo sacro a Wotan, sul Godesberg presso Bonn: e può anche esserci del vero, ma il santuario michelita non data a prima del XIII secolo.
Il discorso sulle somiglianze tipologiche, dato il carattere comparativistico che forzatamente sottintende, è fra i più rischiosi. La composita tipologia di Michele potrebbe avvicinarlo a molteplici divinità pagane senza che alcun paragone risultasse probante: egli ha tratti cratofanici e ctonii che lo fanno associare alle forze naturali scatenate (fuoco, folgore, tuono, tempesta, terremoto), taumaturgici (guarisce dalle malattie), psicagogici (aiuta nell’ora della morte, accoglie e guida le anime). Storicamente parlando, questo quadro composito e inquietante dovrebbe esser considerato tenendo presenti i contatti dell’angelologia biblico-cristiana con quella caldeo-persiana e indo-persiana, gran parte degli elementi delle quali passò alla gnosi neoplatonica. Non a caso il nome di Michele e degli altri angeli ricorre con frequenza nelle formule magiche. Le considerazioni della Rojdestvensky sulla fondamentale somiglianza di Michele con il suo diretto antagonista sono in fondo assai esatte. E quanto alla sua lotta con il demonio, non ci si può esimere dal ricondurla alla contesa dell’eroe con il mostro simbolo cosmologico del caos e associato a forze ctonie, una contesa viva in molteplici mitologie. Ma, ciò premesso, resta poco agevole e poco utile il compiere una serie di confronti che risulterebbero di perspicuità solo illusoria, corrispondendo in realtà a una ben profonda e radicale somiglianza degli archetipi mitici. Ugualmente rischiosi i confronti basati sui cicli festivi, quando si consideri l’estremamente frequente se non generale ricorrere di solennità legate ai momenti solstiziali o equinoziali oppure ai cicli agrari in culture anche molto lontane tra loro.
Stando così le cose, bisognerà accontentarsi – senza ridurre a ciò il problema – di considerare il culto michelita astraendo dai suoi rapporti con religioni pre- ed acristiane, e di sottolinearne l’evidente rapporto con l’Oriente: al punto ch’esso, almeno nell’Alto Medioevo, tendeva a sbiadirsi mano a mano che dall’Oriente ci si allontanava. Forte tra i longobardi, familiare ad un altro popolo germano-orientale fornito d’una ricca angelologia, i goti, esso non era presente che in modo sporadico nella Gallia merovingica. La spiritualità franca, in gran parte erede di quella gallo-romana, disponeva di un’angelologia assai povera, mentre sviluppò in cambio il culto nazionale dei martiri e delle loro reliquie. I concili merovingi ignoravano le feste dedicate agli angeli, anche se qualcuno di essi – come il Raguel del Libro di Enoch, dichiarato sin dal 745 apocrifo – aveva un ruolo nella pietas popolare. Gregorio di Tours ricorda Michele, ma – nella prospettiva del contatto tra vivi e defunti cara alla spiritualità celtica e di là passata, cristianizzandosi, alla gallo-franca – non come guerriero divino o signore delle forze della natura, bensì come angelo dei morti.
Pure, fu proprio in terra di Francia che il culto dell’arcangelo era destinato a fruttificare fino a divenire, dall’XI secolo in poi, culto cavalleresco per eccellenza[19]. Un lungo cammino doveva esser percorso, e fu l’età carolingia ad avviarlo. La prospettiva “neoveterotestamentaria” e per così dire “neoisraelitica” in cui l’impero di Carlomagno intendeva presentarsi, favoriva da sola, almeno in parte, una rinnovata considerazione per l’angelo d’Israele, chiamato adesso a proteggere il nuovo Israele, l’impero franco. Lo spirito d’emulazione rispetto all’impero bizantino pot‚ a sua volta giocare un certo ruolo nella rinascita della spiritualità michelita. Ma senza dubbio fu soprattutto importante il rapporto stabilito fra cultura carolingia e cultura iberno-celtica, con tutto il suo bagaglio di spiritualità e di cognizioni che a quest’ultima provenivano direttamente dall’Oriente, e che essa aveva gi… sparso nell’Inghilterra sassone. Fu appunto in quel felice momento di connubio tra potere politico franco e cultura iberno-sassone che Michele acquistò decisamente fama, e fama guerriera, in Occidente. Verso il 775 l’anglosassone Catvulfo consigliava il sovrano franco d’incoraggiare il culto di Michele insieme con quelli della Trinità, degli angeli, dei santi e soprattutto di san Pietro; Alcuino in alcune occasioni ostentava la sua devozione per l’arcangelo: e finalmente verso l’870 il monaco franco Bernardo, nel suo diario di pellegrinaggio, includeva il monte Gargano fra i più celebri santuari della Cristianità. Mentre a vari livelli devozionali si verificava questo rilancio del culto angelologico in genere e michelita in particolare, il campione della filosofia irlandese, Giovanni Scoto Eriugena, reimmetteva nel ciclo del pensiero occidentale la grande tradizione angelologica dello pseudo-Dionigi. Si era chiusa l’era dell’acculturazione: si avviava, anche in Occidente, quella dell’angelologia sistematica.
E veniamo dunque al “nostro” Michele, quello venerato nella penisola italica.
Il monte Gargano prende nome da un mandriano che in tempi ormai lontani, quando su quelle alture si veneravano gli antichi e mendaci dèi, pascolava una mandria di tori. Uno, il più bello, sfuggì al suo controllo: egli lo cercò a lungo, disperato perché amava quell’animale; lo trovò alla fine, in cima alla montagna, inginocchiato dinanzi a una grotta. Fuori di sé dall’ira, scoccò una freccia contro l’animale con l’intenzione di punirlo uccidendolo: ma il dardo invertì prodigiosamente la sua traiettoria e ferì in modo grave l’arciere, il quale in tal modo comprese di aver commesso una profanazione. Quel luogo era sacro.
Molto tempo più tardi, una battaglia oppose beneventani e sipontini, ch’erano ormai cristiani e fedeli sudditi dell’imperatore, ai napoletani che si erano invece perfidamente alleati ai goti pagani. I fedeli ebbero la meglio grazie all’intercessione dell’arcangelo guerriero; Michele apparve però ripetutamente al vescovo di Siponto, dopo quell’episodio, imponendogli di elevare in suo onore un santuario sulla montagna, proprio nella grotta adorata dal toro che Galgano aveva cercato di colpire con la sua freccia[20].
Chi sia questo Gargano, per la verità non lo sa nessuno. Certo doveva in qualche modo esser legato all’arcangelo Michele o costituire una sorta di suo predecessore o antagonista pagano, perché i pellegrini sanno che quando c’è una traccia di Gargano esce subito fuori Michele. Accade ad esempio così in Francia occidentale, dove molti luoghi rammentano un Gargan che doveva essere una specie di dio o meglio di demone di quelle genti pagane, che aveva l’aspetto di un immenso gigante e che fu sepolto sotto una grande montagna tra Normandia e Bretagna, in un luogo nel quale il mare ogni giorno si ritira per molte miglia lasciando scoperta una landa desolata nella quale pesci e molluschi agonizzano e su cui alcune ore dopo le onde salate tornano, traditrici, a far da padrone. Questo Mons Tumba sorge in un luogo terribile, non lontano da quella città d’Ys ch’era la più bella del mondo e che fu inghiottita dal mare esattamente come Sodoma fu distrutta dal fuoco, per la lussuria dei suoi abitanti i quali mai vollero ascoltare le ammonizioni di san Gwenolé e anzi si burlavano di lui. Quando le acque sono tranquille, i pescatori bretoni odono ancora sonare, sul fondo del mare, le campane d’Ys[21]. Ancora, presso l’antico Mons Tumba si stendono le spiagge dove ai tempi pagani si diceva che si radunassero gli spiriti dei morti in attesa d’una imbarcazione che li prendeva ogni notte a bordo e li trasportava lontano, verso le Isole Felici del mar occidentale. ma era turpe fantasia dei demoni che ingannavano quegli infelici: che, come si sa, l’oceano non è navigabile al di là delle Colonne d’Ercole a causa dei gorghi e dei mostri che vi si trovano.
In questo luogo veramente terribile Michele scelse di esser venerato, affinché più chiara apparisse a tutti l’onnipotenza divina. Egli scelse due picchi isolati lontani tra loro, sul pescoso adriatico l’uno e sul desolato oceano l’altro, e volle che lì le divinità pagane che li infestavano fossero cacciate per sempre e si rendesse invece omaggio a dio e a chi nel Suo santo Nome – Quis ut Deus? – aveva cacciato il serafino ribelle dal Paradiso.
Michele ama le alture. E il pellegrinaggio voluto da papa Urbano era nato senza dubbio anche sotto i suoi auspici, sotto la sua protezione. Era difatti su un picco alto, sottile, tagliente come una lama, che a Le Puy l’arcangelo si venerava in una cappella tanto piccola quanto splendida, Saint-Michel-l’Aguilhe: il luogo era a quanto pare anticamente sede d’un altro santuario dedicato a Lug-Hermes-Mercurio. E i pellegrini che dall’antico Mons Tumba, che la gente del luogo chiamava Mont-Saint-Michel-au-Péril-de-la-Mer, attraversavano l’Europa intera per venerare l’arcangelo sulla vetta del Gargano, a metà del loro percorso s’incontravano con un altro straordinario santuario micaelico, un colossale edificio sacro arditamente costruito su un’alta cima montana: San Michele detto “della Chiusa” in Val di Susa, sul monte detto Pirchiriano, in un luogo che domina quella strada del Moncenisio ben nota per essere una delle due – l’altra era quella del Gran San Bernardo – che permettevano ai pellegrini diretti a o provenienti da Roma di valicare le Alpi. E non va dimenticato che il fondatore del santuario di Val di Susa, nei primissimi anni di regno dell’imperatore Ottone III, era stato proprio un nobile alverniate, Ugo di Montboissier[22]. Il pellegrino abituato a riflettere su quel che vede e che venera può chiedersi quindi che tipo di legami vi siano tra il santuario micaelita piemontese e quello alverniate, tra quello bretone-normanno e quello pugliese; e tra tutti e quel Castel Sant’Angelo dove ai tempi di papa Gregorio il Grande l’arcangelo si era mostrato ai romani in atto di rinfoderare la spada dell’ira divina che aveva scatenato su di loro una feroce pestilenza.
Uno scoglio tra Normandia e Bretagna; un alto e sottile sprone roccioso nel centro della vulcanica Alvernia; una montagna alpina; un mithraeum trasformato in cappella per i pellegrini a Sutri, sulla Via Francigena tra Acquapendente e Roma, dove un affresco narra la leggenda di fondazione del santuario garganico; e infine appunto la montagna e la grotta dell’arcangelo alte sull’Adriatico pugliese. Sono tappe d’un itinerario micaelico, gemme d’una collana che collega fra loro alcuni tra i “luoghi alti” più prestigiosi d’Europa. La “Spelonca di Coli” è una di queste tappe, una di queste gemme preziose. Una catena di luce collega Normandia e Bretagna a Monte Gargano di Puglia. E forse mai come in questo momento di ferocia che troppi malvagi stanno cercando di travestire da Pace, da Libertà, da Giustizia, mentre preparano la guerra e la prevaricazione, c’è stato bisogno di ripetere le antiche parole
SANCTE MICHAEL ARCHANGELE, DEFENDE NOS IN PROELIO.
Franco Cardini
[1] Gen., 24,7.
[2] Ex., 3,2.
[3] Ex., 23,20-21.
[4] Ex., 13,21.
[5] Ex., 14,18.
[6] II Reg., 19, 35.
[7] Ex., 12, 23. Si ricordi che anche l’Apollo dei greci trae il suo nome da un termine indicante la distruzione; questo passo dell’Esodo, confrontato sia con II Reg., 19, 25, sia con II Sam, 24, 15-17, mostra che l’Angelo di Dio identificato con il Distruttore rinvia a episodi d’epidemia. Erodoto, Storie, II, 141, richiama una tradizione egizia riguardante la misteriosa distruzione dell’esercito assiro in una notte, collegandola con un’invasione di topi; d’altronde, anche in I Sam., 5, 9-6,5, i topi sono veicolo del bacillo della peste. L’episodio dell’esercito assiro distrutto riguarda la guerra scatenata dal re assiro Sennacherib contro la Gerusalemme di re Ezechia. Il rapporto fra l’ira divina, i topo, la distruzione e la peste richiama evidentemente la narrazione da cui prende avvìo l’Iliade, ma anche la leggenda del “Pifferaio di Hameln”.
[8] Dan.,10, 4-6.
[9] Dan., 10, 13.
[10] Dan., 10, 21.
[11] Dan., 10, 20.
[12] Neemia, 9, 6.
[13] Jos., 5, 13-15.
[14] Apoc., 19, 11-13.
[15] Apoc., 19, 14.
[16] Dan., 10, 13.
[17] Apparitio sancti Michaelis in monte Gargano, ed. G. Waitz, in M.G.H. Script.Rer.Lang. et It., Hannover 1878, pp.540-543.
[18] Cfr. C. Erdmann, Alle origini dell’idea di crociata, tr. it., Spoleto 1996.
[19] Cfr. F. Cardini, Alle radici della cavalleria medievale, n. ed., Firenze 2004.
[20] Quanto narrato è in stringata sintesi oggetto dell’Apparitio sancti Michaelis, databile secondo alcuni al VI, secondo altri al IX secolo. La questione storico-archeologico-filologica micaelico-garganiana è estremamente ingarbugliata, i suoi specialisti quanto mai litigiosi e noi eviteremo perciò di occuparcene. Sia comunque sufficiente il rinvio a G. Otranto, Siponto e il santuario micaelico del Gargano, in Idem, Italia meridionale e Puglia paleocristiane. Saggi storici, Bari 1991, pp. 187-202. Ma la bibliografia michelita è in continua espansione.
[21] Cfr. C. Guyot, La légende de la ville d’Ys d’après les anciens textes, Paris 1926.
[22] Si veda per questo G. Sergi, L’aristocrazia della preghiera, Roma 1994, p. 75 sgg.