Domenica 29 settembre 2024, San Michele Arcangelo
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VESTIVAMO ALLA GIOVANE-EUROPEA
di Luigi G. de Anna
Il 14 settembre a Milano Pierfranco Bruschi, come dicono gli Alpini, è andato avanti. Bruschi è stato, insieme a Claudio Orsi e Renato Cinquemani, l’animatore della sezione italiana di Giovane Europa, restando negli ultimi decenni fedele custode della sua memoria storica e ideologica.
Per una strana coincidenza, la notizia della sua dipartita mi è arrivata quando avevo appena cominciato a leggere un libro dedicato al fondatore di Giovane Europa, Jean Thiriart. Libro cui ora rimando come omaggio a Bruschi, che quelle idee mi fece conoscere.
Lo studio di Lorenzo Disogra, L’Europa come rivoluzione. Pensiero e azione di Jean Thiriart, è stato pubblicato dalle Edizioni all’insegna del Veltro nel 2020 (al modico costo di 15 euro, si può ordinare a edizioni@insegnadelveltro.it). Si tratta di uno studio che rielabora la tesi di laurea in Scienze politiche discussa all’università di Parma, dandole un taglio meno accademico e più politologico. La Prefazione è di Franco Cardini e l’Appendice di Claudio Mutti, che integrano perfettamente quanto scrive il giovane ricercatore. Il saggio di Cardini non è soltanto un sentito amarcord degli anni e delle persone che lo videro guidare ideologicamente la sezione fiorentina di GE, ma, come vedremo, una indispensabile chiave di lettura del pensiero e dall’azione di Thiriart, mentre quello di Mutti è una ricostruzione non solo della biografia thiriartiana, ma anche dell’esperienza italiana del movimento, al quale, lo dico subito con orgoglio, ho appartenuto.
Jean Thiriart nasce a Bruxelles il 22 marzo del 1922. Da giovane milita in organizzazioni di sinistra antifasciste, per passare poi, con altri nazionalbolscevichi, agli Amis du Grand Reich Allemand. Adesione che gli costerà una condanna a morte in contumacia e alcuni anni di carcere nel dopoguerra.
L’itinerario politico e ideologico di Thiriart, personaggio caduto nell’oblio dopo la sua morte nel 1992, è stato solo in anni recenti studiato grazie soprattutto a ricercatori di area francofona. In Italia alcuni suoi importanti scritti sono stati pubblicati da Claudio Mutti, ma non avevamo un lavoro esaustivo e documentato, come si nota dalla bibliografia riportata in appendice, da cui comunque, stranamente, manca di Giovanni Tarantino, Da Giovane Europa ai Campi Hobbit, Controcorrente, Napoli 2011.
La sua biografia, che per brevità non possiamo ripercorrere, rimandando a Yannick Sauveur, Qui suis-je? Thiriart, Pardès, Grez-sur-Loing 2016, per molti versi ricorda quella di altri che hanno cercato di conciliare l’estrema destra con l’estrema sinistra, categorie che però il Belga non amava fossero riferite a lui. Della destra rifiutava il servilismo nutrito nei confronti degli USA dai “piccoli nazionalisti imbecilli” e alla sinistra rinfacciava il tradimento dell’idea rivoluzionaria.
In realtà Thiriart era al di là della destra e della sinistra, troppo al di là per i suoi tempi, dominati ideologicamente dallo spartiacque comunismo/anticomunismo. Come ricorda Disogra, negli anni Sessanta Thiriart era troppo europeista per i nazionalisti, troppo comunista per i fascisti e troppo fascista per i comunisti.
Thiriart era secondo Sauveur un “rivoluzionario inclassificabile”, mentre per Claudio Mutti era un “geopolitico militante”. Quello che resta di lui è la componente evidenziata da Mutti, direttore della rivista Eurasia, cioè l’avere compreso prima di altri e prima, purtroppo, che i tempi fossero maturi, la dimensione politologica che ne rende attuale oggi il pensiero, mentre l’aspirazione rivoluzionaria, nella società europea odierna, non ha alcuna possibilità di affermazione.
Thiriart, sintetizza Disogra, credeva in una Europa unita, sovrana, e indipendente, che, aggiungiamo, doveva nascere dalle ceneri dell’atlantismo e del comunismo sovietico.
Questo scopo finale cui mirava l’azione giovane-europea è il nucleo della prefazione cardiniana; è il collante che in Italia teneva unite persone di diversa provenienza politica e ideologica. In sintesi si voleva una Europa unita da una capo all’altro del continente (i limiti geografici variarono nel tempo col cambiare della situazione politica), sovrana in quanto libera dalla servitù atlantico-statunitense, e indipendente da sistemi ideologici come quello comunista che non erano proiettati nel futuro, ma restavano legati al passato.
Cardini ha da tempo completato, anche se non espressamente in chiave thiriartiana, l’esame del falso mito di un “occidente” civilizzatore. Aggiungiamo che l’analisi di Cardini è prettamente storica o storico-culturale, mentre quella di Thiriart è politologica. Questo risulta evidente dalla lettura della Prefazione di Cardini (come da altri suoi scritti memorialistici in cui ricorda l’esperienza giovanile) e dal testo di Disogra. Dei libri che Cardini cita come fonte del suo europeismo non c’è però quasi traccia nella biblioteca ideale di Thiriart.
Non c’è neppure traccia del pensiero tradizionalista e cattolico (i vari de Maistre, de Bonald, Donoso Cortés citati nella Prefazione) cui Cardini si ispirava già nei primi anni sessanta, dato che Thiriart si dichiara materialista e giacobino.
Fu dunque una contraddizione il nostro primo incontro nel 1966 con Thiriart a Firenze? Un incontro cui partecipammo noi del gruppo storico (non mi piacciono gli anonimati, ecco dunque i nomi di quei fiorentini, che scrivo sapendo del loro orgoglio di essere appartenuti a GE o di esserne stati simpatizzanti: Marco Barsacchi, Claudio Tesorieri, Sergio Raveggi, Francesco Ruocco, Guglielmo Francois, Amerino Griffini, Francesco Petrone, Alfio Krancic, Alfonso Lagi, Massimo Marletta, Alessandro Loretti, Gerd Hertel, Sergio Papalia, Gianni Salis, e ne cito solo alcuni). Eravamo guidati da quello che era il nostro “maestro” di vita e di ideologia: Attilio Mordini, un pensatore tradizionalista cattolico che purtroppo scomparirà per i postumi di una tubercolosi contratta in un carcere “antifascista” quello stesso 1966.
Thiriart venne a Firenze con un minibus su cui viaggiavano altri dirigenti, tutti di diversa nazionalità, e questo di per sé diceva molto sulla nuova organizzazione. L’incontro fu molto cordiale; ricavammo un’ottima impressione di quello che stava diventando il nostro leader politico. Di lui Mordini, col suo fare fiorentino, disse che ne ammirava anche gli orecchi, alquanto primeggianti, simbolo della saggezza orientale rappresentata nell’iconografia buddhista.
Noi eravamo tutti, o quasi tutti, ideologicamente cresciuti nel MSI o nelle sue organizzazioni giovanili, ma con forti coloriture di cattolicesimo tradizionalista, dovute appunto a Mordini. Come potevamo quindi armonizzarci con chi non faceva alcun richiamo alle radici cristiane dell’Europa e rifiutava una etichetta di destra?
Il superamento di questa contraddizione è spiegato da Cardini nella Prefazione. In GE, dice Cardini, confluivano le diverse anime di un mondo che era diventato, per naturale sviluppo storico, parte dell’estrema destra italiana. Si trattava essenzialmente sia della componente missina erede di una R.S.I. socialisteggiante, sia di quella che si rifaceva al moderatismo neo-fascista che mirava alla Grande Destra filo-atlantica. Ad un dato momento di questo stesso sviluppo storico, avvenimenti come la Guerra dei Sei Giorni, la Guerra del Vietnam, la lotta antimperialista di Che Guevara e Fidel Castro, e poi il sommovimento del Sessantotto, rimescolarono le carte con un nuovo atteggiamento ideologico e politico. Si attua così un passaggio dall’anticomunismo “tradizionale” che rinchiudeva il MSI nell’alveo di uno sterile filo-americanismo, ad un pragmatismo che tendeva alla creazione di un nuovo sistema europeo, nazionalista e indipendentista.
Nacque allora lo slogan né Mosca né Washinghton, che a dire il vero ci procurò qualche problema di spelling quando andavamo a scriverlo sui muri dei licei fiorentini. Thiriart parla senza equivoci del metodo rivoluzionario che avrebbe dovuto portare l’Europa nella nuova realtà, tanto da auspicare, negli ultimi anni della sua attività, la creazione di un esercito di volontari rivoluzionari, per il quale chiese i fondi, senza successo, a cinesi e arabi.
Un’altra contraddizione colta da Cardini è quella del nostro filo-arabismo e della nostra difesa dell’Algeria francese. Thiriart da parte sua la spiega con la considerazione che l’Europa e l’Africa hanno radici storicamente comuni. L’Europa dunque doveva seguire questa sua vocazione, che non era imperialista ma imperiale. Certo, questo era valido anche per noi, ma agiva, anche se qui Cardini non lo dice espressamente, il fascino del “centurione” dal basco rosso, o del legionario dal chepì bianco, e più tardi, del mercenario della canzone del Bagaglino, divenuta l’inno con cui terminavamo le nostre riunioni che si arricchivano di lunghe discussioni ideologiche (e di molti fiaschi di chianti). Dunque: si poteva essere filo-OAS, come fu Thiriart, ma anche filo-arabi, e da parte nostra speravamo in una Algeria non soltanto puramente francese, ma “europea”, dove le due, o più comunità, molti erano anche gli ebrei, sarebbero vissute in armonia.
Il filo-palestinismo si radicò in GE anche se era esistito per alcuni di noi il mito di un Israele eroico e minacciato, portatore di valori occidentali nel Medio Oriente. Un mito di cui presto ci liberammo, ma che è restato nelle propaggini politiche del MSI, di AN e di FdI.
Cardini scrive che ripudiammo l’antisemitismo, ma a dire il vero non c’era nulla da ripudiare, dato il dovuto rispetto alla religione e alla cultura ebraica, ma c’era invece da condannare il filo-sionismo, che, ad oriente, riproduceva il sistema di oppressione che in Europa ben conoscevamo, patrocinato dal “grande Satana”, cioè gli Stati Uniti.
Cardini resta l’esempio di questo atteggiamento nei confronti di Israele: credo che non ci sia persona al mondo (cristiano) che non ami Gerusalemme quanta la ama lui. Questo non è soltanto un retaggio dei suoi primi studi sulle crociate, ma un amore rinnovato con innumerevoli viaggi in Terrasanta. Al contempo però il medievista fiorentino ha recentemente posto limiti ben netti all’espansionismo sionista in Palestina.
Disogra ha il pregio di trattare non soltanto del Thiriart politico, ma anche, se non soprattutto, di quello ideologico. Noi ci ispiravamo al suo messaggio politico, la politologia non era a quei tempi una dottrina molto praticata (e lo dimostra l’elenco di letture cui fa riferimento Cardini, che di politologico non hanno molto), lo diverrà con personaggi come Marco Tarchi o Alessandro Campi, o Paolo Armaroli, i quali avrebbero dovuto, o dovrebbero, tornare ad esaminare l’attualità del pensiero thiriartiano.
Ma, alla fin fine, quale Europa? Cardini mi sembra oggi sostenere quella paneuropea (per alcuni anni è stato egli stesso, ma per fedeltà asburgica, animatore di Paneuropa Italia), una somma di entità nazionali unite dalla sussidiarietà. Certo, il pensiero di Cardini è conseguente alla sua vocazione di storico medievista, siamo un coacervo di culture, sensibilità, comportamenti stratificatisi con i secoli, come non tenerne conto?
Fermo restando il totale rifiuto dell’Unione Europea come oggi concepita ed attuata, il concetto thiriartiano di “Europa nazione”, centralizzata e centralista, sembra essere stato superato nel pensiero cardiniano, rivolto forse più al passato, per logica di professione, che al presente.
Chi scrive, continua a credere in una nazione europea centralizzata politicamente, economicamente e militarmente. Questo non toglie che alla sagra di Bressanone è naturale partecipino gli Schützen e non i raccoglitori di pomodori di altra estrazione, cui comunque sarà riservato il rispetto dovuto alla loro cultura e alla loro tradizione.
Cardini resta, anche se oramai non lo rivendica più per non passare per archeologo della politica, un giovane-europeo nei due pilastri fondamentali del movimento, che sono: la critica agli USA e l’apertura alla Russia.
Gli USA, Cardini li conosce bene per avervi insegnato, come conosce Mosca, dove lo hanno portato i suoi studi. Esiste una cultura americana di assoluto rispetto, da Pound a Kerouac, da Steinbeck a Hemingway, per fare solo pochi nomi, come esiste una cinematografia superba, ma gli Stati Uniti sono anche alla fonte del malessere del mondo moderno: parafrasando Ezechiele, “ab occaso pandetur omne malum”.
E soprattutto l’americanismo si identifica con quell’odioso imperialismo di cui abbiamo oggi la riprova in Ucraina e a Gaza, oltre che nel mar della Cina.
Come contrappeso cresce la popolarità della Russia. Decantata dal comunismo conservatore post-staliniano (fummo accaniti assertori della libertà magiara come di quella boema e polacca), la terza Roma rappresenta la speranza di una nuova Europa, speranza che i “vecchi europei”, tali oramai per dato anagrafico, nutrono sulla soglia, ancora luminosa, dei loro ottanta anni.