Minima Cardiniana 482/4

Domenica 6 ottobre 2024, San Bruno sacerdote

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FRANCO CARDINI E LA MAGIA DI PRAGA MEDIEVALE. UN VIAGGIO TRA STORIA E LEGGENDA
di Antonio Musarra
Nel 1913, un giovane Benito Mussolini dava alle stampe un libretto – redatto un paio d’anni prima; di carattere compilativo ma non scevro d’intuizioni – dal titolo sorprendente: Jan Hus il veridico. Un testo anticlericale, ispirato alla produzione anticlericale del primo Carducci. Il pamphlet ritirato dalle librerie per evitare tensioni in vista dei Patti Lateranensi, offriva un’analisi approfondita della vita e delle idee ereticali di Hus, tratteggiato come un eroe del libero pensiero. La Boemia è descritta come una terra di eretici e riformatori, desiderosi di liberare il Cristianesimo dal controllo degli ecclesiastici. E Praga emerge quale centro di grande rilevanza culturale e religiosa – in particolare, nei secoli del tardo Medioevo –, dove s’incrociavano correnti di pensiero in contrasto con l’ortodossia della Chiesa romana. Un punto di incontro d’idee riformatrici, alimentato da tensioni sociali ed economiche, capace di mettere in discussione la dottrina ufficiale.
Certo, non si può dire che il Duce del popolo italiano rimanesse fedele a questa visione; tanto più che, il 10 marzo del 1939, dopo la crisi dei Sudeti, le forze tedesche occuparono la città, stabilendo il Protettorato di Boemia e Moravia. Durante l’occupazione, Praga divenne un centro amministrativo importante. Dove la combattiva e ben organizzata resistenza ceca e la popolazione civile subì gravi perdite con l’esecuzione sommaria del gruppo di fuoco responsabile della morte del SS-Gruppenführer Reinhard Heydrich, nominato Reichsprotektor da Hitler, causata dalle ferite causate dell’attentato del 27 maggio 1942, e della rappresaglia del sobborgo di Lidice, individuato come covo dei partigiani, che portò all’esecuzione sommaria di 192 uomini  di età superiore ai 15 anni e alla deportazione di tutte le donne e i minori in uno dei lager allestiti nel territorio boemo.
Si tratta di eventi assai noti. Si può dire, anzi, che il periodo compreso tra i due Jan – Hus e Palach –, dalla Defenestrazione del 1618 alla nascita della Cecoslovacchia nel 1918, passando per il regno dell’imperatore Rodolfo II, tra Cinque e Seicento, l’abbia effettivamente resa quella ch’è adesso. In realtà, la sua storia è assai più complessa. Praga è una vecchia signora. Di quelle sempre piacenti. Le sue strade acciottolate, i suoi vicoli, le sue piazze, i suoi palazzi sfidano il tempo, mentre, dall’alto di Karlův most – Ponte Carlo –, il colore arancio dei tetti si specchia sul fiume Vltava, la nostra Moldava. La Città d’oro ha attraversato i secoli con una capacità di mutamento e di adattamento quasi alchemica. In Come Praga divenne magica, edito per Neri Pozza, Franco Cardini offre una chiave di lettura diversa: è il Medioevo – afferma – a forgiarne l’identità profonda, arricchita nei secoli successivi ma mai cancellata: con la cattedrale di San Vito che svetta imponente, la Città Nuova voluta da Carlo IV e il Ponte Carlo, non solo un passaggio tra le due sponde del fiume, ma collegamento simbolico tra sacro e profano, tra storia e mito. E molto altro.
Il libro prende le mosse dal profondo. La regione era abitata sin dai tempi preistorici. Dal IV secolo a. C. fu occupata dalla tribù celta dei Boi, da cui avrebbe avuto origine il termine Boemia (il cui territorio è grossomodo corrispondente alla Cèchia attuale). A loro si deve la fondazione d’un insediamento fortificato a Závist, presso Zbraslav, nella valle della Vltava, a meridione della città attuale. L’economia della regione si basava principalmente (anche se non esclusivamente) sull’allevamento, cui si aggiungeva il commercio di rame e stagno lungo la via che attraverso il Brennero e le Alpi Giulie raggiungeva l’Italia. Un paio di secoli dopo, i Boi furono soppiantati da alcune popolazioni germaniche, i Quadi e i Marcomanni. A partire dal VI secolo d. C., genti slave iniziarono a stabilirvisi, avviando un processo di convivenza e fusione culturale destinato a protrarsi a lungo. È qui che s’inserisce la leggenda di fondazione, strettamente legata al ruolo svolto allora dal matriarcato. Secondo la tarda cronaca dello pseudo-Dalimil, risalente agli anni Dieci del XIV secolo, una certa Libuše, vissuta tra VII-VIII secolo, principessa, profetessa e sciamana, sarebbe stata all’origine della città. Sentiamo il racconto dalla viva voce dell’autore: “‘C’erano una volta’ due fratelli, entrambi capi di altrettante tribù, di nome Cech e Lech. Giunti nel bel mezzo della valle della Vltava, essi ascesero l’alta montagna vulcanica di nome Rip, a settentrione del luogo nel quale sorge l’attuale Praga. Là, si sarebbero spartiti il territorio: Lech sarebbe partito verso nord e avrebbe fondato il primo nucleo demico di quella che sarebbe poi stata la Polonia; Cech sarebbe rimasto sulla Vltava e, quando ormai ottantaseienne – età, all’epoca, già patriarcale – egli venne a morire, i capitribù che ne riconoscevano l’autorità si riunirono per eleggere all’unanimità uno di loro, particolarmente forte e stimato, di nome Krok. Possedendo fra le sue altre virtù anche il dono della profezia, egli incaricò i più saggi fra gli anziani d’individuare sulle sponde della Vltava un luogo adatto a un nuovo prestigioso e sicuro insediamento. I saggi si arrestarono, ispirati dagli dèi, sulla punta rocciosa di Vyšehrad, alta sulla riva destra del fiume, dove edificarono il primo nucleo dell’imponente fortezza che difende l’attuale città di Praga da sud, di fronte al punto nel quale la Vltava, allargandosi, consente comode installazioni portuali. Alla morte di Krok, la sua eredità sarebbe passata alle sue tre figlie, tra le quali – secondo uno schema che può essere infrequente nella storia, mentre lo è nel mito e nelle fiabe, ossia quello del ‘privilegio dell’ultimo nato’ – si sarebbe imposta la più giovane, Libuše, in quanto dotata di virtù profetiche”. Benché figlia di un capotribù, quest’ultima avrebbe scelto come sposo un contadino di nome Přemysl: una sorta di “eroe ctonio”, soggiogatore di “viragines”, “amazzoni”, donne-guerriere che dominavano una fortezza situata non troppo lontano dal lugo in cui Praga sarebbe sorta: Děvín, presso Bratislava, nei Piccoli Carpazi. La profezia pronunciata dalla donna contiene in sé tutta la consapevolezza della grandezza raggiunta:

Přemysl era un uomo saggio,
stabilì leggi con Libuše.
Allora Libuše profetizzò
dicendo: “Vedo qui una città
che sarà illustre nel mondo
come il sole nel suo splendore…
Costruite questa città, ve lo ordino,
là dove io indicherò.
Sulla Vltava, sotto Petřin,
un falegname fabbrichi con il figlio una Soglia;
e per questa Soglia chiamate la città Praga;
avrà numerosi abitanti
e sacerdoti e re; i popoli, seppur forti come leoni,
curveranno la testa davanti a questa Soglia”.

La leggenda – certo, non isolata (basti pensare a Olga di Kiev o alla principessa Wanda, figlia del fondatore di Cracovia) – è paradigmatica d’un complesso folklorico tipicamente slavo. Guardando alla storia – o, quantomeno, a ciò che il passato ha lasciato trapelare –, si può dire che sia stato il principe slavo Bořivoj, che si dichiarava discendente del mitico Přemysl, a gettare le fondamenta della città medievale. Nell’882 (o 884), su un’altura lungo la riva sinistra del fiume Vltava, questi fece costruire Pražský Hrad, il “castello di Praga”, destinato a ingrandirsi rapidamente. A seguito delle invasioni ungare, nel X secolo, l’agglomerato cominciò a dotarsi di mura difensive più solide. Al contempo, dall’altra parte del fiume, iniziava a prendere forma il modesto insediamento che oggi conosciamo come Malá Strana (“Piccola parte”), mentre un nuovo nucleo fortificato, Vyšehrad, si sviluppava sulla collina antistante. Poco dopo, crescevano un mercato e un porto fluviale, cuore antico di Staré Město, la “Città Vecchia”, destinata a divenire, già nel X secolo, un centro commerciale di rilievo. Nel corso del tempo, la città si sarebbe accresciuta mediante il progressivo sinecismo di centri solo apparentemente concorrenti, sostenuto dal radicamento dell’autocoscienza del ruolo della dinastia přemyslide, legatasi progressivamente alla dinastia imperiale. La diffusione del Cristianesimo fu contestuale. Nel 992, sant’Adalberto condusse a Praga alcuni monaci benedettini, fondando il monastero di Břevnov; l’anno successivo fu eretto il monastero femminile di San Giorgio, con annessa chiesa romanica
Il potentato sorto sulla Moldava dovette fare i conti velocemente con i propri vicini. Nel 1102, la Boemia entrò formalmente nel novero dei feudi imperiali, alimentando il conflitto con l’autorità ecclesiastica. Cardini esamina con cura la lenta costruzione del regno, giunta a maturazione nel 1228, quando Federico II accordò al duca Ottocaro I la dignità regia, il potere inerente alla quale sarebbe stato esercitato fattivamente, tuttavia, soltanto dal figlio Venceslao, succedutogli due anni dopo. Questi dotò la città d’un ampio circuito murario. Fu Ottocaro II, tuttavia – l’“Ottochero” dantesco di Purg. VII,100 –, nei decenni successivi, a farne un importante centro commerciale e politico. Al contempo, andò sviluppandosi la componente ebraica. Nel 1254, questi varò degli statuti appositi – gli Statuta Judeorum –, contemplanti una serie di privilegi, tra cui la possibilità di disporre di luoghi di culto. In stretto rapporto con quelle di Ratisbona, di Worms e di Würzburg, la comunità ebraica praghese espresse uomini come rabbino Ishakh ben Moshe, vissuto tra il 1180 e il 1260, autore dell’Or Zarua (“La Luce innalzata”), tra i principali testi di halakhah medievale, un’opera che esercitò una notevole influenza nello sviluppo del diritto ebraico, raccogliendo decisioni giuridiche, interpretazioni talmudiche e costumi liturgici. La morte di Ottocaro, sopraggiunta nel 1278 nel corso della battaglia di Marchfel, combattuta contro Rodolfo d’Asburgo, segnò, a ogni modo, un momento di crisi. Nei decenni a venire, la città sarebbe entrata nell’orbita dei sovrani di Germania, raggiungendo l’apice sotto il dominio dei Lussemburgo. Fu l’imperatore Carlo IV, Re dei Romani dal 1347 e imperatore dal 1355, a favorire un periodo di straordinario sviluppo architettonico e culturale. Sotto il suo regno iniziò la costruzione della cattedrale di San Vito. Allo stesso tempo, questi progettò anche il Ponte Carlo, destinato a divenire simbolo della città stessa. La fondazione, nel 1348, dell’Università Carolina, fece di Praga un centro di sapere in cui si intrecciavano il pensiero filosofico e le teorie esoteriche.
Questa apertura intellettuale attrasse studiosi da tutta Europa, rafforzando il prestigio culturale della capitale boema. Con la Bolla d’Oro del 1356, la città acquisì un ruolo centrale nel processo di elezione degli imperatori del Sacro Romano Impero, consolidando ulteriormente la propria influenza. Il Quattrocento avrebbe visto il sorgere di diverse leggende, come quella del Golem, creatura mistica fatta d’argilla, simbolo del potere della magia e della protezione divina in un periodo di tensioni e persecuzioni. Tensioni alimentate anche dal dissenso religioso, di cui Jan Hus, il “veridico”, fu uno dei principali protagonisti, anticipando di oltre un secolo la Riforma luterana. Non si trattava solo di una contesa teologica, ma di una vera e propria sfida all’autorità ecclesiastica e politica, con profonde ripercussioni non solo in Boemia, ma in tutta Europa. Le fiamme del conflitto si fusero con il fervore nazionalistico, creando un terreno fertile per rivolte e trasformazioni sociali. In questo scenario di scontri e tensioni, Praga divenne un simbolo di cambiamento e resistenza. Tra Quattrocento e Cinquecento, la città continuò a essere un polo di attrazione per filosofi, scienziati e artisti, alimentando un clima intellettuale vivace. Il regno di Rodolfo II segnò l’apice di questo fermento: l’imperatore trasferì la sua corte in città, trasformandola in un crocevia di culture e un centro di studi alchemici e astrologici. Appassionato di esoterismo e collezionista d’arte, questi raccolse intorno a sé studiosi e maghi, rendendo la propria capitale un luogo di grande sperimentazione culturale, dove scienza, magia e arte si fondevano in un unico, affascinante contesto. Questo periodo segnò una nuova rinascita, impossibile da comprendere appieno senza considerare il ricco patrimonio culturale e intellettuale dei secoli precedenti.
Il libro di Franco Cardini – impreziosito da un’ampia prefazione di Flavio R.G. Mela – contiene questo e molto di più. L’autore guida il lettore lungo un viaggio straordinario, ponendo l’accento sulla centralità della città nel contesto europeo ben prima dell’età moderna. La narrazione non si limita a presentare eventi e figure storiche, ma esplora l’intreccio tra storia, arte e simbolismo che ne ha plasmato l’identità. È proprio questo intreccio a rendere Praga unica nel suo genere. Ogni angolo della città racconta una storia diversa. La sua magia non è solo nei racconti alchemici o nelle sue architetture gotiche. Risiede, piuttosto, nella capacità di unire in un’unica narrazione il sacro e il profano, il mitico e lo storico, il reale e l’immaginario. In fondo, siamo di fronte a una metafora della cultura europea, fatta di stratificazioni e contraddizioni, ma anche di continuità che ne rappresentano la vera forza. Come Praga divenne magica non è solo un libro di storia (tantomeno, una guida turistica) ma una meditazione profonda sulla natura di una città che continua ad affascinare chiunque si trovi a percorrerne le strade.
(Corriere della Sera, 22 settembre 2024)

MEDIOEVO
PIER DAMIANI, COMPLETATA L’OPERA OMNIA
di Franco Cardini
Con l’ottavo volume delle lettere (e il dodicesimo in assoluto) è giunta a conclusione la traduzione in italiano di tutti gli scritti del dottore della Chiesa.
Nato intorno al 1007, Pier Damiani proveniva da una famiglia aristocratica ma economicamente in difficoltà. La sua giovinezza fu segnata da problemi economici e dalla presenza oppressiva di un fratello malevolo, almeno secondo quanto ci dice il suo agiografo, Giovanni da Lodi. Queste contrarietà influenzarono il suo carattere, plasmando le sue aspirazioni spirituali e intellettuali. Educato inizialmente dalla sorella Rodelinda e successivamente dal fratello Damiano, sacerdote, egli ne adottò probabilmente il nome in segno di gratitudine. Pier Damiani iniziò la sua istruzione formale a Faenza, proseguendo con lo studio delle arti liberali a Parma intorno al 1030. La sua educazione comprendeva il trivio e il quadrivio, e studiò sotto maestri illustri come Ivo, Gualtero e Mainfredo. Questo periodo affinò la sua competenza giuridica, che si rivelò cruciale durante dispute, come quella con i giuristi di Ravenna nel 1046.
Nonostante il successo accademico e un breve periodo di insegnamento, Pier Damiani scelse la vita monastica intorno al 1034-1035, unendosi all’eremo di Fonte Avellana negli Appennini. La sua decisione fu influenzata dallo zelo riformista di Romualdo di Ravenna, di cui scrisse successivamente una biografia. Fonte Avellana divenne il fulcro della sua vita spirituale e delle sue attività. Ordinato sacerdote dall’arcivescovo Gebeardo di Ravenna tra il 1037 e il 1040, i primi anni monastici di Pier Damiani furono caratterizzati dalla composizione di opere significative. Divenne priore di Fonte Avellana nel 1043, concentrandosi sull’istituzione e la riforma di vari eremi e monasteri nella regione. Lo zelo riformista di Pier Damiani si estendeva oltre i confini monastici. Scriveva di frequente a vescovi, offriva guida e cercava la rimozione del clero indegno. I suoi sforzi miravano alla santificazione clericale e alla risoluzione di problemi come la simonia e il concubinato. La sua influenza crebbe sotto l’imperatore Enrico III, che lo nominò come consigliere chiave. Collaborò con diversi prelati e papi, tra cui Gregorio VI, Leone IX e il futuro Gregorio VII, consigliandoli su questioni teologiche ed ecclesiologiche con significative implicazioni politiche.
Nel 1057, Pier Damiani fu nominato Cardinale-Vescovo di Ostia da papa Stefano IX. Nonostante la sua iniziale riluttanza, accettò il ruolo e divenne strumentale nella risoluzione di significative dispute ecclesiastiche, incluse quelle relative al movimento patarino a Milano. Le sue abilità diplomatiche furono cruciali nella negoziazione con le fazioni riformiste e nel mantenimento dell’unità ecclesiastica.
Erano gli anni in cui entrava nel vivo lo scontro fra papato e impero. Niccolò II, con il sinodo lateranense del 1059, stabiliva in pratica lo statuto della Chiesa riformata. Da quel momento in poi, il papa (in quanto vescovo di Roma) sarebbe stato scelto da un collegio composto da preti e diaconi della città di Roma e da vescovi delle diocesi suburbicarie, che, per questo loro fondamentale ufficio, vennero chiamati “cardinali”. Nessun ecclesiastico avrebbe più potuto accettare cariche da un laico, incluso l’imperatore, e il celibato ecclesiastico sarebbe diventato strettamente obbligatorio.
Il secondo di questi punti era particolarmente grave. Non solo danneggiava l’imperatore, ma lo indicava come la causa principale della simonia tra i prelati; applicato retrospettivamente, questo punto condannava in pratica l’intera Chiesa.
Ma se nella gerarchia ecclesiastica c’erano dei simoniaci, i loro atti sacramentali erano validi? I più estremisti pensavano di no; Pier Damiani, al contrario, riteneva che, derivando la Grazia da Cristo, essa restasse pura anche se i sacerdoti che ne fungevano da canali mediatori non erano puri.
Era evidente che una posizione estrema su questo tema avrebbe condotto alla distruzione della struttura della Chiesa. I vescovi tradizionalisti, inoltre, non avevano alcuna intenzione di vedersi esautorati a causa delle elezioni simoniache: opposero quindi resistenza al papato, ormai sempre più nelle mani del gruppo estremista dei riformatori. Quando nel 1061 fu eletto papa Anselmo da Baggio, capo dei “patari” milanesi, con il nome di Alessandro II, la reggente imperatrice Agnese convocò un concilio a Basilea, che elesse papa Cadalo, vescovo di Parma. Questo evento portò allo scisma.
Evidentemente, Pier Damiani aveva avuto un ruolo fondamentale in tutti questi sviluppi, ma gli esiti non lo videro contento. Negli ultimi anni di vita, si manifestò la disillusione dovuta all’impossibilità di coinvolgere la corte imperiale nel progetto di riforma ecclesiastica, ma anche nella progressiva perdita di sintonia con il papa. Per esempio a proposito dello scisma fra Roma e Costantinopoli, sul quale egli scrisse una epistola inviata direttamente al patriarca, nella quale Pier Damiani si lamenta di non essere stato considerato dalla Curia romana, dal papa e dai suoi collaboratori. Comunque, fino all’ultimo portò avanti la sua missione a favore della Chiesa. Nel 1072 era a Ravenna, sua città natale, per riconciliarla con la sede apostolica dopo che l’arcivescovo Enrico era stato colpito da interdetto per aver sostenuto l’antipapa. Sulla via del ritorno, nella notte tra il 22 e il 23 febbraio 1072, si spense a Faenza nel monastero di Santa Maria Foris Portam.
L’eredità di Pier Damiani è incapsulata nei suoi molteplici contributi come riformatore, teologo e scrittore. La sua corrispondenza, trattati, poesie, sermoni e agiografie offrono preziosi spunti sulla sua vita e sul più ampio panorama ecclesiastico del suo tempo. Senza le sue opere, sapremmo assai meno non soltanto sulla sua attività e il suo pensiero, ma anche sugli eventi del tempo. L’edizione completa delle sue opere a cura di Kurt Reindel, con contributi di Giovanni Lucchesi, ha fornito una risorsa essenziale per comprendere il suo contesto cronologico e il suo impatto.
Negli ultimi anni, però, si è resa necessaria una traduzione dal latino all’italiano per consentire al pubblico un accesso più ampio. In questa impresa tutt’altro che facile si sono cimentati per anni Nicolangelo D’Acunto dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e una équipe di collaboratori. L’opera giunge a compimento con l’ottavo volume di epistole, il dodicesimo in assoluto: Opere di Pier Damiani. Lettere (166-180) (Roma, Città Nuova, 2024) a cura di Lorenzo Saraceno, Nicolangelo D’Acunto, Ugo Facchini e Antonio Manco. Il volume contiene lettere datate principalmente agli ultimi anni della sua vita, insieme ad altri due testi: la descrizione del suo viaggio a Cluny durante un momento cruciale del dibattito intorno alla riforma, e la Vita beati Petri Damiani scritta dal suo discepolo e segretario Giovanni da Lodi, come già accennato fondamentale nella ricostruzione della sua vita, composta pochi anni dopo la morte. Infine, il volume fornisce un aggiornamento della bibliografia generale, considerando quindici anni di studi sviluppati anche grazie a questa impresa editoriale.
Vale tuttavia la pena ricordare il complesso dell’opera: l’epistolario di per sé è fondamentale per la rete di relazioni di Pier Damiani, e occupa otto volumi incluso quest’ultimo. La collana parte con un primo volume di bibliografia pubblicato nel 2007 in occasione del millennio dalla nascita (Pier Damiani, un Padre del secondo millennio). Gli altri sono dedicati all’opera poliedrica di Pier Damiani: sermoni, poesie, preghiere, agiografie; ovviamente c’è la celebre biografia di Romualdo, fondamentale per la tradizione eremitica camaldolese e apprezzata da figure come Petrarca, nonché le vite di Odilone di Cluny e di figure meno conosciute ma comunque importanti per comprendere la formazione ascetica di Pier Damiani e la spiritualità del suo tempo.
(Avvenire, 7 settembre 2024)