Domenica 20 ottobre 2024, Santa Maria Bertilla Boscardin
CONVERSANDO DI STORIA
LA SCUOLA E L’OCCIDENTE
Il nostro paese, l’Occidente, l’età che stiamo vivendo, sono un pozzo senza fondo di contraddizioni. Prendiamone una di quelle in apparenza meno allarmanti: la storia. Per certi versi sembrerebbe una delle grandi passioni del nostro tempo: il cinema, i serials televisivi, i war games, le feste e i festivals, la gadgettistica di ogni genere, la straripante divulgazione con i suoi immancabili “misteri” (i disegni sulle Ande visibili solo dall’alto, le piramidi, il Graal, i templari, il “nazismo magico”). Con queste premesse, si potrebbe pensare che anche a scuola e nelle università le discipline storiche vadano alla grande.
Macché. A scuola, i professori insegnano di malavoglia e gli scolari restano assenti e disinteressati. All’università, i corsi di storia vanno deserti e il numero delle relative cattedre si sta riducendo a vista d’occhio: chi può emigra all’estero dove non è detto che trovi una situazione migliore. Pochi fra i ragazzi che appena possono si vestono da balestrieri a Gubbio o a Borgo Sansepolcro o da granatieri di Napoleone a Waterloo pensano poi a iscriversi a una facoltà di storia. La storia-evasione, la storia-divertimento, addirittura la storia-passione o la storiomania vanno benissimo. La storia-studio, la storia-scienza, manco per idea. Perché?
Tutto ciò almeno in parte si spiega con la congiuntura. Le discipline storiche sono socialmente e civicamente importanti nelle società e nei momenti nei quali esistono forti passioni civili o in cui s’impone comunque un modello “forte” da seguire o da contrastare. Da noi, immediatamente dopo l’unità del paese oppure durante il fascismo e nell’età ad esso immediatamente successiva, le riflessioni sull’antica Roma, sull’età comunale e signorile o sul Risorgimento avevano un senso e un’urgenza evidenti: ma in un tempo come il nostro è ovvio che altre siano le cose dotate di appeal.
Ciò non toglie che siano la scuola e gli insegnanti i maggiori responsabili della generale caduta d’interesse che strappa a Clio tanti ammiratori. Come antidoto, è davvero raccomandabile la lettura di un piccolo libro or ora edito dalla Laterza, il Dialogo sulla storia tra due eccezionali – e anche popolari – protagonisti della ricerca, il medievista Jacques Le Goff e l’antichista Jean-Pierre Vernant: due studiosi di successo ai quali la definizione che li collega alla loro rispettiva specializzazione va senza dubbio stretta. Entrambi hanno saputo difatti coniugare in modo e a livello differente discipline quali la storia, l’antropologia, la filologia, l’iconologia. In questo libro, resoconto di un’intervista a due voci condotta da Emmanuel Laurentin, essi riescono con straordinaria immediatezza a far piazza pulita di alcuni tra i più correnti falsi miti, i più noiosi pregiudizi e i più banali luoghi comuni che di solito rendono la storia una materia monotona per chi la insegna e insopportabile per chi cerca di capirci qualcosa (al di là dello sterile “imparare” nomi, date ed eventi).
Anzitutto, la “vocazione” storica. Alla base del grande lavoro sia di Le Goff, sia di Vernant, ci sono stati la vita e il caso: nulla di paludato, nulla di austeramente perseguito. I due studiosi insistono sulla loro giovinezza, sulle loro vocazioni politiche (socialista l’uno, comunista l’altro), sull’incontro con straordinari maestri quali Braudel e Dumézil. In entrambi sono rimasti intatti, a distanza di decenni, lo stupore per la bellezza e il fascino d’una strada, quella della ricostruzione del passato, intrapresa quasi per gioco o per fatalità.
Quindi, l’evento. Le Goff e Vernant hanno fieramente combattuto contro la bestia nera degli insegnanti e degli studenti: l’histoire événementielle, la storia dei fatti. A questo proposito comunque si è distinto tra “evento” e “fatto” vero e proprio, e d’altra parte nel dibattito storiografico si è presentato anche quello ch’è stato definito il “ritorno dell’avvenimento”.
Ancora, il determinismo storico, la “causalità”: la pesante stolida catena di cose che sono accadute e che più o meno artificiosamente sono collegate (di solito con espedienti quali il post hoc, ergo propter hoc) a dimostrare che quel ch’è accaduto doveva accadere, e che doveva accadere perché è accaduto. Su tali artifizi si sono costruite vere e proprie dottrine sul piano della filosofia della storia e sulla sua “ragione immanente”, sul suo “senso”.
Qui, al contrario, parlano due Maestri dell’antideterminismo, due ribelli alle basse scolastiche storicistiche, due fedeli alla tesi che le strutture profonde e le istituzioni storiche sono anzitutto radicate nella libertà: e che tale libertà è anzitutto quella dello storico e della sua interpretazione. Lo stesso “evento”, in sé, non è il dato obiettivo della storia a determinarlo, bensì l’interpretazione dello storico. Padroni, se volete, di stupirvi e perfino d’indignarvi. Certo, dopo Lévi-Strauss e lo strutturalismo, nemmeno Derrida e il decostruzionismo hanno attraversato invano la strada di quanti pensavano che, quanto al senso della storia, dopo l’hegelismo (di destra o di sinistra che fosse) non c’era più nulla da dire. E magari, anche il vecchio Nietzsche delle Considerazioni inattuali al suo tempo inascoltate ha in seguito avuto parecchio da dirci.
Infine, la biografia: grande passione degli amateurs e di alcuni insegnanti, abbastanza antipatica alla grande maggioranza degli storici (don Benedetto Croce a parte) per quanto poi molti di essi v’indulgano eccome. Ma al riguardo, discutendo la genesi del suo San Luigi e il rapporto tra il personaggio biografato e il suo tempo, Le Goff ha agio di rimetter le cose a posto.
E potremmo continuare a lungo: ma arrestiamoci qua. Oggi, cadute le illusioni della historia magistra vitae, resta forte la convinzione che la storia non è mai storia del passato: ha il passato come oggetto di studio, ma il presente in funzione del futuro come obiettivo finale. Una storia che non è progresso, bensì processo; che non ha uno scopo finale, non è teleologia, bensì gioco eternamente aperto a quel che l’abate Rosmini definiva “l’eterogenesi dei fini”. La testimonianza di Le Goff e di Vernant c’insegna, in sintesi, che il vero assoluto non è oggetto della ricerca storica, vòlta per contro ad affermare verità storiche sempre perfettibili in quanto il passato una volta passato non muta bensì mutiamo noi, le nostre esigenze, le domande che gli poniamo, i nostri strumenti e metodi di ricerca. Al di là dello stolido conformismo e dello sclerotico ideologismo che anima ad esempio la polemica sterile tra “revisionisti” e “antirevisionisti”, la storia resta una disciplina dalla quale i dogmi sono per loro natura banditi: ed è, per sua natura, revisione. O non è nulla.
Dalla ricerca di Le Goff e di Vernant la storia risulta sottratta alla polverosa noia dei banchi di scuola e proiettata in un futuro fatto di spregiudicata ricerca scientifica da una parte, di originalità epistemologica e perfino di qualità artistica (le necessarie doti di finezza, di eleganza e di efficacia dell’esposizione, il “fascino del raccontare”) dall’altra. Questa, amici, è la storia di cui abbiamo bisogno per migliorare noi stessi e la società.
Franco Cardini