Minima Cardiniana 486/3

Domenica 3 novembre 2024
XXXI Domenica del Tempo Ordinario, San Berardo, Santa Silvia

ISLAM. UN PROFILO
CONTRO GLI EQUIVOCI E LE MISTIFICAZIONI
Dal 7 ottobre del 2023 dir peste e corna dell’Islam è tornato di moda. E ne è evidente il perché. Dopo la febbre fallaciana seguita all’11 settembre del 2001 e cresciuta durante i conflitti afghano e irakeno, l’agghiacciante tragedia del “Charlie Hebdo” eccetera, l’esperienza dell’ISIS-DAESH (il “califfato”) e la scoperta del fatto che dietro i fondamentalisti Tagliatori di Teste c’erano i servizi statunitensi mentre a vincere quei fanatici erano stati quasi esclusivamente i curdi e i siriani appoggiati dai pasdaran iraniani aveva consigliato agli islamofobi in servizio permanente effettivo di metter la sordina ai loro bollori.
Ma ormai un po’ di tempo è passato da allora: e la necessità di distogliere l’opinione pubblica mondiale dalla distruzione di Gaza e dal martirio del popolo palestinese ha consigliato qualcuno dei soliti seminoti seminatori di balle – quelli secondo i quali l’Islam è solo il
chador imposto alle donne afghane, l’infibulazione fatta passare indecorosamente come un costume tipicamente ed esclusivamente islamico eccetera – di tornare all’attacco.
Consigliamo un antidoto. Nelle poche pagine che seguono, abbiamo tracciato un profilo semplice ma essenziale dell’islam: tutto quel che dovreste sapere e che i media fanno di tutto per impedirvi di capire.

Islam è un termine arabo che significa “fede”, “fiducia”, e che è strettamente unito alla parola Salam che significa “pace” (come l’ebraico Shalom: arabo ed ebraico sono lingue di ceppo semitico strettamente imparentate fra loro). Dunque, il termine Islam richiama all’atteggiamento di profonda fiducia in Dio, proprio del credente.
L’Islam non conosce frontiere di razza, di popolo, di continente, di classe sociale: chiunque si converta è un muslim (letteralmente: “uno che ha accettato l’Islam”) ed entra a far parte dell’Umma (letteralmente “la comunità di quelli che hanno madre comune”), cioè della comunità dei credenti. La letteratura musulmana, oggi presente in molte lingue parlate nel mondo, riposa comunque su un “tripode linguistico” che è costituito dalle tre lingue corrispondenti ai tre popoli che nella storia hanno più contribuito al diffondersi dell’islam e allo svilupparsi della sua cultura: l’arabo, il persiano, il turco.
Una sola, tuttavia, è la lingua sacra dell’Islam: l’arabo, in quanto in tale lingua è dettato il Corano che Dio ha concesso agli uomini tramite il Suo Inviato, Muhammad. Egli era un arabo della città della Mecca: e arabi sono stati i primi musulmani.
Le origini delle genti arabe non sono chiare. Sembra che il comune capostipite degli habiru o hapiru (una parola che indica i “nomadi”), colui che conosciamo col nome di Abramo – un nome che sembra derivare dalla stessa radice di quella del suo popolo – fosse originario di Ur in Caldea (fra Giordania e Iraq) e vivesse tra XIX e XVIII sec. a.C. Secondo la tradizione biblica, Abramo ebbe dalla legittima moglie Sara il figlio Isacco, da cui nacque Giacobbe detto Israele patriarca degli ebrei, e dalkla schiava egizia Agar il figlio Ismaele patriarca degli arabi.
Tra II e I millennio a.C., troviamo già gli arabi insediati nella penisola che da essi trae il suo nome. Nel Meridione della penisola arabica – la regione che i romani chiameranno Arabia Felix (lo Yemen) – s’insediarono floridi regni di agricoltori, come quelli dei minei e dei sabei; mentre nell’arido Settentrione, fino alla Giordania e alla Siria attuali, si distribuirono tribù nomadi di “abitanti del badw” (“deserto”, “solitudine”), detti perciò “beduini”, allevatori di pecore e capre ma anche di cavalli e di cammelli. Razziatori, ma anche abili mercanti, i beduini del nord andarono costituendo fra V secolo a.C. e III d.C. regni al centro delle quli erano “città carovaniere” come Petra e Palmira, dislocate lungo la cosiddetta “Via dell’Incenso” lungo la quale transitavano in carovane le preziose merci provenienti dall’India e dalla Cina che, varcato l’Oceano Indiano e approdate nello stretto di Bab el-Mandeb, risalivano sino ai porti siriaci del Mediterraneo. Gli arabi erano distinti fondamentalmente, dunque, in nomadi che esercitavano la pastorizia e il commercio e si abbandonavano a frequenti guerre tribali, e mercanti e contadini che risiedevano invece stabilmente nelle poche ma ricche città site lungo la Via dell’Incenso e nelle grandi, fertili oasi che le circondavano.
Consapevoli delle loro tradizioni che li collegavano al culto del Dio unico, l’Elohim di Abramo, gli arabi associavano tuttavia alla memoria di esso anche credenze mitico-religiose fondate sulla divinizzazione degli astri e sull’adorazione delle pietre meteoriche dette nella Bibbia bethelim, “Case della forza Divina”. Il politeismo astrale e il culto di alcune dee-madri erano caratteristici dei popoli semitici: tuttavia, gli arabi erano stati coinvolti nel monoteismo esclusivo degli ebrei e conoscevano molte delle narrazioni che essi fra VI secolo a.C. e III d.C. avrebbero faticosamente raccolto, ordinato e messo per iscritto nella Bibbia. Tali narrazioni erano tramandate oralmente.
Il mondo arabo era molto influenzato da quello romano-bizantino a nord-ovest della penisola arabica, da quello persiano a nord-est e da quello etiopico a sud.

Muhammad. La vita e la leggenda
Nel 570-571 d.C. un vicerè del negus, l’imperatore cristiano-monofisita d’Etiopia, marciò dallo Yemen sulla Mecca, la città carovaniera posta sulla Via dell’Incenso nella quale sorgeva un santuario che custodiva un bethel, la “Pietra Nera” che seconda la tradizione l’arcangelo Gabriele avrebbe recato sulla terra e che, originariamente candida, si sarebbe annerita in seguito ai peccati degli uomini. L’esercito etiope aveva con sé anche un elefante: e il pachiderma, sconosciuto in Arabia, dette il suo nome a quell’anno, detto appunto “Anno dell’Elefante”.
In quel medesimo anno nacque alla Mecca Muhammad, figlio di Abdallah: egli apparteneva alla tribù (qabila) dei Beni (“Figli”) Quraish, una delle dieci che custodivano il santuario nel quale si concentrava il culto di tutte le divinità adorate dalle genti arabe: il dio supremo Allah (versione fonetica araba della parola Elohim, un termine che indica il massimo della potenza divina), la Pietra Nera recata dall’arcangelo Gabriele, le tre divinità femminili al-Uzzà, Manat e Allat dette banat Allah (“Figlie di Dio”) un dio lunare anch’egli femminile.
Il centro del santuario era il bayt (“la Casa”), prima una semplice tenda e poi una cappella, la Kaaba, che custodiva il meteorite della Pietra Nera e presso il quale gorgogliava la fonte sacra di Zamzam. Attorno a questo centro sacrale si era andato costituendo nei secoli un haram, un “recinto sacro” al quale s’indirizzava ogni anno un pellegrinaggio (haj) e si teneva il complesso di cerimonie e di devozioni prolungato tre giorni e detto umra. Alle suggestioni bibliche si accompagnavano nel culto arabo pagano devozioni e pratiche divinatrici astrologiche in cui forte si avverte l’influsso persiano e venerazione di idoli e sacrifici (in qualche caso forse anche umani) d’origine cananea, appartenente cioè a uno dei popoli semitici che abitavano l’area siro-giordana attuale. Era questo il paganesimo arabo: o meglio, quella che fu poi chiamata la jahiliya (“ignoranza”).
Muhammad nacque orfano di padre e affrontò le prime difficoltà della vita grazie al nonno materno Abd el-Muttalib, sheikh (“vecchio”, “anziano”, quindi capo) della consorteria degli Hashim – detti appunto “hashemiti” – che, nella tribù dei quraishiti, avevano l’incarico ritenuto altamente onorifico della siqaya, l’approvvigionamento dell’acqua necessaria ai pellegrini. Altro appoggio costante gli fu lo zio materno Abd Manaf, che alcuni identificano con Abu Talib, il quale lo avviò alla professione di carovaniere. Nei suoi viaggi commerciali, Muhammad visitò molti centri carovanieri anche nel nord, tra Arabia e attuale Giordania, entrando in contatto anche con comunità monastiche cristiane.
Nel 595 Muhammad si sposò con Khadigia, una ricca imprenditrice di carovane due volte vedova e più anziana di lui: il matrimonio risolse i problemi del giovane e gli consentì di darsi con maggior libertà ai suoi interessi religiosi, anche frequentando gli eremiti monoteisti detti hanif che gli fecero meglio conoscere molti aspetti dell’ebraismo e del cristianesimo.
Muhammad amava ritirarsi a meditare sulle brulle pendici di un’altura modesta, il “monte” Hira presso la Mecca: lì, nel 611, ricevette la visione dell’arcangelo Gabriele che lo salutò come inviato (rasùl) e profeta (nabi) di Allah, tendendogli una pergamena srotolata piena di segni: il Libro Sacro la cui lettura (Quran) sarebbe divenuta la base della fede e della vita di chiunque, possedendo il fiducioso abbandono (islam) alla volontà divina, può esser definito “fedele”, “credente” (muslim).
Iniziò dunque a predicare la sua nuova fede: ma il rigoroso monoteismo sul quale essa si fondava lo rese inviso ai suoi concittadini della Mecca, che traevano profitto dalla frequentazione del santuario nel quale si veneravano molte divinità. Muhammad, nel 622, compì dunque l’“Egira” (hijra: “migrazione”) dalla Mecca alla città di Yatrib, che più tardi sarebbe stat chiamata Medina (“la Città” per eccellenza). Dall’Egira i musulmani usano avviare il loro còmputo calendariale.
Da Medina, nel 630, con un esercito di 10.000 uomini Muhammad riconquistò la Mecca proclamandola città santa dell’Islam e rendendo obbligatorio il pellegrinaggio alla Kaaba dove furono mantenute la Pietra Nera e un’icona della Vergine Maria, ma da dove furono rimossi tutti i simboli politeistici.
Muhammad morì l’8 giugno del 632 a Medina, dov’è sepolto. La sua vita è narrata in un’ampia serie di racconti agiografici, gli Hadith, in molti dei quali abbondano gli elementi leggendari.

Il Corano
Il Quran (“Corano”) è composto di 114 capitoli, detti “sure”, ordinate – a parte la prima, la Fatiha – in ordine decrescente di lunghezza e distinte ciascuna da un titolo. Ogni “sura” è divisa in ayat (versetti). È alla luce del Corano che la Pietra Nera, un meteorite collegato al culto pagano, viene accettata come sacro pegno divino nell’Islam: difatti Abramo e il di lui figlio Ismaele avrebbero per primi reso omaggio al santuario meccano.
Secondo la Sura II, “della Vacca”, Abramo accompagnò Agar e il piccolo Ismaele fino a una valle incolta – il luogo nel quale sarebbe poi sorta la Mecca – e lì, per ordine di Dio, a malincuore li abbandonò. Nel luogo dove il fanciullo, disperato per la sete, batteva il piede, scaturì la fonte di Zamzam che Agar trasformò in pozzo. Una tribù beduina di passaggio chiese ed ottenne d’installarsi presso l’acqua, per quanto essa fosse pesante e leggermente salata.
In seguito Abramo tornò a visitare Agar e Ismaele; Dio gli ordinò in sogno di sacrificare il figlioletto, e Satana – che tentava di persuadere il Patriarca e i suoi cari a disobbedire al Signore – fu lapidato. Abramo eseguì in effetti l’ordine divino, ma al posto di Ismaele trovò miracolosamente un ariete. Il corano attribuisce dunque a Ismaele il racconto che la Bibbia attribuisca a Isacco; e aggiunge che Isacco fu il premio assegnato da Dio ad Abramo per aver superato la prova. Ismaele, capostipite degli arabi, è quindi il primogenito di Abramo.
La Kaaba fu costruita sul luogo della “Casa del Signore” da Abramo e da Ismaele. La Pietra Nera fu murata nell’angolo del nuovo edificio.
Il Corano è la fonte primaria dell’Islam (secondo gli sciiti, addirittura l’unica). Dettato direttamente da Dio, esso emana da Lui ma è increato: è la Sua Parola, il Verbo (la medesima funzione assolta nel cristianesimo dal Figlio di Dio, la sapienza, detto Egli stesso – appunto – Verbo – e identificato dal Vangelo di Giovanni con Gesù). La maggioranza dei musulmani affianca al corano la Sunna (“tradizione”), un insieme di detti e fatti memorabili del Profeta (gli hadith): per i musulmani detti appunto “sunniti”, la Sunna è sacra come il Corano.
Il muslim, cioè il vero e perfetto credente, si affida a Dio secondo l’insegnamento del corano e ritiene Muhammad il “Sigillo della Profezia”, l’ultimo dei profeti. Egli riconosce un nucleo di verità nelle Sacre Scrittura degli ebrei e dei cristiani, detti appunto ahl al-Khitab, “popoli del Libro”, fedeli all’unico vero Dio e pertanto distinti dai pagani: ma ritiene che le loro scrittura siano inquinate dagli uomini, che non le hanno tramandate secondo la loro purezza originaria. Non così il Corano, che è la pura Parola di Dio.

Bibliografia
Encyclopaedia of Islam,
n.ed., voll. 12, Leiden, Brill, 1986-2004; An historical Atlas of Islam / Atlas historique de L’Islam, A. Birken, dir. H. Kennedy, Leiden-Boston-Köln, 2002; Atlas of Islam, 1800-2000, Leiden-Boston, Brill, 2010.

In tempi come i nostri d’inflazione di veri o fasulli titoli di studio ma di seria eclisse culturale e di diffusione di gravi e diffuse forme di “analfabetismo di ritorno”, ci càpita di apprendere per bocca di illustri parlamentari, di noti conduttori televisivi, di rinomati giornalisti, di celebri “esperti” e perfino di rispettabili prelati che la Bibbia è il libro dell’amore e della pace, il Corano quello della violenza e dell’odio; che la fede cristiana, nel corso dei secoli, si è affermata con la dolcezza e la persuasione, quella musulmana con la guerra e la spada; che mentre la tradizione biblica è profondamente connaturata alla cultura occidentale, quella cranica le è estranea.
La prima affermazione è una menzogna fondata sulla confusione e la mistificazione dei dati di fatto. La seconda è una bugia totalmente infondata. La terza riposa su una visione semplicistica e mutilata del rapporto tra le civiltà ebraica, cristiana e musulmana, del loro comune backround abramitico per un verso, ellenistico per un altro e dei loro continui, profondi rapporti. Vediamo brevemente come e perché.
La Bibbia, i testi che costituiscono la quale si sono andati redigendo e coordinando nel corso di circa otto secoli (tra X e II a.C.), è un insieme di libri a carattere giuridico, storico, etico-gnomico e profetico-escatologico. Lasciamo da parte qui il fatto che essa venga considerata dai credenti ebrei (e anche dai cristiani, che l’hanno ereditata: per quanto le due tradizioni non siano al riguardo proprio identiche) come ispirata da Dio, ma passata attraverso una tradizione storica umana, laddove il Corano viene considerato dai credenti musulmani del tutto esente dall’inquinamento della volontà e degli errori dell’uomo. Resta il fatto che il Corano si presenta come un testo al tempo stesso normativo ed escatologico-profetico, redatto e fissato nel breve volgere di alcuni decenni e nel quale gli elementi propriamente storici sono sì presenti, ma molto meno evidenti che non nel testo biblico. Al di là di quel che ritengono teologi e devoti delle tre religioni monoteistiche, è evidente che da un obiettivo punto di vista storico-filologico non si possa astrarre da un fatto: si tratta di pagine che non possono essere lette senza un adeguato lavoro esegetico. Nella teologia cristiana medievale si elaborò il metodo della lettura della Bibbia a quattro livelli, distinti ancorché compresenti: il letterale, l’allegorico, il morale, l’anagogico (cioè riferito alle verità supreme). È quindi logico, ad esempio, che il ricordo delle sanguinose guerre dell’antico popolo d’Israele non doveva servire ai cristiani (per quanto di fatto servì spesso loro) come modello di odio e di violenza, bensì – ad esempio – come insegnamento di forza e di coraggio nell’affrontare la lotta spirituale contro il male e il peccato. Anche Gesù, che pure ha proclamato “beati i pacifici”, ha affermato di non esser venuto sulla terra a portare la pace, ma la spada; e che chi non ha la spada deve vendere il mantello per comprarne una. E di questo passo si potrebbero moltiplicare gli esempi. Ma se tutti i cristiani sanno bene che tali parole vanno lette in senso allegorico-morale, nasce il problema di quando gli insegnamenti scritturali vadano intesi allegoricamente e quando presi alla lettera. Ed è troppo comodo escamotage il risolvere in termini sempre e comunque pacifici la propria tradizione e accusare di violenza l’altrui.
Non c’è dubbio che ebraismo, cristianesimo e Islam aspirino concordemente e profondamente alla pace: che tuttavia non è tanto “assenza di guerra” quanto concordia intima e profonda tra la volontà divina e quella umana. L’aspirazione profetica al giorno nel quale le spade si convertiranno in aratri e le lance in vomeri è profondamente condivisa da cristiani e da musulmani: ma ciò non toglie che, nel corso concreto della storia, i credenti si siano trovati spesso dinanzi al problema della guerra e abbiano dovuto risolvere la questione della sua giustezza, del suo rapporto con la volontà di un Dio che si presenta comunque come infinitamente buono, clemente, misericordioso, e che pure permette il male nel mondo. Con la differenza che ebraismo e Islam sono “religioni di legge”, mentre il cristianesimo si affida e s’ispira principalmente alla misericordia e al perdono. Ma, una volta di più, prendere alla lettera le Scritture (oppure, quando fa comodo, ignorarle) non risolve alcun problema. Quel che è necessario è rendersi conto di come esse si siano trasformate in valori creatori e promotori di storia.
Ebbene, duole dirlo: ma, inversamente a quel che con troppa leggerezza si afferma, non è affatto vero che nel corso della storia i cristiani abbiano sempre privilegiato la pace nell’affermare e nel propagare la loro fede, mentre i musulmani sarebbero ricorsi più o meno sistematicamente alla violenza. Anzi, è vero quasi perfettamente il contrario.
Una sia pur superficiale, ma seria conoscenza della storia, basterebbe a persuaderne chiunque. Non c’è dubbio che i missionari cristiani abbiano scritto, da Paolo di Tarso a Charles de Foucault e oltre, splendide pagine di bontà, d’amore, di mitezza e di martirio: e che il loro esempio abbia ben pochi corrispettivi in altre tradizioni religiose. Ma per le società costituite e il loro uso della fede come instrumentum regni, il discorso cambia radicalmente. È noto che i primi cristiani furono a più riprese crudelmente perseguitati e perfino massacrati fra I e IV secolo d.C. Ma è altrettanto vero e molto meno noto che l’impero, divenuto cristiano e usando la religione “di stato” come instrumentum regni, fece altrettanto e perfino peggio nei confronti dei pagani. I massacri di Teodosio gli valsero, alla fine del IV secolo, la condanna di sant’Ambrogio. L’Egitto tardoantico fu cristianizzato dai monaci itineranti detti circumcelliones, i cui argomenti principale erano grossi bastoni. Le guerre di conquista di Carlomagno in Germania (44500 sassoni uccisi tutti in una volta a Verden in Sassonia per aver rifiutato il battesimo) e dei basileis bizantini dall’Anatolia ai Balcani si dicevano condotte per dilatare i confini della fede. Lasciamo perdere le crociate, condotte non solo contro i musulmani ma anche contro i cristiani eretici: ma cavalieri teutonici e portaspada hanno cristianizzato con la forza, fra XIII e XIV secolo, una sterminata area tra Prussia ed Estonia. Quel che hanno combinato i conquistadores spagnoli nel subcontinente mesoamericano lo sanno un po’ tutti (ma ignorano che i roghi degli indios pagani sono durati fino al Settecento); meno noto è però, purtroppo, quel che hanno fatto i missionari soprattutto presbiteriani inglesi nel nord, nei confronti dei pellerossa (“i bambini indiani vanno uccisi perché le uova di pidocchio generano soltanto pidocchi”; “il miglior indiano è un indiano morto”). Tra XV e XVII secolo, Spagna e Portogallo hanno condotto un’autentica sistematica campagna di “pulizia etnoreligiosa” contro marranos ebrei e moriscos musulmani: l’entità della loro cacciata non ha riscontri nella storia. C’erano missionari, a bordo delle navi negriere, e consolavano i poveri schiavi rischiando la vita; ma i negrieri stessi erano sovente ottimi predicatori della Bibbia alla loro sventurata clientela. Per non parlare della ferocia e dell’odio reciproco con i quali (nel nome di Dio, e pacifica Bibbia alla mano) cattolici e protestanti si sono affrontati nelle guerre di religione prima della Francia del tardo Cinquecento, quindi in tutta Europa durante la “guerra dei Trent’Anni”, fra 1618 e 1648. Se il paganesimo è scomparso e il cristianesimo si è affermato, tra America e larga parte dell’Africa e dell’Oceania, lo dobbiamo alla violenza dei conquistatori e dei colonizzatori, non all’amore e alla forza pacifica di convincimento di buoni. E che queste cose avvenissero nel nome di un Dio d’amore le rende solo più odiose e più infami. Anche una volta cessate di essere cristiane, le società occidentali hanno continuato a usare la fede come pretesto per le conquiste coloniali: ne sapeva qualcosa il Congo di re Leopoldo del Belgio, e perfino gli italiani in Libia e in Etiopia (paese oltretutto ben più profondamente cristiano dell’Italia umbertina e fascista).
L’Islam non ha mai fatto nulla di tutto ciò. Le comunità cristiane nei paesi “sommersi dall’ondata islamica” hanno resistito quasi dappertutto e sussistono ancora, magari in dimensioni ridotte: ma l’Islam non ha mai accompagnato le sue conquiste conducendo sistematiche campagne di conversione. I musulmani si limitavano a chiedere ai “Popoli del Libro” soggetti (ebrei, cristiani, ma anche zoroastriani e buddisti) di accettare il predominio islamico: ciò comportava una certa soggezione anche civile, ma non la persecuzione e tanto meno la conversione obbligata. Non che non ci siano stati episodi di crudeltà (basti pensare al massacro degli abitanti di Lepanto nel 1480), e tantomeno che la maggior moderazione derivasse da un più alto grado di “mitezza”. Il fatto è che dai monoteisti non-musulmani, i poteri islamici pretendevano due tipi di tasse (la capitazione personale, jizya, e quella sui beni fondiari, kharaj): ed erano pertanto abbastanza restii a rinunziare a tale gettito fiscale.
Quando si pensa alla straordinaria velocità con cui l’Islam s’impadronì del bacino mediterraneo dalla Siria alla Spagna, si dimentica di osservare che le società cristiane di quel tempo erano lacerate dalla lotta religiosa interna. E che tanto il governo bizantino quanto quelli romano-barbarici che fino all’XVII secolo dominavano la Spagna consideravano i cristiani dissenzienti dalla loro linea ufficiale, gli “eretici”, come criminali, che venivano trattati a colpi di deportazione, di pressione fiscale inaudita, di lavori forzati. I cristiani “copti”, cioè monofisiti, d’Egitto e di Siria considerarono una manna il fatto che i musulmani li avessero liberati dalla tirannide bizantina; quando nel 1453 gli ottomani presero Costantinopoli, il patriarca ortodosso Gennadios si affrettò a dichiara di preferire “il turbante alla tiara”; nel 1570, gli ortodossi greci di Cipro accolsero a braccia aperte i turchi che li avevano liberati dalla tirannide veneziana. Fate quel che vi pare, agitatevi finché volete: ma questa è storia. Il resto è malafede, propaganda tendenziosa, incitamento all’odio, bugia, sfruttamento dell’ignoranza, circonvenzione d’incapaci a pensare e a informarsi.