Domenica 17 novembre 2024
XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, Santa Elisabetta d’Ungheria
SUL TRONO DEL MONDO LIBERO
IL GRANDE CAPO BIANCO
di Kesiana Lekbello
Poco più di due secoli or sono il capo indiano Seathl si rivolse così al presedente degli Stati Uniti Franklin Pierce (1804-1869): “Il Grande Capo di Washington ci informa che desidera comprare la nostra terra. Il Grande Capo ci ha anche rassicurato la sua amicizia e benevolenza. Rifletteremo sulla sua offerta, perché sappiamo che, se non lo facciamo, l’uomo bianco verrà con le armi e si prenderà la nostra terra. Come potete comprare o vendere il cielo, il calore della terra? Quest’idea ci è estranea. Noi non siamo padroni della purezza dell’aria o dello splendore dell’acqua. Come potete allora comprarli da noi? Ogni foglia rilucente, tutte le spiagge di fine sabbia, ogni velo di nebbia nelle foreste scure, ogni bagliore di luce e tutti gli insetti che vibrano sono sacri nelle tradizioni e nelle coscienze del mio popolo. Sappiamo che l’uomo bianco non comprende il nostro modo di vivere. Per lui, una zolla di terra è uguale all’altra. Perché egli è un estraneo che viene di notte e ruba tutto quello di cui necessita. La terra non è sua sorella, e dopo averla esaurita, lui va via. Non ha rispetto. La sua sete di possesso impoverirà la terra e lascerà dietro di sé deserti”[1].
Ci risiamo. Mi si potrebbe dire che si tratta di storie passate (vedi colonizzazione), ma si corre un certo pericolo a trattare questi temi come se fossero gli unici, o quasi gli unici problemi che non ci riguardano più in quanto storie passate. Perché, partendo da queste storie, i problemi posti o non formulati da noi uomini bianchi girano intorno a questa preoccupazione che tormentavano Seathl, il capo indiano: “La sete di possesso impoverirà la terra e lascerà dietro di sé deserti”.
Mentre il paradiso perduto che si trovava nel Nuovo Mondo è scomparso, il Grande Capo di Washington è ancora vivo e vegeto, e continua ad essere eletto ogni quattro anni: il nome cambia, il pelo no.
E tuttavia, non vorrei mettere l’accento sugli eletti Grandi Capi di Washington e nemmeno sulla zoologia di cui fanno parte i falchi, i lupi, gli sciacalli… ma una presa di coscienza “totale” del significato storico-sociale del progresso e dello sviluppo credo che sia necessario. Quindi: a chi si devono gli insuccessi?
Proprio in questi giorni è in corso la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici organizzata dall’Azerbaigian (Cop29, 11-22 novembre 2024), ma pare che il negoziato veda già i paesi (198 nazioni) in disaccordo su tutto, così che molti sospettano che si deciderà ben poco anche sulle regole per finanziare il clima. “Il mondo è sulla strada della rovina”, ma i paesi poveri non sono in grado di finanziare nulla, visto che vivono una doppia crisi: climatica e di debito.
E se i soldi non ci sono, ripartire e progettare è impossibile. Quali che siano state o siano le responsabilità, sia collettive che individuali, non si possono di certo minimizzare le condizioni oggettive di uno sviluppo e progresso senza limiti, perché il rischio è grande. Spesso sentiamo dire che l’essenza della civilizzazione è stato l’imperialismo, ed è nella comprensione ferma di tale essenza che l’uomo del XX e XXI secolo continua a vantare il progresso e la cultura, lo sviluppo e il liberalismo, la libertà e la democrazia come il miracolo rispetto al quale tutti i popoli devono prendere esempio per liberarsi dall’oppressione autocratica, oligarchica… per vivere, dunque, all’altezza dei tempi (occidentali).
L’avvento dell’industrializzazione e il dominio tecnologico sulla natura hanno fatto credere all’uomo che ben presto si sarebbe realizzata la felicità universale, con la soddisfazione di ogni bisogno, un’illimitata libertà personale, la democrazia e la pace sociale. O, per lo meno, era quello che la gente credeva; e benché questa situazione fosse propria delle classi medio-alte, il loro esempio induceva altri a supporre che, alla fine, la nuova libertà sarebbe stata estesa a tutti i membri della società, a patto che l’industrializzazione continuasse con lo stesso ritmo. Ma il culto del progresso, l’innovazione, le Big Tech (le piattaforme di sorveglianza cui abbiamo ceduto i nostri dati) e lo sviluppo del sistema economico non vengono più condizionati dalla domanda: “che cosa è bene per l’uomo?”, bensì da un’altra: “che cosa è bene per lo sviluppo del sistema?”. La soddisfazione illimitata di tutti i desideri non comporta il vivere bene e meglio, né rappresenta la strada per raggiungere la felicità. Il sogno di essere padroni assoluti delle nostre esistenze ha avuto fine quando abbiamo cominciato ad aprire gli occhi e a renderci conto che siamo tutti divenuti ingranaggi della macchina burocratica, e che i nostri pensieri, i nostri sentimenti e i nostri gusti sono manipolati dai governi, dall’industria e dai mezzi di comunicazione. Questo sistema capitalistico, neoliberale domina ormai da tempo: coloro che gridano al pericolo incombente dopo la nuova elezione del Grande Capo di Washington sembrano svegliarsi da un letargo infinito e sconnesso dalla realtà. “L’occidente democratico”, il “mondo libero”… Ma permettetemi: chi pensa che l’avvento del nuovo Grande Capo sia diverso dal vecchio Grande Capo e da tutti i Capi vassalli del Mondo Nuovo, fa torto alla storia.
Ecco allora che anche il progresso economico è rimasto limitato ai paesi ricchi, e la distanza tra nazioni ricche e nazioni povere si è più che mai ampliata, come emerge anche nel Cop24 in corso. Lo stesso si può dire anche in merito al progresso tecnico, che ha avuto come conseguenza il manifestarsi di pericoli ecologici e di rischi nucleari: gli uni e gli altri, agendo isolatamente o insieme, possono mettere fine all’intera civiltà e forse anche a ogni forma di vita sul nostro pianeta. Chi si dichiara progressista, perché ama e sostiene le politiche riformiste e innovatrici, perseguendo il progresso in campo sociale, politico ed economico, o chi si chiama conservatore perché diffida nei mutamenti improvvisi sostenendo l’opportunità di preservare un determinato ordine istituzionale, religioso, sociale… i dati di fatto che abbiamo sott’occhio comprovano con la massima evidenzia che la nostra modalità di “perseguimento della felicità” non ha per effetto il nostro vivere bene. La nostra è una società composta da individui notoriamente infelici: ansiosi, isolati, iperconnessi, in preda a stati depressivi e a impulsi distruttivi, incapaci di indipendenza, in una parola esseri umani ben lieti di poter ammazzare il tempo che, con tanto accanimento, cercano di risparmiare.
Questa mutazione non parla più degli ideali come guida. Oggi i progressisti (mi rifiuto di chiamarli “di sinistra”) sostengono che non bisogna guardare al passato e che non bisogna usare il linguaggio del Novecento in quanto vecchio, perché occorre guardare al presente e dare risposte al presente, con un nuovo linguaggio. Questa scelta è di per sé un nuovo manifesto liberale, completamente privato della sua ragione d’essere, ovvero la prospettiva socialista. Non è questa, com’è evidente, la sede in cui sia possibile impostare e risolvere una questione di simile complessità; e, ancora una volta, al lettore non verrà inferto il torto della “semplificazione”. Ma se, sia pure rapidamente, si guarda nel fondo di quel problema non è impossibile, forse, arrivare a comprendere che con ogni evidenza il marxismo si presenta ancora come un’autocoscienza filosofica, e comunque reale, dei processi obiettivi delle cose.
Di certo, ai giorni nostri, questa perentoria filosofia marxista si trova in crisi profonda (non era così nel marxismo dell’Est europeo, dell’Unione Sovietica e dei Balcani), ma non dimentichiamo che in Occidente Marx ha conosciuto, e conosce, una fortuna travolgente, ma solo in teoria.
Perché se il Marx teorico è ancora attualissimo, non si può negare che nella società ipercapitalistica, neoliberale la gente è attratta da ciò che è meccanico, dalla macchina possente, senza vita e, in misura sempre più preoccupante, dalla distruzione. La nostra fame di conquista e la nostra ostilità ci hanno resi ciechi all’evidenza del fatto che le risorse naturali hanno precisi limiti e possono anche finire, con buona pace della deriva neoliberalcapitalistica. Tuttavia, da parte mia, con tono semplice e dimesso, chiedo scusa al capo indiano, con il dovere di imparare ciò che la storia mi/ci insegna.
[1] Il testo riportato ripropone i passaggi iniziali della lettera inviata nel 1855 dal capo indiano Seathl al presidente degli Stati Uniti Franklin Pierce (1804-1869), in seguito alla richiesta del governo federale di acquisire il territorio della tribù Duwamish nell’odierno Stato di Washington (in Un’altra storia di B. Biggio, Fabbri Editore, 2019, p. 223).