Minima Cardiniana 491/2

Domenica 8 dicembre 2024
II Domenica d’Avvento, Immacolata Concezione

RINASCE NOTRE-DAME
UNA FESTA PER PARIGI E PER L’EUROPA
“Vergine Madre, Figlia del Tuo Figlio,
umile ed alta più che creatura,
termine fisso d’umano consiglio”;

“Bella Tu sei qual Sole,
bianca più della Luna”;

Ave Maria, Gratia Plena,
Dominus Tecum

Chiedo spesso a Dio di tenermi ancora in vita. Lo so: è una preghiera miserabile, soprattutto dopo gli ottant’anni: ben dieci al di là del celeberrimo limite biblico. A Dio dovrei chiedere ben altro. Ma in fondo, è vero quel che diceva il dottor Martin Luther agostiniano, grande teologo, immenso rompiscatole: siamo tutti mendicanti.
Certo, sarò un miserabile ma sono anche furbastro. Mica glieLa chiedo così al Signore, nuda e cruda, questa grazia. Mi càpita di ammantarla di nobili ideali, di alte prospettive. Ciò vale per il giorno della “Madonna di dicembre” di quest’anno. L’8 dicembre, Immacolata Concezione di Maria, sarò a Dio piacendo (e di ciò Lo prego) a Parigi. Prego di esserci. Perché riaprirà al culto e alla gioia di tutti noi la bella, la grande, l’eterna Notre-Dame chiusa dopo l’incendio di quel dannato 15 aprile di cinque anni fa. Il giorno nel quale la flèche e il tetto della cattedrale della Ville Lumière andarono a fuoco crollando in un mare di fiamme. E il cuore di tutti noi bruciò con loro.
Lo so: non è né la più grande, né la più bella tra le cattedrali di Francia e tra le chiese del mondo. Ma, che volete? Siamo europei. È la chiesa con la quale Viollet-le-Duc coronò il sogno del “suo” nuovo medioevo: di un medioevo falso magari, ma più “bello”. È la chiesa del sacre di Napoleone, quella che ha commosso Hemingway, quella degli innamorati di sempre. È quella di Victor Hugo e della bella Esmeralda (la ricordate, Gina Lollobrigida nel suo abito rosso di gitane?) della quale noi ragazzi di una settantina di anni fa siamo stati tutti innamorati e lo saremo per sempre.
Io sono un pover’uomo: ma di grazie da Dio ne ho ricevute tante, tutte immeritate. E, fra le altre, queste. Una grazia amara, che mi ha fatto piangere. Ma lo ringrazio anche di quella, forse soprattutto per quella.
La storia in diretta. L’esserci stato. L’aver visto. L’essere testimone oculare.
Che cosa vuol dire, tutto sommato? Quando discutevo da ragazzo con mio padre della seconda guerra mondiale, e non eravamo d’accordo su nulla – aveva ragione lui: ma io avevo studiato, e lo fregavo sulla dialettica –, arrivava il momento in cui esasperato quasi mi urlava in faccia: “Ma queste cose le vuoi insegnare a me che c’ero, che le ho viste?”. E io di rimando, gonfio dei meriti che invece erano suoi, che si era dissanguato per farmi studiare: “Sì, te le insegno perché so la storia, e i ‘testimoni oculari’ dei fatti storici non ci capiscono mai niente”.
Lo ripeto, aveva ragione lui, e io ero un ragazzino saccente e sleale. Ma avevo capito già (e lo avrei approfondito in seguito, facendo il mio mestiere) che non c’è nulla di più insicuro e di più ingannatore dell’esperienza storica, della testimonianza diretta. Quante povere donne sono finite sul rogo, fra Trecento e Settecento, perché c’erano tanti bravi paesani e tante buone contadine, tutti pronti a giurare dinanzi al giudice – e spesso in buona fede – di averle viste volare di notte a cavallo di una scopa?
Eppure, l’esserci stato conta. Anche quando poi sbagli nel giudicare o menti nel narrare. Conta perché c’è differenza. Come c’è tra il raccontare di aver riso, aver pianto, aver amato, aver sofferto e l’aver davvero, con tutte le fibre, riso, pianto, amato, sofferto.
E io c’ero: io ho visto, ho testimoniato. Ero là, quel pomeriggio del 15 aprile 2019. Se chiudo gli occhi, mi ci rivedo. E vorrei dire che ci ripenso tutte le notti: e so che non mi crederete. Ma è la verità. Quel giorno infocato m’è restato dentro: ed è sempre là, nel fondo buio e limaccioso dei miei pensieri e delle mie fantasie. Come succede con la ragazza che si è amato sul serio e alla quale si ripensa di continuo, ogni ora, ogni minuto, anche senza rendercene conto.
Verso le lei e mezza del pomeriggio, a metà aprile c’è già tantissima luce. Noi la diciamo “latina”, Parigi: ma ha quasi la stessa latitudine di Londra. Dopo un’intera giornata di lavoro in quello studio al primo piano di un vecchio palazzo di rue Dauphine, a un passo dalla Tour de Nesle che apparteneva alla vecchia cinta muraria della Cité – 18 metri quadri di serenità piena di libri, dove da un quarto di secolo mi rifugio ogni volta che ho qualche giorno libero –, la primavera che premeva da dietro i vetri lì mi tentò irresistibilmente. Non è mio, quell’angolo di Ville Lumière: ma un’amica gentile lo mette a mia disposizione ogni volta che glielo chiedo, e ormai è come se lo fosse.
Quel 15 aprile, a un tratto – ne succedono di cose strane… – sentii un bisogno irrefrenabile di uscire a far quattro passi lungo la Senna oppure di attraversare il Pont Neuf per dirigermi verso la Sainte Chapelle o alla volta di Saint-Eustache, alle Halles. Più tardi, mi sarei chiesto se quel bisogno non era piuttosto un richiamo: o forse un presagio. Ne ho avuto, ne ho paura: e ne sono rimasto affascinato, avvinto per sempre.
Era il 15 aprile del 2019, Lunedì Santo, sei giorni prima di Pasqua. Là nell’emiciclo all’incrocio tra rue Dauphine, Quai de Conti e Quai del Grands Augustins, all’imbocco del Pont Neuf, una piccola folla sostava attonita, silenziosa, lo sguardo rivolto a destra, verso est. Quel silenzio mi sorprese: anche perché contrastava bizzarramente con l’onda dell’improvviso, incomprensibile rumore proveniente da quella parte e che andava aumentando. Troppo, per un pomeriggio come gli altri. Ma un rumore artificiale e meccanico, indecifrabile: come un mareggiare lontano.
Là, a partire da un punto che ci parve situato dietro l’abside di Notre-Dame, si alzava dritta nel cielo senza vento un’alta colonna di fumo denso e bruno; alla base di essa guizzavano inconfondibili lingue di fuoco rosso-arancio; su nel cielo, a qualche centinaio di metri, il vento che in quota era più forte stava mutando quella colonna di fumo in una nube scura che minacciosa si andava allargando in direzione sud-ovest, verso Montparnasse e la Tour Eiffel.
Attratto da quello spettacolo mi avviai nella direzione dalla quale la colonna di fuoco e di fumo pareva sprigionarsi: tuttavia, con una scelta che pur avvertivo illogica, invece di percorrere il Quai des Grands Augustins mantenendomi sulla rive gauche, preferii passare il ponte, girare a destra e procedere per la rive droite, percorrendo il Quai de la Mégisserie. Mi pareva – e lo speravo – che l’incendio si fosse sviluppato là, in qualche parte tra il Marais e Place de la Bastille. Il cuore mi batteva forte in gola: procedendo a passo sempre più sostenuto, quasi di corsa – attorno a me, altri facevano la stessa cosa – arrivai fino a Place du Châtelet dove dovetti arrestarmi. Il traffico era ormai paralizzato in un immenso ingorgo, ma la città impazziva di rumori, di sirene, di suoni di clacson: e perfino noialtri pedoni eravamo imbottigliati. Tuttavia mi colpì il silenzio della folla che si era fatto profondo, pauroso; e i clamori unicamente meccanici non facevano che sottolinearlo. Quel silenzio, lo conosco. È lo stesso che si fa nelle piazze e per le strade delle città andaluse, la notte del Venerdì Santo, quando passano le Cofradias de Silencio, quando passa il Cristo del Gran Poder a Siviglia o la Virgen Morena a Granada.
Qualcuno bisbigliava nelle orecchie dei vicini, come in chiesa. Là oltre il fiume, al di là dei palazzi del Lungosenna e della mole dell’Hôtel-Dieu, la cattedrale di Notre-Dame – Nostra Signora, quella di Victor Hugo e di Eugène Viollet-Le-Duc – stava bruciando. Da dove mi trovavo potevo veder chiaramente la guglia centrale, la grande flèche puntata verso il cielo, che ardeva avvolta di fiamme.
Un enorme fiammifero acceso alto su Parigi. Per una strana ma spontanea associazione d’idee mi venne in mente una poesia di Jacques Prévert: una notte buia, un fiammifero che prende fuoco, la bocca illuminata di una ragazza, un bacio. Verso le sette e mezza, la flèche crollò con uno schianto immenso cui fece eco il grido della folla che ormai aveva riacquistato la voce.
Quando l’immensa guglia di ferro, legno e pietra rovinò con un ruggito da mare in tempesta, in un oceano di fiamme, mi accadde una cosa che mi sconvolse e che non dimenticherò mai: se ci penso, sento ancora un brivido sotto la pelle che arriva fino alla punta delle dita. Fu come se tutta la mia vita mi passasse d’un lampo davanti: dicono che succede così quando si muore. Là, imprigionati in quella guglia, c’erano i miei ricordi, i miei sogni, i miei studi, le risate, i litigi, i ristorantini la sera, le passeggiate mano nella mano, le giornate alla Bibliothèque Richelieu e le serate in métro, le frites mangiate per strada d’inverno che ti scottano le dita, il joli mai, i cinema la domenica al Carrefour de l’Odéon, i tavolini sulle terrasses dei caffè, i bouquinistes. C’era lei che sorrideva triste mentre se ne andava sotto la pioggia. C’era tutto quanto c’era stato e anche quello che non si era mai avverato. Soprattutto quello. Vivo, presente, struggente. Le cose rimpiante, quelle sognate: quelle che fanno più male e che consolano.
Non avrei mai sospettato che fossero là: ora le ritrovavo ad aspettarmi, come bestioline impaurite e infreddolite; ed ero impreparato a incontrarle, e non potevo accoglierle, e le vedevo svanire lontano, e mi sentivo solo e vuoto. Mi coprii la faccia col cavo delle mani e piansi, piansi a dirotto per un tempo che mi parve lunghissimo, come un bambino e come da ormai chissà quando non mi capitava più.
Ma no, non piangevo per quello. Non era Notre-Dame. O meglio, non era soltanto lei. Erano la storia, il gotico, le crociate, Napoleone, Sarah Bernhardt, la guerra mondiale di Céline e di Aragon, Jean Gabin, Juliette Greco, Hemingway ed Ezra Pound e Woody Allen che litigano per strada, i libri della Bibliothèque Nationale e quelli dei bouquinistes, il mio maestro Jacques Le Goff che gusta il suo calice di bourgogne al caffè, il cinema, le canzoni, la libertà, l’amore. Era l’Europa. E l’Europa è Notre-Dame, e Notre-Dame è Parigi, e Parigi è l’Europa. La nostra Europa fatta a pezzi ed eterna, la nostra Europa vinta e immortale.
La rivedremo, tra breve, di nuovo. E rideremo e brinderemo nel freddo dicembre sui quais. E lei sarà più bella di prima. Risplendente quasi come la Vergine Maria: bella come il sole, bianca più della luna.

* * *

Notre-Dame di Parigi. Quella del celeberrimo romanzo di Victor Hugo, uno dei capolavori che hanno contribuito a dare un volto al nostro romanticismo; quella che troneggia al centro dell’isola che spartisce in due fiumi la corrente della Senna e si specchia in entrambi; quella che per tanti di noi è associata a un sogno magari lontano di fiori primaverili, di gioia, d’amore.
Come fosse potuta accedere quella tragedia, non ci è sembrato di averlo mai compreso del tutto. Comunque, tutta Parigi e tutta la Francia lo giurò come un sol uomo. Emmanuel Macron può anche non piacere a tutti. Ma il giorno dopo lo promise pubblicamente a se stesso e al mondo: “Ricostruiremo la cattedrale di Notre-Dame… ancora più bella, di qui a cinque anni”. Merci et félicitations, Monsieur le Président. Ce n’è voluta: à but de souffle, ma è successo. Ed ora, fra il 7 e l’8 dicembre, per la festa dell’Immacolata Concezione della Vergine Maria, sarà festa grande per la reinaugurazione.
Simbolo di Parigi noto quanto la Tour Eiffel, ma più antica e più bella, Notre-Dame è uno splendido monumento-documento, un capolavoro dell’arte gotica matura di esemplare perfezione tanto sotto il profilo artistico-estetico-stilistico quanto sotto quello storico, filosofico e filologico. Nacque in pieno XII secolo: e la sua dedicazione alla Vergine Maria, in un momento nel quale a tutte le nuove grandi cattedrali della Cristianità latina veniva imposto il nome della Madre del Cristo come simbolo glorioso dell’unità della Chiesa attorno a Roma, figura di Maria in quanto Madre di tutte le genti. A fortemente volerla erano stati re Luigi VII e Maurizio di Sully vescovo di quella che ormai era definitivamente la capitale di Francia nonché cancelliere di una delle prime e più prestigiose Università d’Europa, faro degli studi teologici e concorrente di quella di Bologna ch’eccelleva in quelli giuridici. Una tradizione non certissima, però significativa, vuole che a benedire la prima pietra fosse nel 1163 Alessandro VI, papa Rolando Bandinelli senese, deciso avversario dell’imperatore Federico Barbarossa che dal canto suo nemmeno dieci anni prima aveva solennemente legittimato lo Studium bolognese. Parve allora a molti che le due istituzioni universitarie, sorelle e rivali, segnassero simbolicamente il fato dell’Europa cristiana distinta se non divisa in due tradizioni intellettuali, la teologica e la giuridica, e in due obbedienze, la fede religiosa e la lealtà politica. La fabbrica della cattedrale rimase aperta per due lunghi secoli, fino al 1345 circa, e fu diretta da una serie d’illustri capimastri.
Ma Notre-Dame non fu soltanto, dal punto di vista costruttivo, una splendida cattedrale. Fu un laboratorio tecnologico, grazie al suo sapiente programma architettonico che permise l’edificazione di mura meno spesse, sostenute da arditi archi rampanti, da vertiginose vòlte a sesto acuto e tali da consentire ampie pareti perforate da grandi rosoni e da altissime, luminose vetrate policrome che trasformavano la luce del sole in fantasmagorici colori. La facciata occidentale, interamente dedicata alla vita della Vergine dalla nascita all’assunzione e alla regalità di Francia collegata alle figure dei profeti, è un capolavoro di teologia, mariologia e liturgia fatte pietra.
Durante il XIII secolo la cattedrale visse autentici momenti di gloria: come quando, durante il regno di san Luigi IX, arricchì il suo tesoro delle prestigiose reliquie della Passione del Signore, provenienti da Costantinopoli. Essa fu anche il centro intellettuale della teologia e della filosofia scolastica nonché la sede privilegiata nella quale si elaborò lo stile musicale dell’ars antiqua.
Ma i secoli successivi furono di progressiva e sia pure dignitosa decadenza: il nobile edificio dovette adattarsi al mutar degli stili e delle mode, piegandosi al linguaggio estetico rinascimentale e quindi barocco: e tale era il contesto del suo interno durante la Rivoluzione francese, allorché fu ridotta a “Tempio della Dea Ragione”. Tornata chiesa cattedrale, assisté il 2 dicembre del 1804 all’autoincoronazione di Napoleone I. Che fu tra l’altro il primo evento del genere al quale avesse assistito: i re di Francia, tra V e XVIII secolo, erano stati difatti incoronati tutti a Reims.
Comunque nell’Ottocento romantico, grazie al genio letterario di Victor Hugo che le dedicò il suo capolavoro del 1831 e a quello architettonico del Viollet-le-Duc, Notre-Dame tornò attraverso un restauro ventennale tra 1844 e 1864, con qualche modifica peraltro filologicamente tollerabile (il “neogotico”), al suo antico splendore. Dopo allora, essa superò sostanzialmente indenne le due guerre mondiali e suscitando il rispetto dello stesso Hitler, il quale all’“ombra profonda delle cattedrali, che dominava sulle città del medioevo” aveva dedicato un ammirato elogio nei suoi Discorsi sull’arte: egli visitò l’edificio il 23 giugno del 1940. Mezzo secolo dopo, nel 1990, la facciata della cattedrale fu oggetto di un memorabile restauro, costato 21 milioni di franchi dell’epoca.
Dopo l’infausto 15 aprile 2019 ci si mise febbrilmente all’opera. Il restauro, condotto in tempi a lungo giudicati impossibili, ha impegnato le sostanze finanziarie messe a disposizione da 340.000 donatori e ha impegnato un immenso cantiere nel quale hanno lavorato, oltre a migliaia di maestranze, 2000 artigiani provenienti da ogni parte della Francia insieme con alcuni specialisti, carpentieri-restauratori, provenienti dagli Stati Uniti d’America.
Sabato 7 dicembre la cattedrale resuscitata viene proposta in mondovisione. Il giorno successivo, festa dell’Immacolata Concezione della Vergine, è solennemente reinaugurata alle 10.30 con il conclusivo solenne atto liturgico: la reinstallazione e consacrazione dell’altar maggiore. Siamo rinati con Lei, tutti. Salve, Regina.
Franco Cardini