Domenica 19 gennaio 2025, Santi Mario, Marta, Abaco e Audiface
GROENLANDIA ADDIO?
di Luigi G. de Anna
Donald Trump non si è ancora insediato come presidente degli Stati Uniti che l’Occidente è già in subbuglio: il tycoon vuole fare grande l’America, anzi, talmente grande da farla debordare dai suoi confini politici e geografici. Pubblica una carta degli Stati Uniti che comprende il Canada e la Groenlandia; le aspirazioni a una “grande patria” non sono più patrimonio della storia della prima metà del Novecento, ma appartengono anche al XXI secolo. Abbiamo così visto presentare in pubblico da Netanyahu la Grande Israele, Putin indubbiamente sogna una Grande Russia e ora è il turno del nuovo presidente statunitense di sognare.
La mossa di Trump sembra destinata a prevenire il referendum che il governo groenlandese ha previsto per il 2025, riguardante l’indipendenza dalla Danimarca (nel 2017 una commissione costituzionale ha iniziato la stesura della bozza della prima Costituzione).
L’interesse di Trump per la Groenlandia nasce, a parte la mania di “grandezza”, da motivi di sicurezza nazionale, e cioè la preoccupazione per come l’autogoverno dell’isola prevede la difesa nazionale e la politica estera una volta ottenuta l’indipendenza. È evidente il timore di una presunta minaccia russa e cinese; gli USA in passato sono intervenuti sulla Danimarca per impedire la costruzione di aeroporti civili in Groenlandia da parte dei Cinesi (Il Polo, 3, 2022, pp. 53-73), a questo si aggiungono interessi economici, considerate le enormi ricchezze naturali non ancora sfruttate in termini di idrocarburi, oro, diamanti, uranio, piombo, cobalto, rame e nickel.
Per quanto riguarda la Groenlandia (Kalaallit Nunaat), la più grande isola della Terra, a dire il vero la mossa di Trump non è nuova. Già nell’agosto del 2019 aveva presentato alla Danimarca una proposta di acquisto. Il ministro di Stato danese Mette Frederiksen ritenne assurda la richiesta, riaffermando che l’isola non era in vendita e che la Groenlandia appartiene a se stessa, non alla Danimarca. A seguito di ciò, Trump annullò un viaggio ufficiale a Copenaghen, programmato per il mese seguente.
Trump, a dire il vero, non faceva che riprendere il tentativo di acquistare la Groenlandia fatto dagli Stati Uniti già nel 1867 e poi rinnovato nel 1946, quando furono offerti 100 milioni di dollari. D’altra parte, se avevano comprato l’Alaska – doveva pensare il presidente di turno –, perché non ripetere l’operazione con un altro pezzo di Artico?
La storia della Groenlandia conferma come l’interesse dei potentati per la lontanissima terra, colonizzata dai Vichinghi d’Islanda, fosse vivo già nel medioevo. Tramite la Norvegia, l’Islanda conobbe il cristianesimo, introdotto attorno al Mille, da dove la Chiesa di Roma raggiunse la Groenlandia, che divenne così l’avamposto più settentrionale del cristianesimo. La nuova fede, grazie a questa presenza artica, potrebbe essere addirittura riuscita a compiere una fugace apparizione sul suolo americano, dove il vescovo Eirik, nel 1121, si sarebbe recato secondo gli Annali islandesi in cerca delle comunità che i Vichinghi avevano lasciato in Vinland. Ciò ha portato a supporre che il papato si fosse interessato a mantenere viva una presenza cristiana in quei territori dell’America del Nord, teoria comunque che non gode di un supporto documentario o archeologico. È invece vero che il pontefice a più riprese intervenne in favore degli ultimi Scandinavi di Groenlandia, oramai condannati – siamo alla fine del XV secolo – all’estinzione. Il pontefice è dunque l’unico che in Occidente si preoccupi della sorte di questa comunità, come testimoniato da Nicola V, che nel 1448 scrisse ai vescovi d’Islanda ricordando con parole accorate il dramma dei cristiani di Groenlandia. Nel 1492 o 1493 Alessandro VI tornò a manifestare ai vescovi islandesi la propria preoccupazione a questo proposito dato che, a quanto gli risultava, nessun bastimento aveva raggiunto l’isola negli ultimi ottanta anni. Nonostante Innocenzo VIII (1484-1492) avesse nominato un nuovo vescovo per quella diocesi, egli non ne aveva più ricevuto notizia (G. Jones, The Norse Atlantic Saga, London 1964, p. 71; La bolla di Nicola V del 20 settembre 1448 è pubblicata nel Diplomatarium Islandicum, Reykjavik 1893-1956; IV, pp. 749-751).
Con l’estinzione delle colonie scandinave, avvenuta per loro esaurimento umano ed economico, la Groenlandia esce dalla scena europea, per rientrarvi nel 1721 con l’arrivo di missionari danesi.
La Groenlandia comincia allora ad assumere un certo interesse per gli europei, pur essendo, ancora oggi, con circa 0,03 ab/km2, la nazione meno densamente popolata della Terra. È inserita dal 1814 nell’area di controllo artico della Danimarca, che comprende anche l’Islanda e le isole Fär Öer; nel 1953 diventa parte del regno di Danimarca con lo status di unione personale. Nel 1979 ottiene l’autogoverno, riconoscendo il sovrano danese come suo capo di stato. Nel 1982 i groenlandesi (termine che comprende sia i nativi Inuit, sia i discendenti dei coloni danesi mischiatisi con loro), tramite un referendum, manifestano il loro desiderio di allontanarsi dal controllo europeo uscendo dall’Unione Europea. L’autonomia è stata ampliata con un nuovo referendum nel 2008, venendo ad abbracciare le competenze in ambito legislativo, giudiziario e nella gestione delle risorse naturali. L’autogoverno è stato proclamato l’anno seguente. La Danimarca mantiene ancora il controllo sulla politica estera e la difesa militare, e si fa carico di un sostanzioso sussidio che permette alla Groenlandia di mantenere e sviluppare le proprie strutture sociali.
Il rapporto con la Danimarca, nonostante la deriva indipendentista, ostacolata però dall’impossibilità di essere economicamente autonomi (l’ economia groenlandese si basa soprattutto sul turismo e sulla pesca, mentre il 30% del PIL proviene da sovvenzioni della Danimarca), resta molto forte; la lingua danese è ampiamente diffusa accanto al groenlandese (la lingua originariamente parlata dagli Inuit, comunque lessicalmente oggi modificata da imprestiti danesi); i danesi vi possono trovare lavoro e i groenlandesi possono emigrare in Danimarca, dove esiste una loro comunità.
Il legame con gli Stati Uniti è però realmente esistente: inizia con la seconda guerra mondiale a causa dell’occupazione tedesca della Danimarca, che non si estende ai territori artici occidentali, controllati da Stati Uniti e Canada. Gli Stati Uniti stabiliscono nell’estremo nord dell’isola la grande base di Thule e sulla costa occidentale quella di Søndre Strømfjord, che funge anche da aeroporto internazionale.
Di questa base ho un ricordo personale che risale al 1977. Stavo aspettando – era dicembre – che passasse la tempesta, il “piterak”, che aveva investito la Groenlandia orientale, dove ero diretto; passai di conseguenza alcuni giorni nel grande hotel dell’aeroporto. Conobbi il suo direttore, interessato all’archeologia groenlandese, che una sera mi invitò a cena al ristorante della base americana, dove però non era ammessa la groenlandese che mi accompagnava. Questo era il rispetto che gli americani nutrivano per gli indigeni.
Trump lancia nuovamente la sua provocazione, forte del fatto che l’Artico, si scusi il gioco di parole, è oggi una delle aree calde del globo. Il sogno del passaggio a nord-est e a nord-ovest non è più tale. Il cambiamento climatico ha fatto restringere la calotta artica permanente. Da anni si sta seguendo questa evoluzione (vedi quanto scritto sulla rivista dell’Istituto Geografico Polare, Il Polo, 2012, 4, p. 11) che riguarda non solo l’economia, ma anche la geopolitica (Il Polo, 2021, 2, p. 45), tanto che si è parlato di una vera e propria corsa al controllo della nuova rotta del Nord (Il Polo, 2017, 3, p. 38).
Questa rotta interessa ovviamente in primis la Russia (che infatti ha subito fatto sapere che la mossa di Trump viene seguita con estrema attenzione), la quale viene a beneficiare enormemente di un mare artico navigabile in ogni stagione. La Russia, in questa parte cruciale del Nord, da tempo conviveva con la Norvegia (con cui spartisce il controllo delle isole Svalbard) e la Finlandia, cui aveva tolto lo sbocco sul Mar Glaciale Artico. Una Finlandia che però ora, entrata nella NATO, rappresenta una concreta minaccia per Murmansk, una base navale affacciata sul Mare di Barents, di fondamentale importanza per Mosca. Lo spostarsi della Finlandia nel campo anti-russo (decisione del tutto immotivata non avendo la Russia espresso alcun intento aggressivo) non ha messo in pericolo solo lo sbocco nel Baltico, ma ha puntato una pistola carica di missili NATO sulla Penisola di Kola.
Lo sfruttamento economico dell’Artico è iniziato da tempo; ha offerto i suoi vantaggi, ma è stato soggetto anche ai pericoli dell’inquinamento che necessariamente ne derivano (Il Polo, 4, 2011). Questo in Alaska (gli indigeni nel 2005 avevano citato il governo USA per inquinamento), ma anche in Siberia e terre adiacenti. In Nuova Zemlja, sede di esperimenti nucleari, denunciava il quotidiano finlandese Helsingin Sanomat nel 1993, erano stati affondati reattori nucleari. A margine aggiungiamo che in questa isola, nel 1997, venne scoperta l’esistenza di un’etnia fino ad allora sconosciuta.
Nell’Artico la situazione si complica per la diversa valutazione che viene data dello status giuridico del passaggio di nord-ovest, con una sovranità reclamata dal Canada e una dichiarazione degli Inuit che pure la rivendicano (Il Polo, 1, 2011, p. 35 e Il Polo, 1, 2018, p. 45). Nel 2018 era nato un contenzioso tra Stati Uniti e Canada (Il Polo, 3, 2016, p. 9) e questo potrebbe fornire a Trump ulteriore giustificazione per “assorbire” il vicino. L’ipotesi di un Canada cinquantunesimo stato dell’Unione, è stata rigettata da Justin Trudeau, il premier canadese uscente, con queste parole su un post di X: “Not a snowball’s chance in hell”, alle quali Elon Musk, il Pigmalione di Trump, ha risposto con eccesso di ironia: “Girl, you’re not the governor of Canada anymore, so doesn’t matter what you say”. A tutto questo va aggiunto anche l’interesse della Cina, pur non essendo un Paese di competenza artica (Il Polo, 3, 2022, pp. 9-25).
Riguardo alla recente dichiarazione di Trump, Múte Inequnaaluk Bourup Egede, primo ministro groenlandese dal 23 aprile 2021, ha risposto che “il suo Paese non è in vendita”, anche se non intende iniziare un contenzioso con gli Stati Uniti, un Paese con il quale la Groenlandia vorrebbe comunque rafforzare i legami una volta divenuta indipendente. Nel suo discorso di nuovo anno, Bourup Egede ha dichiarato: “It is about time that we ourselves take a step and shape our future, also with regard to who we will cooperate closely with, and who our trading partners will be”. Il governo groenlandese è quindi cosciente che, ottenuta l’indipendenza, il problema sarà la sopravvivenza economica, venendo a cessare il rapporto privilegiato con la Danimarca. È di conseguenza possibile una “americanizzazione” dell’isola, ma questo non vuol dire una cessione di sovranità.
Gli Stati Uniti hanno peraltro già non uno, ma due piedi nell’isola. Nell’estremo nord si trova la base USAF di Pituffik, meglio conosciuta col nome di Thule, una enclave amministrativa situata nel comune di Avannaata, nella Groenlandia settentrionale a 1118 km a nord del Circolo polare artico e a 1524 km a sud del Polo Nord. È il primo esempio di “acquisto” in Groenlandia, in quanto nel 1953 gli Stati Uniti poterono ottenere dalla Danimarca l’uso del territorio necessario per costruire la base. Gli Inuit che abitavano nell’area, come era successo con gli abitanti di alcuni atolli del Pacifico, furono trasferiti altrove. La Danimarca dovette poi recriminare la decisione e protestò a causa delle armi nucleari che vi erano conservate.
Un’altra base militare statunitense era stata costruita sulla costa occidentale: si tratta di Bluie West-8, nota anche come base aerea di Søndre Strømfjord, località nel comune di Oeqqata oggi nota come Kangerlussuaq, non più operativa dal 30 settembre 1992. Qui si trovava l’unico aeroporto commerciale internazionale fino all’apertura del nuovo scalo di Nuuk, la capitale, il 28 ottobre 2024. Gli americani vi si erano stabiliti al tempo della seconda guerra mondiale. La base di Camp Century (1959-1967) era invece situata a 240 km ad est della base aerea di Pituffik. Qui, oltre ad operare come centro di ricerca, doveva far parte di una vasta rete di siti per il lancio di missili nucleari, il progetto Iceworm, progetto però bloccato dal governo danese. La base era alimentata da un reattore nucleare, disattivato nel 1967, lasciando però scorie radioattive.
La presenza militare statunitense ha fatto dire al TG38, un canale toscano, che l’uscita di Trump è naturale, essendo la Groenlandia già di fatto “americana”. Ovvio è il commento che gli USA, stando ai dati del 2021, hanno sparso le loro basi in 43 paesi esteri (ma secondo altre fonti sono 76), e questo non ne autorizza certamente l’annessione.
Come abbiamo visto, Trump in realtà aveva già fatto nel 2019, al tempo della sua prima presidenza, una dichiarazione di interesse per l’acquisto della Groenlandia, ovviamente rigettata, come ricorda il giornalista Christian Ulloriaq Jeppesen. In Danimarca come in Europa, questa dichiarazione fu giudicata una delle abituali uscite del presidente americano. Oggi però le rinnova. Si tratta del ritorno di una boutade, oppure Trump intende veramente iniziare un’espansione artica? Trump non ha addirittura escluso in una conferenza stampa l’uso della forza. Questo aprirebbe uno scenario al limite del teatro dell’assurdo, essendo la Danimarca un Paese membro della NATO, e quindi scatterebbe il famigerato articolo 5. Ma questa volta Trump appare essersi espresso seriamente, tanto che il governo danese ha dovuto riaffermare che il suo territorio non è in vendita e che il futuro dell’isola deve essere deciso dai suoi abitanti. Il re della Danimarca, Cristiano X, per sottolineare l’intangibilità del rapporto con la Groenlandia, ha inserito l’orso polare nello stemma araldico della casa regnante, togliendo le tre corone, simbolo dell’Unione di Kalmar che comprendeva i regni di Norvegia, Svezia e Danimarca.
Francia e Germania si sono affrettate a difendere l’integrità della Groenlandia, mettendo in guardia da un intervento militare. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha ricordato come il principio dell’inviolabilità dei confini si applica ad ogni Paese, “sia esso uno molto piccolo o uno molto potente”. Il ministro degli esteri francese, Jean-Noë Barrot, ha da parte sua dichiarato che è “ovviamente fuori questione” il minacciare i “confini sovrani” di un altro Paese. Possiamo ben immaginarci che cosa sarebbe della teoria della “criminale aggressione russa” se Trump tentasse di annettere manu militari la Groenlandia. E possiamo anche immaginarci la reazione occidentale se Putin proclamasse di volersi annettere l’isola di Hokkaido.
Naturalmente Roma tace. L’asse Trump-Meloni non può essere incrinato dal sospetto di un aggressivo imperialismo statunitense, e neppure da una critica, seppur blanda, anche se il portavoce del governo francese, Sophie Primas, parlando ai rappresentanti della stampa, ha ammesso che c’era una “forma di imperialismo” nella dichiarazione di Trump. “Today, we are seeing the rise in blocs, we can see this as a form of imperialism, which materialises itself in the statements that we saw from Mr Trump on the annexation of an entire territory”. E ha aggiunto: “More than ever, we and our European partners need to be conscious, to get away from a form of naivety, to protect ourselves, to rearm”.
Che questo imperialismo esista è però certamente ipotizzabile, e vedremo presto quale sarà la prossima mossa di Trump, che appunto ha già inserito il Canada e la Groenlandia nell’area della “grande America”. È ironico che nella nuova carta della geopolitica di Trump manchi il Messico, evidentemente per il timore di un’invasione all’inverso di messicani… Ma Trump “salta” il Messico, pur proponendo di togliergli il nome del Golfo su cui si affaccia, che dovrebbe essere “the Gulf of America”. Il presidente messicano da poco eletto, Claudia Sheinbaum, per tutta risposta – come riporta al-Jazeera – ha suggerito che l’intero Nord America, compresi gli Stati Uniti, dovrebbe essere ribattezzato “America messicana”, riprendendo una vecchia denominazione che compare in alcune antiche carte geografiche della regione.
Trump non demorde, e si lancia su Panama, pronto a riprendersi il Canale, il cui controllo era stato ceduto nel 1999; un intervento per nulla ipotetico: il Panama fu infatti già invaso con l’operazione Just Cause con lo scopo di detronizzare il generale Manuel Noriega, invasione iniziata nel dicembre del 1989 e conclusasi nel gennaio del 1990.
Eppure questa volta Trump sembra fare sul serio, rinnovando la sua proposta e mandando il figlio Donald Trump jr in visita in Groenlandia: “For purposes of national security and freedom throughout the World, the United States of America feels that the ownership and control of Greenland is an absolute necessity”, ha scritto alla fine di dicembre in un messaggio di social media annunciando la scelta del futuro ambasciatore di Washington in Danimarca. Il messaggio ha una sua logica: Trump chiama in causa non soltanto la sicurezza degli Stati Uniti, ma anche la libertà del mondo. Ancora una volta torna il mito della libertà per giustificare l’espansionismo statunitense. Libertà, del resto, da chi? Dai groenlandesi e dagli Inuit, in tutto 56.000, notoria minaccia del mondo occidentale? Oppure da russi e cinesi che non hanno manifestato alcuna minaccia nell’Artico americano? Il nazionalismo, anzi, lo sciovinismo di Trump, apre un nuovo scenario in un’aria molto delicata del pianeta e non ci meraviglieremmo se un giorno la stessa attenzione venisse rivolta sull’Antartico.
Quello che è preoccupante è l’atteggiamento abitualmente remissivo dei Paesi europei nei confronti degli Stati Uniti, e la riprova viene proprio dalla Danimarca; infatti Lars Løkke Rasmussen, ministro degli Esteri dal dicembre 2022, ha dichiarato che Copenaghen è “open to a dialogue with the Americans on how we can cooperate, possibly even more closely than we already do, to ensure that American ambitions are fulfilled”. Bontà sua, ha comunque ribadito che la possibilità di una annessione della Groenlandia da parte degli USA debba essere esclusa.
La Russia mantiene la calma, ma osserva con attenzione l’evolversi della situazione. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, il 9 gennaio ha dichiarato che il governo russo, dopo la dichiarazione di Trump che non escludeva un intervento armato in Groenlandia, segue attentamente questo drammatico sviluppo della situazione. “Per fortuna per il momento”, ha concluso, “la questione resta a livello di dichiarazione”.
La strategia di Trump si sta quindi articolando: sarebbe un grave errore prenderlo sottogamba o considerare queste dichiarazioni sulla Groenlandia come un “joke”. Il suo programma è imperialista: “fare grande l’America” significa rafforzare il suo ruolo di prima ed unica potenza mondiale. Il vero nemico è la Cina, e prima di passare a un’offensiva territoriale è necessario minarla economicamente, rafforzando strategicamente la cintura del sud-est asiatico con la collaborazione delle Filippine, ma anche della Corea del Sud, e delle flotte di Giappone e Australia. Gli Stati Uniti controllano peraltro isole e arcipelaghi del Pacifico conquistati con la seconda guerra mondiale. Trump abbandona l’offensiva antirussa di Joe Biden, cogliendone peraltro i frutti in termini di sanzioni e di rafforzamento della presenza in Europa, in quanto la guerra alla Russia non è il suo obiettivo primario. Inoltre deve riportare la tregua in Medio Oriente per poter riannodare i rapporti con i Paesi del Golfo senza scalfire gli interessi di Israele. È purtroppo probabile un ennesimo congelamento della questione palestinese. Dopo un genocidio, dopo una notevole perdita di soldati israeliani, la questione palestinese resta irrisolta. Si potrà raggiungere un temporaneo accordo, ma l’odio seminato dal genocidio israeliano germoglierà.
Sul versante opposto, si rafforzano i BRICS; la bilancia pende ancora a favore degli Stati Uniti, ma quello che una volta era il Terzo Mondo, si sta rafforzando. Ernesto Che Guevara non era un sognatore.