Minima Cardiniana 492/5

Domenica 19 gennaio 2025, Santi Mario, Marta, Abaco e Audiface

LETTERA APERTA A GIORGIA MELONI
di Luigi Copertino
Gentile Signora Meloni,
mi sento autorizzato ad indirizzarle questa lettera perché potrei essere suo fratello maggiore non solo per via dell’anagrafe ma anche dal punto di vista politico essendo stato a suo tempo, nel periodo a cavallo tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso, militante del Fronte della Gioventù, all’epoca organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano. Come l’amico Franco Cardini lo fu della Giovane Italia che, negli anni cinquanta e sessanta, era la denominazione precedentemente usata da quella organizzazione.
La ragione di questa mia nota sta nel fatto che è ormai venuto il tempo che Lei si decida a eliminare dal simbolo del suo partito la fiamma tricolore perché il cammino politico intrapreso da Lei e dalla sua organizzazione politica stanno portando entrambi molto lontano dalla storia che quella fiamma richiama. Essa, dispiace dirlo ma la franchezza è necessaria, non appartiene più né a Lei né al suo partito e onestà di intenti dovrebbe indurla a lasciarla ad altri.
La rottura definitiva con la tradizione politica che quella fiamma rappresenta è emersa dal suo recente accompagnarsi – politicamente si intende – con Javier Milei, attuale presidente dell’Argentina. Il suo accostamento politico all’anarcoliberista con la motosega non può, purtroppo, essere catalogato nel novero delle normali relazioni istituzionali tra statisti alla guida di due nazioni. Lei, signora Meloni, ha invitato Milei alla kermesse del suo partito, nota come Atreju, e lo ha presentato ai suoi come uno dei vostri, uno che sta, a suo dire, dalla parte di chi lavora per il bene comune nazionale. Mi permetterà in proposito di sollevare molti dubbi, perché non si fa il bene della propria patria legandone il destino monetario ed economico ai vincoli esterni imposti da Washington e dal Fondo Monetario Internazionale. Anche laddove, come nel caso argentino, c’è il problema dell’alta inflazione la quale è in gran parte dovuta a squilibri tra domanda e offerta dipendenti da svariati fattori, non ultimo la mancanza di una solida base industriale interna che comporta la pressoché assoluta dipendenza del Paese dalle importazioni e dai capitali esteri, esponendolo al costante ricatto di un debito estero sempre in aumento.
Milei è esponente dell’anarcoliberismo che è la corrente più estremista e radicale di quella follia ideologica la quale risponde al nome di liberismo o neoliberismo. Per gli anarcoliberisti – che in questo, lo dicono loro stessi, sono profondamente marxiani senza essere marxisti – lo Stato è un nemico e dovrebbe essere demolito, e venduto, pezzo per pezzo (questo è il senso della motosega imbracciata da Milei) lasciando tutto, la sanità, la previdenza sociale, la scuola, la giustizia, alla mano invisibile del mercato che, secondo questi estremisti del liberismo, sarebbe capace di far funzionare meglio anche i comparti sociali in questione. L’anarcoliberismo vuole privatizzare persino ciò che il liberalismo/liberismo classico comunque ritiene funzioni statali ossia l’esercito, la difesa, l’ordine pubblico, l’ordinamento giudiziario e la moneta.
Mi pare una prospettiva molto lontana dalle radici di un partito, il suo, signora Meloni, che affondano in quella un tempo chiamata “Destra Sociale” la quale assegna allo Stato funzioni sociali e di intervento economico molto più profonde e vaste, pur senza abolire il mercato ma “socializzandolo”. Per questo, come dicevo, ormai Lei e il suo partito vi siete allontanati dalla vostra originaria area politica, rappresentata dalla fiamma tricolore. Che pertanto dovrebbe essere eliminata dal simbolo del suo partito.
Ma, visto che ci siamo, è bene ricostruire una storia generazionale, della quale lo scrivente è stato modesto coprotagonista di quarto se non addirittura di quint’ordine. Una storia di cui probabilmente, quando frequentava la sezione missina della Garbatella, avrà udito qualche eco e che deve essere inquadrata in quella più ampia dell’Italia nel Novecento.
Partiamo da Atreju. Il nome della kermesse del suo partito richiama il filone della narrativa fantasy che a “destra” – poi le sarà chiaro il motivo per il quale scrivo tale parola tra virgolette – da sempre suscita molta attenzione. Un’attenzione legata ad una disposizione verso il metafisico ignota e incomprensibile ai detrattori come lo scrittore Roberto Saviano, il quale della “Storia infinita” di Michael Ende non ha capito nulla perché non ha gli strumenti spirituali per capire. La fiaba moderna di Ende, infatti, è una denuncia del nichilismo della modernità occidentale e non ha nulla da spartire, come invece sostiene Saviano, con il presunto accreditamento della famiglia allargata o fluida.
La predilezione della “destra” per i contenuti spirituali della narrativa cosiddetta fantasy riporta lo scrivente all’esperienza adolescenziale della sua militanza nel Fronte della Gioventù. La generazione che visse la propria adolescenza politica tra gli anni settanta e ottanta, i quali, parafrasando Mario Capanna, per i giovani militanti della “destra” sono stati “anni formidabili”, era una generazione in cerca di una nuova immagine che la facesse uscire dal ghetto. Il ghetto, culturale prima che politico, della becera destra borghese e moderata, alla quale il Msi occhieggiava dai tempi di Arturo Michelini, ma anche dal ghetto del neofascismo troglodita, tutto mimetica, basco nero e occhiali scuri Ray-Ban, che reputava i libri oggetti inutili. Magari da accatastare per un bel falò.
Per uscire dal ghetto, e dimostrare che eravamo eredi e portatori di una cultura – la grande cultura che ha forgiato il Novecento – capace di aggregare i giovani su idee-forza, meglio e più della sinistra sessantottina, organizzammo, tra il 1977 e il 1981, i Campo Hobbit, gioiosi momenti di vita comunitaria all’insegna dei dibattiti culturali, dell’ecologia tradizionale, della musica alternativa, dei concerti, del canto, e dell’espressione artistica dalla grafica ai murales. Queste feste “a lungo attese”, come recitava uno slogan propagandistico dell’epoca, erano intitolate ai personaggi protagonisti della saga epica de “Il Signore degli Anelli” di J.R.R. Tolkien, il più grande scrittore novecentesco di narrativa fantasy. Gli Hobbit, della saga, sono il contrario dell’eroe “superomistico”, fino ad allora diffuso in un certo immaginario nicciano della destra radicale, e averli scelti come emblema di quei gioiosi festival militanti voleva essere il segno più palese di un cambio di prospettive, di mentalità, di approccio culturale. La trilogia tolkieniana diventò per i giovani che in quegli anni militavano a “destra” un libro cult del quale, provenendo noi da una formazione ispirata al perennialismo sapienziale (un po’ Julius Evola, un po’ René Guenon, un po’ Attilio Mordini), apprezzavamo il nucleo essenziale che sta nell’eterna vicenda religiosa dell’uomo alle prese con la scelta, esistenziale e sociale, tra bene e male, tra Dio e il rifiuto di Dio.
La generazione cui lo scrivente è appartenuto politicamente ha saputo farsi notare, e accreditare, dalle migliori intelligenze della sinistra per il suo tentativo di rielaborazione culturale. Infatti, nell’ambito dell’effervescenza giovanile di quella generazione, che all’interno del Msi faceva riferimento alla corrente di Pino Rauti in contestazione critica della dirigenza almirantiana, emerse un movimento intellettuale che i media chiamarono “Nuova Destra”. Una definizione mutuata troppo automaticamente dalla “Nouvelle Droite”, un analogo movimento culturale francese il cui capofila era l’intellettuale, di notorietà internazionale, Alain de Benoist. In realtà quella italiana è stata una esperienza diversa ed autonoma da quella francese, se non altro perché non sposava dogmaticamente il neopaganesimo nicciano dei cugini d’oltralpe, benché corrispondenze e collaborazioni non mancassero. “Nuova Destra” però era una definizione che stava stretta a quel movimento di pensiero visti i contenuti nient’affatto di “destra”, nel senso della destra liberal-conservatrice, della proposta culturale da esso portata avanti. Comunque sia, non fu un caso se un giornalista di sinistra come Giampiero Mughini realizzò su di noi un onesto e oggettivo documentario “Nero è bello”, trasmesso nel dicembre 1980 da Rai 2 e oggi ancora disponibile su YouTube, tutto inteso a comprenderci, senza demonizzarci. E non fu neanche un caso se intellettuali come Massimo Cacciari e Giovanni Tassani, rigorosamente di sinistra (il primo ex esponente di Potere Operaio, il secondo un cattolico progressista), il 27 novembre 1982 si sedettero a parlare, nel convegno fiorentino “Sinistra e Nuova Destra: appunti per un dibattito”, con intellettuali della “Nuova Destra” come Marco Tarchi, Giuseppe Del Ninno e Giano Accame.
Nella sua accezione più larga, di cui come dicevo la “Nuova Destra” era solo una componente, probabilmente la più attrezzata intellettualmente, la mia è stata una generazione che a “destra” leggeva molto, come mai dopo di essa si è fatto in quell’area politica, e che non ha avuto veri eredi benché ha lasciato ai posteri uno spirito aleggiante su acque tuttora informi. Noi adolescenti di quel periodo, e i nostri giovani amici intellettuali anagraficamente più grandi di qualche anno, nel vuoto culturale che caratterizzava l’organizzazione nella quale militavamo, i cui vertici sono poi diventati i leader prima di An e poi di Fratelli d’Italia, scavavamo, mossi da sete di conoscenza e dalla spinta alla ricerca di ideali forti, nella cultura non conformista del XX secolo che era stata protagonista, spesso in modo tragico, delle vicende europee del Novecento.
Benché alcuni tra noi identificavano le radici identitarie della Vera Europa, della quale auspicavamo la rinascita, nell’archetipo, spirituale e metapolitico, dell’Imperium, storicamente incarnato in modo magnifico soprattutto dall’Austria imperiale e confederale del beato Carlo d’Asburgo, eravamo tutti ben consapevoli, anche grazie alla benemerita storiografia revisionista sul fascismo – con la riscoperta, sulla scia di Renzo De Felice, delle sue radici di sinistra –, di appartenere alla “destra” quanto alla “sinistra”. Sicché i nostri riferimenti culturali andavano dalla antropologia religiosa di Mircea Eliade agli autori della Konservative Revolution tedesca, tanto nicciani come Ernst Jünger quanto gnostico-esistenzialisti come Martin Heidegger; dalla magistrale filosofia politico-giuridica di Carl Schmitt ai grandi scrittori francesi non conformisti degli anni trenta come Drieu La Rochelle e Robert Brasillach; dai nostri scrittori non conformi della prima metà del secolo scorso come Berto Ricci e Ezra Pound (nostro perché italiano per adozione pur essendo americano) ai grandi filosofi come Giovanni Gentile senza disdegnare il filone marinettiano-futurista e dannunziano – in particolare per l’epopea sindacalista rivoluzionaria di Fiume – congiuntamente a quello del tradizionalismo, fosse esso evoliano o cattolico, con ascendenze demaistriane o donosiane.
Lo scrivente, nel suo itinerario personale, un dettaglio, questo, che non riguarda l’intera generazione di appartenenza, avrebbe aggiunto, più tardi, riscoprendo la propria fede cattolica, altre letture, come quella del filosofo Augusto Del Noce e di altri pensatori cattolici antichi e moderni, che gli hanno aperto da un lato la via verso un più maturo ripensamento del proprio milieau culturale – inducendolo ad abbandonare, per dirla con Franco Cardini, il giovanile “fascismo immaginario”, tutto purezza ideale ed eroismo, per prendere atto, con salutare disincanto, anche dei lati ambigui e oscuri del fascismo storico, prima non considerati, come l’irrigidimento totalizzante e illiberale – e dall’altro lato la via verso un ulteriore e più sano sviluppo dell’esigenza spirituale che era stata alla radice dei suoi primi passi di militanza politica adolescenziale. L’esigenza del ritrovamento, dentro la modernità, che ora è ormai postmodernità, della dimensione religiosa e comunitaria.
Il modello sociologico che noi adolescenti di “destra” cercavamo di ricreare nelle nostre associazioni era, infatti, quello della Gemeinschaft, della comunità organica, che, con Ferdinand Tönnies, opponevamo alla Gesellschaft, la società mercantile individualista e contrattualista. Questa auspicata, e in verità per l’uomo sempre irrinunciabile, dimensione antropologica comunitaria e spirituale voleva essere anche sostanza di un progetto politico che ci portasse – ecco il motivo delle virgolette di cui sopra – oltre la “destra” e la “sinistra” considerate categorie già oltrepassate, e più volte, nel corso del Novecento. O, perlomeno, categorie che erano state soggette a tentativi di superamento. In questo senso, e solo in questo senso, facevamo ancora riferimento al fascismo – anzi ai molteplici e fra loro diversi fascismi europei, talmente variegati da essere talvolta difficile ricondurli ad unità concettuale – quale fenomeno politico moderno che aveva messo in discussione e tentato, con risultati controversi dei quali ci rendevamo perfettamente conto e che non volevano certo restaurare, di andare oltre la destra e la sinistra, in una inedita sintesi di socialismo, sindacalismo rivoluzionario e patriottismo.
Non ci interessavano affatto, ed anzi aborrivamo, la dittatura, la retorica, la nostalgia delle parate e liturgie di massa o, peggio, il razzismo (che pure per quanto riguarda l’Italia fu marginale e posticcio). Quel che ci interessava era comprendere le vie da percorrere per il superamento degli opposti onde giungere alla loro sintesi e riportare nella politica e nella società democratica, della quale accettavamo il libero metodo del dialogo e del confronto, lo spirito della comunità organica. Aspiravamo ad un organicismo comunitario capace di superare le iniquità del capitalismo e dell’individualismo moderno senza cadere nel totalitarismo fosse esso vetero-fascista o comunistico-sovietico. Per questo insistevamo, con il nostro giovanile e sincero idealismo, a guardare, quali esempi incompiuti di un cammino ancora in larga parte da percorrere emendandolo dagli errori del passato, ai “fascismi sconfitti” e traditi. Come il falangismo nazional-sindacalista originario di José Antonio Primo de Rivera, tradito dal franchismo, e che più tardi scoprimmo essere stato la matrice ideale della formazione di quel leader nazional-rivoluzionario e populista (comunista lo diventò solo successivamente) che fu Fidel Castro. O come il legionarismo angelico e mistico di Corneliu Zelea Codreanu, al netto del suo antigiudaismo, con il forte senso antiborghese e comunitario che lo caratterizzava. Oppure, per restare all’Argentina (l’altra Argentina e non certo quella di Milei), il giustizialismo di Evita e Juan Domingo Perón, ossia la “terçera posicion”, cattolica e nazionale, tra capitalismo e comunismo, che fu anche la matrice politica originaria di Ernesto Guevara de la Serna meglio noto come il Che.
Di quelle esperienze politiche ci interessava il comunitarismo che le caratterizzava all’insegna del “Patria o Muerte” e soprattutto del “Patria, Pan y Justicia” ossia dell’affermazione, inseparabilmente unite, dell’identità nazionale e della giustizia sociale, contro la deriva nichilista, individualista, affaristica di un Occidente apostata dalle sue radici romano-ellenistiche e, soprattutto, cristiane. Cristiane, quindi anche ebraiche, ma non “giudaico-cristiane” che è invece uno slogan retorico per supportare lo sciovinismo sionista-occidentalista. Identità patriottica e giustizia sociale che, nelle aree spaziali e culturali storicamente formatesi nella matrice cattolica come l’Europa e il mondo ispanofono latinoamericano, rappresentano la grande eredità spirituale del Cristianesimo apostolico. Quel “Patria, Pan y Justicia” – Lei ne converrà, signora Meloni – ben si sposa, e potrebbe essere anche un più chiaro programma politico per un partito identitario, ma non liberal-conservatore, con lo slogan che la sua destra ha fatto proprio, “Dio, patria e famiglia”, ma a condizione che l’eventuale connubio si risolva nella declinazione “Dio, patria sociale (se non addirittura socialista) e famiglia”.
Noi adolescenti degli anni settanta e ottanta avevamo i nostri simboli, con i quali griffavamo i muri delle città. Non usavamo la fiamma tricolore ma casomai la croce celtica che richiamava l’identità profonda, precristiana e cristiana, dell’Europa, da noi opposta – “Europa Nazione Rivoluzione” era uno dei nostri slogan – ai due imperialismi statunitense e sovietico. Tuttavia eravamo nati e cresciuti anche all’ombra di quella fiamma tricolore emblema del Movimento Sociale Italiano che, sin dal nome, era un partito le cui radici affondavano, benché il suo statuto esprimesse la volontà di non restaurare senza però rinnegare, nell’esperienza tragica, per via della guerra civile, della Repubblica Sociale Italiana. Una esperienza storica terminale nella quale il fascismo cercò di completare il suo ritorno verso sinistra, già in atto dalla svolta dirigista e beneduciana degli anni trenta. Un ritorno che aveva quale obiettivo la “socializzazione delle imprese”, consistente nella partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili aziendali, stabilita nel manifesto programmatico del 1943 detto dei “18 punti di Verona”.
Il fascismo repubblicano riprendeva, in tal modo, le proposte – ad esempio, la proposta per la partecipazione operaia presentata al duce nel 1937 dal capo del sindacalismo fascista Tullio Cianetti – che la sinistra fascista aveva avanzato nel secondo decennio del regime e che lo stesso Mussolini, il quale non smise mai di essere a fondo un socialista, teneva in forte considerazione appoggiando il dibattito, l’attività sindacale e le elaborazioni culturali del fascismo di sinistra. Fino addirittura a confidenzialmente sostenere la proposta di Ugo Spirito per la “corporazione proprietaria” che, sulla scorta del gentilianesimo di sinistra (lo stesso Giovanni Gentile, nel 1943, riferendosi al corporativismo del regime, avrebbe definito i comunisti “corporativisti impazienti delle more di sviluppo di una idea”), ammiccava ad un esito comunista del fascismo.
Coloro che adolescenti militarono nel Msi negli anni settanta/ottanta avrebbero scoperto successivamente, approfondendo gli studi storici, quanto, ed è molto, la Repubblica post-fascista ha ereditato dal regime di Mussolini ed anche dalla Rsi. Ad iniziare dallo Stato imprenditore dell’Iri e dell’Agip e dallo Stato sociale dell’Inps e dei vari enti di assistenza, che il fascismo creò o dei quali estese ampiamente funzioni e prerogative. La vigente Costituzione del 1948 – si vedano gli articoli 39, 46, 99, ed altri ancora – è stata un grande tentativo di democratizzare l’esperienza del socialismo nazionale avviata, in modo controverso e condizionato, dal fascismo. Molti dei cosiddetti “padri costituenti” si erano formati nel clima culturale, proteso all’organicismo sociale, che aveva preceduto e poi innervato il fascismo. Da Amintore Fanfani a Alcide De Gasperi (entrambi sulla scia della primogenitura cattolica del corporativismo), da Palmiro Togliatti (che non a caso nel 1936 scriveva da Parigi lettere pubbliche ai “fratelli in camicia nera” ossia ai fascisti di sinistra, per una intesa cordiale) a Giuseppe Di Vittorio (che nel 1915 aveva collaborato con “Il Popolo d’Italia”). Quando i liberisti oggi lamentano che la Costituzione italiana è troppo socialista, in realtà dovrebbero lamentarsi che è troppo fascista. Ed infatti, nel clima neoliberale e americanizzato del dopoguerra, proprio le sue parti più fasciste, gli articoli sopra richiamati, non sono state applicate con le conseguenti leggi di attuazione. Salvo l’istituzione del CNEL, previsto dall’articolo 99, organo statale di chiara ispirazione corporativa, la cui attuazione fu fortemente voluta, non a caso, da Fanfani e De Gasperi.
Conoscendo un poco la storia contemporanea lo scrivente ha trovato non corrispondente a verità, signora Meloni, la sua affermazione per la quale la “destra” italiana nel dopoguerra è stata sempre atlantista. Al contrario, nel 1949, il Msi si oppose all’ingresso dell’Italia nella Nato. Lo ha ricordato persino il “Secolo d’Italia”, giornale di riferimento di Fratelli d’Italia, nell’edizione del 5 aprile 2019, in un articolo, reperibile sul web, a firma di Aldo Di Lello. Nello stesso anno dell’adesione dell’Italia alla Nato si svolse il secondo congresso del Msi, guidato da Almirante, che confermò la linea di opposizione all’Atlantismo. Ed anche quando, nel congresso svoltosi nel 1952 a L’Aquila, il Msi, nel clima della guerra fredda, accettò la svolta atlantica – dopo un acceso dibattito interno che coinvolse i principali esponenti del partito da Ezio Maria Gray a Giorgio Pini, da Concetto Pettinato a Ernesto Massi, da Giorgio Almirante a Filippo Anfuso – ciò avvenne secondo la linea meramente tattica suggerita proprio da Anfuso, per porre fine alle polemiche interne, in vista, egli disse, del futuro superamento dell’atlantismo in nome di un europeismo che avrebbe dovuto richiamare l’idea terzaforzista animatrice dell’“internazionale fascista” degli anni trenta. Ai suoi esordi il Msi era costituito dai reduci della Rsi che, in nome della patria tradita e della socializzazione, avevano combattuto gli invasori americani. Solo negli anni ’50, con la gestione moderata di Augusto De Marsanich prima e di Arturo Michelini poi, il Msi si riposizionò nel fronte filo-occidentale in nome dell’anticomunismo, provocando, tra il 1956 e il 1957, la fuoriuscita da un lato dei radicali della destra evoliana tradizionalista, che confluirono in organizzazioni extraparlamentari, dalla storia controversa, come Ordine Nuovo, e dall’altro della sinistra missina all’epoca riunita nella corrente “nazione sociale” guidata dal professore di geopolitica Ernesto Massi.
Quindi, signora Meloni, quella fiamma che campeggia ancora oggi nell’emblema del suo partito racconta una storia complessa ed esprime una variegata schiera di posizioni culturali e politiche diverse tra loro ma accomunate, tutte, dal rifiuto dell’individualismo, dal rifiuto del liberismo antisociale, dalla ricerca delle nuove possibili forme dell’organicismo comunitario che sappiano superare il nichilismo della modernità occidentale senza negare i diritti della persona all’interno delle sue molteplici appartenenze sociali, dato che, se l’individuo astratto non esiste, la persona reale, che invece esiste, non si dà al di fuori delle proprie relazioni identitarie e spirituali.
Lei, signora Meloni, obietterà che la storia cui si ricollega il simbolo della fiamma tricolore è acqua passata e che un partito oggi deve stare al passo dei tempi e guardare avanti. Possiamo convenire su tale argomento a condizione, però, di chiarire se stare al passo dei tempi o guardare avanti debba portare inesorabilmente a sposare come unica possibile prospettiva quella del liberalismo conservatore, di matrice soprattutto anglosassone. Oppure se ci sono altre alternative, più in sintonia con quella storia, e quali potrebbero essere. Viene qui in ballo la questione del “nazional-conservatorismo”, che le è tanto caro. Mi permetto, tuttavia, di rammentare che il nazional-conservatorismo, all’interno del pensiero conservatore, è un filone profondamente diverso da quello liberale. Lo stesso conservatorismo, in senso ampio, infatti, non nasce liberale. Da Edmund Burke, passando per Benjamin Disraeli e Otto von Bismarck, fino a Charles Maurras il conservatorismo si è presentato come una risposta all’individualismo, al contrattualismo e all’utilitarismo liberali. Una risposta che, a differenza del tradizionalismo, non negava le trasformazioni socio-tecnico-economiche in atto nella modernità ma in esse cercava una soluzione che potesse ripristinare l’organicismo comunitario e religioso travolto dalla Rivoluzione Francese e dall’industrializzazione. È ampiamente appurato che le fondamenta dello Stato sociale sono state implementate dai governi conservatori ottocenteschi in polemica con il liberismo economico che, con la sua disattenzione per la questione sociale, fomentava il socialismo rivoluzionario.
Il formarsi di nuovi ceti emergenti “incastrati tra la grande borghesia e il proletariato” e di nuove realtà comunitarie, come i sindacati, costituirono, tra i secoli XIX e XX, la base sociale per riprendere un discorso organicista, innanzitutto nell’ambito della filosofia giuridica: si pensi ai nostri Santi Romano e Sergio Panunzio o ai francesi Maurice Hauriou e Léon Duguit. Riorganizzare organicamente la società, sulla base delle nuove realtà sociali nate dalla modernizzazione, significò per il conservatorismo accettare il concetto di nazione che, alle origini, nella forma del “terzo stato”, aveva rappresentato la bandiera della Rivoluzione. E con la nazione il conservatorismo fece proprio anche il primato, in economia, dello Stato, sposando in sostanza il dirigismo che il mercato non sopprimeva ma inquadrava in un contesto sociale di redistribuzione della ricchezza tra tutte le classi per avvicinarle e, in prospettiva, superarle insieme al conflitto distruttivo dell’unità patria. Il trasloco della nazione dall’area rivoluzionaria a quella conservatrice fu possibile perché la nazione, cui si faceva riferimento, non era quella astratta del giacobinismo ma quella concreta radicata nella storia di un popolo, nelle sue tradizioni, nella sua religione. Tuttavia il ritorno della nazione tradizionale non avvenne, nell’ambito della politica conservatrice dell’otto-novecento europeo, a discapito della modernità imposta dalla industrializzazione. Avvenne, invece, cogliendo l’occasione offerta dagli sviluppi anti-individualistici della modernizzazione, quindi anche dagli sviluppi sociali che portarono la destra conservatrice a far proprio il socialismo organicista maturato nell’ambito della sinistra non marxista ed eterodossa. Il conservatorismo nazionale finì, tuttavia, per recuperare anche la nazione giacobinamente intesa laddove, in certe esperienze, colse l’opportunità che la democrazia plebiscitaria offriva per la restaurazione di una Autorità forte, tale da imporsi sullo sfrenato individualismo fondamente del liberismo antisociale e antinazionale. Nessun conservatore nazionale potrebbe sottoscrivere il detto di Margaret Thatcher secondo cui “non esiste la società ma esistono solo gli individui”. La Thatcher infatti ha rappresentato il compromesso mortifero tra conservatorismo e liberalismo, a tutto vantaggio del secondo. Un compromesso che ha confuso queste due diverse famiglie politico-culturali nella forma ibrida in politica del liberal-conservatorismo, in economia del neoliberismo.
In quella fiamma che ancora campeggia nel simbolo del suo partito, cara signora Meloni, c’è anche un richiamo all’organicismo che è il cuore stesso del conservatorismo, non ibridato con il liberalismo, e che Lei, quando si appella al nazional-conservatorismo, sembra voler far suo. Esiste un appunto del 1944 vergato personalmente da Mussolini nel quale egli definisce la socializzazione delle imprese “la forma nostra, italiana, mediterranea, umana, effettuabile del socialismo”. Il socialismo cui faceva riferimento l’ultimo Mussolini, che egli vedeva realizzato nel fascismo sociale quale adattamento realistico del sindacalismo rivoluzionario confluito in quel che Renzo De Felice ha chiamato “fascismo-movimento”, non era certo il marxismo, né il socialismo libertario ed anarcoide, ma il socialismo comunitario, organicista, che aveva alle sue spalle una lunga storia nella quale convergevano correnti diversi come il cattolicesimo sociale, il proudhonismo, il lassalismo, il comtismo, il sindacalismo mazziniano e quello rivoluzionario ma anche il filone del conservatorismo nazionale critico dell’individualismo liberal-liberista. Se oggi Sarah Wagenknecht, esponente della sinistra radicale tedesca, nel suo recente “Contro la sinistra neoliberale” (Fazi, 2022), ha potuto richiamarsi, per contestare la deriva neoliberale della sinistra europea, al conservatorismo di Edmund Burke e a quello di Otto von Bismarck, invitando la sinistra a riflettere sulla necessità di una cultura politica ispirata all’organicismo comunitario e volta alla difesa delle identità popolari per non cedere alle lusinghe dell’individualismo e del globalismo capitalistico-finanziario, è perché la lunga storia sopra ricordata, rappresentata anche dalla fiamma tricolore, continua a svilupparsi benché in modo carsico e apparentemente insignificante.
La partecipazione operaia alla gestione e agli utili aziendali, quale risposta sociale, se non addirittura socialista, all’individualismo e al conflitto di classe innescato dalla modernizzazione, è stata nei voti non solo della sinistra eterodossa, non marxista, ma anche dei conservatori e del cattolicesimo politico. Papa Pio XI nella “Quadragesimo Anno” (1931) auspicava l’integrazione del contratto di lavoro subordinato con elementi del contratto di società. Lo stesso John Maynard Keynes, quello più realista piuttosto che quello “millenarista” che piace alla sinistra libertaria, può essere ricompreso nel filone dell’organicismo conservatore, o almeno è possibile constatare la dipendenza di molte sue idee da quel filone, data la sua preferenza per i sistemi di economia nazionale auto-centrici, benché non autarchici, e dato che solo le soluzioni partecipative possono effettivamente garantire la giusta redistribuzione della ricchezza essenziale al sostegno alla domanda senza la quale, come egli ha dimostrato, l’offerta rimane al palo. Qualcuno ha osservato che, oggi, i Brics stanno tentando di costruire una sorta di nuova Bretton Woods recuperando le idee di Keynes sulla necessità di una organizzazione paritetica di nazioni che, attraverso una camera di compensazione dei surplus e dei deficit, impedisca l’egemonia di quelle più forti su quelle più deboli, quindi l’egemonia di una moneta sulle altre. Come, invece, accadde nel 1944, sconfitto Keynes, durante la conferenza internazionale di Bretton Woods, dal plenipotenziario americano, White, il quale riuscì ad imporre alle nazioni occidentali l’egemonia del dollaro nella forma del “gold exchange standard”.
La socializzazione delle imprese, in una modalità molto simile a quella della Repubblica Sociale Italiana, è stata realizzata, nel dopoguerra, nella Germania occidentale con l’avvallo sia dei governi conservatori sia dei governi socialdemocratici. La conosciamo non con il nome di “socializzazione” ma con quello di “Mitbestimmung” o “codeterminazione”, avviata negli anni cinquanta per le grandi imprese e poi estesa anche alle medio-piccole imprese negli anni settanta. Ebbene, questa è una soluzione corporativista contemplata anche nell’articolo 46 della nostra Costituzione, mai attuato, che senza dirlo si ispirava proprio alla socializzazione fascista. A fronte dei tentativi negli anni novanta di abolirla, la Mitbestimmung in Germania è stata irriducibilmente difesa da una conservatrice come Angela Merkel, avendo compreso che in essa stava la forza dell’economia tedesca (oggi suicidatasi allineandosi ai diktat americani antirussi che l’hanno privata del gas moscovita a buon prezzo).
Una destra nazional-conservatrice, come vorrebbe essere quella della proposta politica di Fratelli d’Italia, dovrebbe guardare alla tradizione del nazional-conservatorismo che in Europa ha avuto diverse espressioni, anche di governo, piuttosto che al liberal-conservatorismo. È tuttavia necessario anche tenersi alla larga dal nazional-conservatorismo di importazione statunitense, sul tipo di quello di Yoram Hazony, perché troppo marcato da un carattere intriso di biblicismo giudaico-protestante. Il nazional-conservatorismo americano, noto nell’acronimo Nat-Cons, esalta la nazione come riaffermazione delle specificità particolari contro l’omologazione globalista – e questo sta bene – ma, anche senza contare il rischio che finisca in una sorta di sciovinismo neoconservatore statunitense, esso, polemicamente anticattolico perché identifica, confondendo universalità trascendente e mondialismo immanente, nel Cattolicesimo la matrice del globalismo (lo stesso errore di Alain de Benoist), non considera la nazione come parte organica di una più vasta civiltà a carattere cristiano-imperiale come, invece, un approccio nazional-conservatore europeo impone in un contesto spirituale, quello nostro di antichissima e millenaria tradizione, che sollecita una qualche forma confederale di cooperazione paritaria tra le patrie unite da una comune radice. Una Europa delle patrie, da Lisbona agli Urali, come quella che auspicava Charles De Gaulle, contro il sinarchismo tecnocratico che già nella sua epoca andava dando forma all’Unione Europea come oggi la conosciamo.
Non è casuale questo richiamo allo statista transalpino giacché una destra nazional-conservatrice che si volesse europea, e non occidental-americana, dovrebbe prendere a modello il gollismo sociale delle origini (non quello alla Sarkozy annacquato di liberalismo). A De Gaulle non può essere perdonata la grazia non concessa, nonostante fosse invocata da tutta la cultura europea del tempo, al poeta Robert Brasillach, fucilato dai “liberatori” il 6 febbraio 1945 dopo un processo farsa per collaborazionismo. Tuttavia Il gollismo ha rappresentato una destra conservatrice, nazionale e sociale che riprendeva, in un contesto assolutamente democratico e repubblicano, l’organicismo dei movimenti fascisti francesi e del tradizionalismo monarchico d’oltralpe. Il generale francese, convintamente antiamericano, portò meritoriamente Parigi fuori dalla Nato (nel maggio francese del 1968, che destabilizzò il potere gollista, vi fu non a caso lo zampino statunitense) e, convintamente anti-eurocratico, si oppose, ultimo baluardo, ai disegni tecnocratici di Jean Monnet. Ma De Gaulle era, soprattutto, antiliberista. Il modello di economia nazionale gollista, basato su un intelligente auto-centrismo che non sconfinava in una impossibile autarchia e restava aperto alle sinergie geopolitiche europee, si ispirava, senza dirlo, al dirigismo che fu anche fascista. Il gollismo sociale, originario, introdusse nelle grandi aziende francesi la partecipazione redistributiva dei lavoratori agli utili e alla proprietà stessa del capitale e progettò una organizzazione sociale della nazione fondata, appunto, sull’integrazionismo partecipativo dei lavoratori alla gestione aziendale, alla produzione e alla distribuzione della ricchezza nazionale. Se ancora oggi la Francia, a differenza dell’Italia che in questo è un mare aperto ai predatori internazionali di ogni risma, ha una politica industriale e conserva in casa i centri decisionali delle grandi industrie, in modo che lo Stato possa esercitare controllo e direzione, lo deve all’impronta organicista che il gollismo ha dato a suo tempo alla sua struttura economica. Il modello del gollismo sociale andrebbe recuperato, quale piattaforma programmatica, da una destra che vuole essere sociale, abbandonando le suggestioni Nat-Cons d’oltreoceano alla Hazony, alla Trump e alla Elon Musk. Mentre in Europa traballa il duopolio franco-tedesco, sarebbe necessaria l’affermazione di forze che si ispirano al sovranismo sociale a vocazione europea ed antiamericana.
Il realismo è sempre indispensabile ad uno statista. Lei, lo sappiamo, signora Meloni, deve muoversi, prudentemente, nell’ambito delle attuali regole eurocratiche, in attesa dell’occasione di cambiarle. Ma talvolta si ha l’impressione, forse più che una impressione, che in realtà non si stia lavorando per un effettivo cambiamento delle regole del gioco, imposte dai poteri globalisti eurocratici, quanto per cercare, negli spazi da esse consentiti, una allocazione patteggiando qualche nomina nella Commissione Europea. Perché se ci fosse un effettivo lavorio per il cambiamento delle prospettive politiche all’interno della Ue l’attuale governo italiano dovrebbe piuttosto cercare sintonie con un Fico (Slovacchia) o un Orban (Ungheria). Di quest’ultimo non bisogna prendere a modello talune politiche economiche troppo liberiste ma al leader ungherese non è possibile non tributare il giusto apprezzamento per la politica estera non allineata al diktat statunitense e eurocratico nella questione russo-ucraina. Quello da Lei presieduto signora Meloni è, invece, il governo più atlantista della storia postbellica dell’Italia e fa rimpiangere il senso di autonomia dagli Stati Uniti, pur all’interno della Nato, che seppero esprimere alcuni politici della prima Repubblica come Giulio Andreotti e Bettino Craxi. Se Biden ha sostenuto la politica mediterranea ed africana dell’attuale governo italiano – il “Piano Mattei” che della strategia del grande manager pubblico italiano ha solo il nome – è stato perché il dominio francese in Africa è andato in pezzi e gli Stati Uniti, con la Germania in piena crisi economica, hanno visto nell’Italia l’opportuno proconsole per tentare di arginare la sostituzione russo-cinese della Francia. La domanda è se l’attuale politica italiana in Africa è giocata nell’interesse dell’Italia e dell’Europa o in quello del padrone d’oltreoceano?
Anche riguardo al cambiamento dell’architettura finanziaria, economica e monetaria dell’Unione Europea non si vedono grandi manovre da parte dell’attuale governo italiano. Eppure senza modificare quella architettura nessuna politica sociale potrà essere attuata in favore della propria gente e della domanda interna. La gabbia dei parametri di Maastricht, del Fiscal Compact, del monopolio impolitico sulla moneta attribuito alla Bce, impone di continuare nelle politiche di austerità che l’attuale ministro dell’economia Giorgetti, uomo ben apprezzato negli apparati di Bruxelles, segue con pedissequa convinzione, più che essere costretto a seguire. Tagliare la spesa pubblica e sociale fino ai minimi termini non è esattamente ciò che il popolo si aspetta né ciò che appartiene alla cultura politica di una destra sedicente sociale. Abbassare le tasse ai ceti medio-bassi, che hanno maggiore propensione alla spesa, è eticamente e socialmente una cosa buona, ed aiuta l’economia, ma abbassarle, tramite il livellamento delle aliquote fiscali, anche ai ceti più ricchi, la cui propensione è all’accumulazione priva di reinvestimento se non nella speculazione per fare soldi dai soldi senza lavoro, è esattamente il contrario di una saggia politica economica. Né si vedono sforzi per convincere i partner europei ad implementare congiuntamente, unica possibilità affinché essi funzionino, provvedimenti volti a far pagare alle grandi multinazionali le tasse dove esse producono, in modo da evitare l’elusione dovuta allo stabilimento della loro sede legale in Paesi che chiedono minori contributi fiscali o addirittura nei cosiddetti “paradisi fiscali”, o provvedimenti volti a costringere le imprese che vogliono delocalizzare a farsi carico insieme agli Stati, pena multe salate o dazi sulla loro produzione estera, dei costi sociali della riallocazione occupazionale dei lavoratori lasciati a piedi. O, ancora, per costruire una camera europea di compensazione dei surplus e deficit tra gli Stati della Ue in modo da evitare il ripetersi di egemonie come, nel decennio scorso, quella franco-tedesca a scapito degli altri partner.
In politica il tatticismo, anche per mantenere le indispensabili alleanze, è inevitabile. Così è comprensibile che Lei, signora Meloni, abbia più volte preso le distanze dal passato dal quale proviene, insieme al suo partito, subordinandosi però, poco argutamente, al ricatto dell’ignoranza culturale della sinistra globalista e liberale, al ricatto della poco diffusa conoscenza storica, a tutto tondo, di quel passato. Ma il tatticismo va bene fino a quando non prevale in modo reciso sui principi, pena il dissolvere qualsiasi proposta o esperienza politica nel vuoto più assoluto. Come detto la generazione che militò a “destra” tra gli anni settanta/ottanta aveva già rigettato, come è giusto, le forme storiche autoritarie. Ma se si vuol restare fedeli ad una tradizione politica, quella espressa dalla fiamma nel simbolo, non è invece possibile rigettare, anziché declinarla democraticamente, la cultura organicista che ha preceduto e seguito l’esperienza autoritaria. Perché quella cultura con quella esperienza non va inesorabilmente identificata. Rigettare l’organicismo significa aderire alla concezione individualista del liberalismo e quindi rigettare, anziché aggiornare, la cultura politica di provenienza. L’entusiasmo mostrato per un esponente Nat-Con, di grande potere tecno-finanziario, come Elon Musk, e quello per l’anarcoliberista Javier Milei hanno chiaramente indicato quella che ormai è una scelta non tattica ma culturale. In favore non di un sovranismo sociale, sia pure in un alveo nazional-conservatore europeo, ma in favore di un sovranismo liberista sulla scia di un conservatorismo nazionale all’americana – tutto “bibbia” e libero mercato – che di sovrano ha soltanto la tendenza al protezionismo oltretutto giocato contro l’Europa.
Per tutto questo, signora Meloni, è giunto il momento di togliere quella fiamma tricolore dal simbolo del suo partito perché negli sviluppi dell’attuale politica governativa ha dato mostra che non gli appartiene più ciò che essa ha rappresentato lungo le vicende storiche che qui sono state sinteticamente rammentate. Oppure, a Lei la scelta, ripensare la politica governativa, interna, in sede Ue ed estera, e tornare a ciò – la destra sociale – che la fiamma tricolore simboleggia.