Minima Cardiniana 78

Domenica 31 maggio, Festa della Santissima Trinità

QUELLE DUE O TRE COSUCCE DA NOTARE SU PAPA FRANCESCO

A dover dire proprio tutto come sta, ne ho le tasche piene. Non ne posso più degli slogans a vuoto, dell’ipocrisia, della nostalgia di trine e merletti postridentini, degli equivoci, della malafede, della velenosa calunnia travestita da santo sdegno. Non sono più disposto a sopportare i detrattori furbastri del papa che si fingono “perplessi” dinanzi alle sue “scivolate”, alla sua “imprevedibilità”, dipingendolo come un imprudente, uno sprovveduto, un gaffeur. Mi hanno divertito abbastanza i curiali corrotti che si dicono preoccupati per la “Tradizione” e pensano al posticino caldo dal quale facevano gli affaracci loro e dal quale Francesco li ha snidati o sta per snidarli. Sono stufo dei cacciatori di farfalle sotto l’arco di Tito che mentre la Chiesa crolla a pezzi si preoccupavano della legittimità teologica di questa o di quella riforma liturgica. 

Negli ultimi due anni abbiamo assistito a qualcosa di letteralmente inaudito, impensato, insperato: un vescovo di Roma che si spoglia delle ultime vestigia della porpora e dell’oro imperiali che i suoi predecessori avevano sottratto agli Augusti cristiani per adornarsene e che senza paura, con semplicità, guida la Chiesa al disincanto rispetto a se stessa e al mondo; che la costringe a specchiarsi in quel ch’essa è divenuta accettando l’uno dietro l’altro i malintesi e i ricatti della Modernità agnostica, individualista e relativista; che la obbliga a ripartire dal centro di tutto che è la Redenzione in quanto – come scriveva il cardinale Ratzinger nell’istruzione Libertatis Nuntius – liberazione dalla schiavitù radicale del peccato. E tale schiavitù radicale, nella Modernità, si è espressa attraverso il primato dell’economia e del profitto come autentica divinità idolatra, Mammona contrapposta a Dio. Tale schiavitù radicale è continuata dopo la venuta del Redentore in chi, liberamente, non ne ha accettato il messaggio e ha continuato a disattendere al precetto fondamentale del Cristo, l’amore per Dio sopra ogni cosa e del prossimo come se stessi. Tale schiavitù radicale ha reso il “nostro Occidente” non più cristiano da almeno due secoli circa, fino a rendere quegli stessi che ancora si dicono cristiani sordi e ciechi dinanzi al fatto che – come papa Francesco dichiarò con nitida e limpida chiarezza durante l’incontro mondiale dei Movimenti popolari organizzato in Vaticano dal Pontificio Consiglio Iustitia e Pax tra 27 e 29 ottobre del 2013 – “l’amore per i poveri è al centro del Vangelo” e che non è più il tempo della tattica e del compromesso, che “non si può sciogliere lo scandalo della povertà proponendo strategie di contenimento, che tranquillizzano i poveri trasformandoli in esseri addomesticati e innocui”.

Questo papa venuto dalla periferia del mondo è deciso a imporre al centro della politica pontificia un’austerità che non solo richiami il Vangelo, ma che sia anche correlativa alla moralizzazione: e a questo fine sta conducendo negli ambienti curiali una lotta contro avidità e corruzione, che sono l’altra faccia della pompa e del lusso.

Qualcuno giunge a insinuare che potrebbe esservi, nella linea proposta da papa Francesco, un quid di ereticale. Non si dice mai con chiarezza che cosa: ma si allude genericamente alla sua “debolezza” nel combattere certi peccati e certe deviazioni, al suo “dire alla gente quel che la gente vuol sentirsi dire”, insomma a uno spirito di accomodamento nei confronti della dottrina cattolica che urterebbe drammaticamente con il rigore inflessibile del quale egli ha saputo talvolta colpire chi dava segni d’insofferenza e d’indignazione dinanzi alla disciplina ch’egli ha imposto alla Curia e alla Chiesa. Chi pensa così non ha capito, o finge di non aver capito, che l’odio per il peccato non può essere disgiunto dall’amore per il peccatore: e che tale amore è la forza che guida il dialogo con chi ha sbagliato e magari non sa ancora uscir dall’errore, ma in esso sarà definitivamente abbandonato se la mano materna della Chiesa distesa verso di lui non lo aiuta a uscirne (e ciò vale per gli omosessuali, per i divorziati risposati, per tutti coloro che i sepolcri imbiancati fieri della loro supposta virtù vorrebbero escludere per sempre dalla comunione con la Chiesa), mentre a meritare una dura e definitiva condanna, se non si redimeranno, sono quanti perseverano nel peccato (ch’è negazione del supremo comandamento dell’amore) e restano o si fingono convinti ch’esso non sia nemmeno tale.

Il papa aveva parlato chiaro fino dal testo dell’esortazione apostolica Evangelii gaudiumdel 24 novembre 2013: lo “scandalo” della quale non stava affatto nel suo testo, che conteneva espressioni in sé e per sé innocue, bensì nella ferma volontà del papa di metterlo davvero in pratica. E Francesco la dimostrava proprio il 22 dicembre del 2014 allorché, ricevendo gli alti membri della Curia pontificia – una complessa realtà fatta di circa duemila persone – elencava con spietata durezza le “quindici malattie curiali”, tra cui c’erano quella del sentirsi immuni e indispensabili, della rivalità, della vanagloria, della schizofrenia esistenziale, del profitto mondano, degli esibizionismi. E, a proposito della supposta benevolenza verso i peccatori – ch’è in realtà un assalto di forza mai vista finora contro l’ostinazione a restare nel peccato -, Francesco diceva il 15 febbraio di quest’anno, ai venti nuovi cardinali da lui creati il giorno prima:

“La strada della Chiesa, dal Concilio di Gerusalemme in poi, è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione. Questo non vuol dire sottovalutare i pericoli o fare entrare i lupi nel gregge, ma accogliere il figlio prodigo pentito; sanare con determinazione e coraggio le ferite del peccato; rimboccarsi le maniche e non rimanere a guardare passivamente la sofferenza del mondo. La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono col cuore sincero; la strada della Chiesa è proprio quella di uscire dal proprio recinto per andare a cercare i lontani nelle periferie essenziali dell’esistenza; quella di adottare integralmente la logica di Dio (Luca, 5, 31-32)”.

Ma il cammino è lungo e molti gli ostacoli. Il papa è inquieto. Nessuno sa con precisione che cosa volesse dire affermando, in un’intervista rilasciata alla televisione spagnola Televisa, che il suo pontificato sarebbe stato breve, “quattro o cinque anni al massimo”. Un semplice calcolo delle possibilità fondato sulla sua età già avanzata? L’ombra di un qualche processo morboso in corso? Un “segno”, un avvertimento ricevuto?

Le sfide sono durissime. La prima è quella già emersa durante il Sinodo “straordinario” sulla famiglia già celebrato nel 2014 e che si riproporrà come “Assemblea episcopale generale” nell’ottobre prossimo. Vi si sono già discussi, e vi si discuteranno, temi scottanti quali l’ammissione all’eucarestia (sull’evidente base dell’assoluzione) dei divorziati risposati, il giudizio morale sulle unioni omosessuali su cui molto pesa il referendum irlandese del maggio scorso (l’omosessualità resta, per la Chiesa, una “inclinazione obiettivamente disordinata”: non “peccato” in sé – il peccato è sempre e comunque un atto – bensì “vizio” controllabile ed emendabile) , quello sulle convivenze prematrimoniali. Temi da trattare tenendo presente con il massimo realismo gli orientamenti della società civile ma nell’intento di entrare in vivo e fecondo dialogo con essi, non di porsi loro dinanzi con un atteggiamento di passivo ossequio (ancora una volta, l’inginocchiarsi della Chiesa dinanzi al mondo denunziato da Jacques Maritain). Qui non si tratta di cedere o di fuggire: bensì, al contrario, di accettare una sfida. Come molto bene diceva l’arcivescovo di Dublino Diarmuid Martin all’indomani del fatidico 22 maggio irlandese, prendere atto della realtà non significa accettarla. Il segretario di stato cardinal Pietro Parolin è stato al riguardo molto chiaro: “La famiglia rimane al centro e bisogna fare di tutto per difenderla, tutelarla e promuoverla: il futuro dell’umanità e della Chiesa… rimane la famiglia. Colpirla sarebbe come togliere la base all’edificio del futuro”. E’ necessario tener presente che esistono due princìpi irrinunziabili: primo, l’indissolubilità della coppia unita nel sacramento del matrimonio; secondo, la necessità che la Chiesa non schiacci nessuno sotto la propria colpa, non induca nessuno alla disperazione ma incoraggi il peccatore a riprendere il cammino della redenzione personale – quindi a rientrare nella disciplina ecclesiale – anche usando con oculatezza, caso per caso, le risorse disciplinari esistenti (e a tale riguardo una generale revisione delle prerogative e dell’attività dei tribunali di Sacra Rota sarebbe quanto mai opportuna). Va notato che le Chiese ortodosse, orientali e occidentali riformate si muovono già in questo senso e che l’iter di ciascuna di esse è seguito con costante interesse dalla chiesa cattolica nella prospettiva di un altro obiettivo al quale Francesco tiene molto, quello della riunificazione ecclesiale, dell’ut unum sint. La linea di Bergoglio e dei vescovi che lo seguono è quella di un’attenta revisione della pastorale che lasci peraltro invariata la dottrina. Vi si oppongono i vescovi guidati dal cardinale Ludwig Gerard Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e degli altri quattro che nell’ottobre scorso pubblicarono con lui il libro Perseverare nella verità di Cristo; li fiancheggiano i cardinali Angelo Scola, Camillo Ruini e Francis George. Il nodo problematico è quello della Verità dottrinale versus Carità evangelica, dei princìpi del diritto canonico ed ecclesiastico versus quelli della misericordia, dell’immutabilità della dottrina versus la flessibilità della pastorale. Una concettualmente non impossibile, praticamente delicatissima e difficilissima quadratura del cerchio. E’ evidente che il papa ha individuato l’elemento da cui partire (il “bàndolo della matassa”, volgarmente si dice) nella misericordia, sul quale insiste proprio l’ormai notissimo libro del cardinal Walter Kasper che il suo autore gli donò alla vigilia del Conclave e che ora si può leggere anche in italiano. Questo è senza dubbio il senso intimo e profondo dello straordinario “Giubileo della Misericordia” che il papa ha indetto sorprendendo tutti, a cominciare dal sindaco di Roma che si troverà dovendolo gestire al centro di un vortica straordinario di opportunità e di problemi. D’altronde, prevedendo appunto quel vortice e intendendo evitare che il Giubileo si traduca soprattutto in un grande business, Francesco ha stabilito che le indulgenze elargite potranno esser lucrate nelle chiese e nei santuari sparsi in tutto il mondo cattolico. I caratteri del Giubileo, delineati nella bolla d’indizione Misericordiae vultus, sono molto più profondi e complessi di quanto possa apparire: celebrato nel cinquantesimo della chiusura del Vaticano II, esso si aprirà l’8 dicembre del ’15 – nella solennità dell’Immacolata Concezione, una festa che ricorda l’evento che sul piano teologico è la vera e propria “porta” della Redenzione – per concludersi il 20 novembre del ’16, nel giorno nel quale si celebra il Cristo quale Signore dell’Universo. Il tema della misericordia è fondamentale: la parola ebraica che nella Bibbia esprime tale concetto è rehamîm, un termine intenso che richiama all’amore che la madre avverte per il frutto del suo seno, delle sue viscere; a questo volto amoroso non solo materno ma anche materno di Dio – un volto al quale tanto spesso si sono orientati i mistici cristiani – guarda anche la spiritualità musulmana che si esprime nel termine arabo rahim, tanto vicino all’ebraico: difatti la basmallah, l’invocazione che precede le sure del Corano e che apre ogni atto importante emesso nel mondo islamico, suoma “Bism Allah al Rahman al Rahim”, tradotto di solito come “Nel nome di Dio clemente e misericordioso”, ma che con maggior esattezza si potrebbe tradurre forse “Nel nome di Dio, pienezza di misericordia”. Chi poi nel Sinodo dell’ottobre prossimo intenderà restar abbarbicato al “fronte del no”, chi opporrà irremissibilmente il rigore della dottrina al calore della misericordia, dovrà anche tener presente che la Lettera uccide e che lo Spirito vivifica. Nel quadro dei punti da chiarire un ruolo speciale spetta alla questione del gender, un’ideologia dietro la quale si cela un mondo di equivoci e di sofferenze che non va banalizzato. Il papa insiste sulla ricchezza della differenza, ch’è ben altra cosa dalla disuguaglianza. L’essere umano è stato cerato maschio e femmina, ma sappiamo bene che si tratta di un dato di complementarità (il racconto biblico relativo al rapporto fisiologico del corpo di Eva rispetto a quello di Abramo è eloquentissimo), non di opposizione. Uomo e donna, sul piano sessuale, sono complementari e aspirano a quella ricostituzione dell’unità che si ha nell’amore di coppia e nella procreazione. La questione del gender ha d’altronde la sua radice in un disagio d’ordine fisiopsicologico che non dev’essere oggetto né di condanna né di derisione, ma che d’altronde non può far aggio sulle leggi naturali sulle quali si basa la sopravvivenza stessa del genere umano (Cfr. Dossier Gender. Lo specchio di un disagio, “Noi, genitori e figli”, 196, 31.5.2015).

La seconda sfida si riallaccia ancor più strettamente della prima all’equilibrio sociale del mondo, quindi alla ricerca della giustizia e della lotta contro la sperequazione, che il papa mette in primo piano nell’impegno della Chiesa a cambiare il mondo nel senso della carità e della giustizia (come ha detto nell’ottobre scorso durante l’incontro mondiale die Movimenti popolari, “Terra, casa, lavoro. E’ strano, ma se parlo così diranno che il papa è comunista…Non riusciamo a capire che l’amore per i poveri è al centro del Vangelo. Terra, casa e lavoro, quello per cui lottate, sono diritti sacri”). E’ alla luce di questo bisogno di giustizia, di questo diritto alla giustizia, che vanno lette anche le chiare, nitide parole che il papa ha rivolto in Vaticano il 30 maggio scorso ricevendo in udienza i delegati dell’associazione “Scienza & Vita” ai quali ha ribadito che la Chiesa s’impegna nel proteggere senza cedimenti tutta la vita, dall’istante del concepimento a quello della morte: il che significa non solo la battaglia contro l’aborto e contro l’eutanasia, bensì quella contro qualunque cosa minacci la dignità e la qualità dell’esistenza di ciascuno: “E’ attentato alla vita la piaga dell’aborto. E’ attentato alla vita lasciar morire i nostri fratelli sui barconi nel canale di Sicilia. E’ attentato alla vita la morte sul lavoro perché non si rispettano le minime condizioni di sicurezza. E’ attentato alla vita la morte per denutrizione. E’ attentato alla vita il terrorismo, la guerra, la violenza: ma anche l’eutanasia”.

Queste parole illuminante e illuminanti delineano sinteticamente alla perfezione il bonum certamen che attende chiunque voglia continuare a dirsi cristiano cattolico. Qui sta l’impegno che il papa si è assunto e per il quale intende impiegare il tempo che ancora gli è concesso sulla terra. Se lo caccino bene in testa i sepolcri imbiancati e le razze di vipere che vorrebbero scorporare la lotta per la famiglia e quelle contro l’aborto e l’eutanasia da quella per la dignità umana contro lo sfruttamento e l’indifferenza. Se lo caccino bene in testa quelli che amano ostentare la loro fede magari adornandola di rilucenti orpelli teologici e liturgici e dimenticano poi che derubare e devastare continenti e popoli interi nel nome della “libertà economica” e delle “ferree (?) leggi del mercato” è una decorosa attività finanziaria e imprenditoriale che ben si accompagna a un po’ di beneficenza chic a qualche ONG e che permette di occupare a testa alta e con tanto di decorazioni (magari pontificio) all’occhiello i primi posti nelle chiese, come facevano i farisei nel Tempio quando ringraziavano Dio di non essere spregevoli come i pubblicani. La Chiesa cattolica rigurgita ancora di inner enemies travestiti da autorevoli credenti, spesso ben peggiori degli “atei devoti”. Contro di loro, il Maestro ha già usato una volta la frusta, nel cortile del Tempio. Anche in ciò, il Suo insegnamento non passa.

Franco Cardini