Minima Cardiniana 80

Domenica 14 giugno, XI domenica del Tempo Ordinario

UNIFICARE LA PASQUA

Non c’è da scherzare, ma nemmeno da allarmarsi, a proposito delle continue “trovate” di papa Francesco. “C’è del metodo in questa follia”, dice un personaggio dell’Amleto di Shakespeare. Solo che qui la follìa, se qualcuno crede o spera o pretende di trovarcela, è solo apparente: e il metodo è razionale, rigoroso, consequente, adamantino. Ora ci sorprende con la Pasqua da concelebrare con ortodossi e orientali. E già affiorano i soliti malumori. Dove vuol arrivare? Che bisogno c’è? Perché sovvertire così le tradizioni? I cattolici più papisti del papa, specie di questo, si sono già mobilitati ancora una volta: e minacciano nuovi fulmini contro il gesuita argentino criptoeretico, criptocomunista, filomusulmano eccetera. 

Ebbene, il progetto di Francesco non è per nulla estemporaneo e contempla invece precise priorità. Una di esse, forse la più impegnativa, è l’unità dei cristiani. I fatti degli ultimi anni, e degli ultimi mesi in particolare provano che molte Chiese cristiane orientali – ora che la minaccia da parte del fondamentalismo musulmano si fa più forte – per un verso guardano a Roma come a una presenza internazionale in grado di garantirle e di proteggerle, per un altro appaiono preoccupate di apparire agli occhi dell’ambiente ostile che le circonda ancora più “filo-occidentali” se si avvicinano troppo ai cattolici. La Chiesa anglicana, essendo una Chiesa di stato a capo della quale c’è la regina d’Inghilterra, trova in tale dato politico-istituzionale l’ostacolo più grave per un riavvicinamento che a livello liturgico e teologico è ormai in atto da molto tempo. Forse più facile sarebbe il discorso per gli episcopaliani statunitensi, che sono degli “anglicani senza regina”. Arduo sotto il profilo teologico e disciplinare permane il confronto con i “riformati” luterani e calvinisti.

Ma per le Chiese ortodosse gli ostacoli teologici, liturgici e disciplinari appaiono ormai davvero trascurabili: tanto più che una lunga esperienza, quella delle Chiese orientali cattoliche di rito greco o arabo o aramaico, prova che l’unità è possibile e addirittura collaudata. Restano, certo, delicate questioni di “primato patriarcale”: se la Chiesa ortodossa greca e il patriarca di Costantinopoli – alla vigilia dell’importante sinodo panortodosso che si celebrerà a Istanbul e al quale con certezza il papa guarda con grande interesse – appaiono ben disposti nei confronti del riavvicinamento a Roma, quella russa e il patriarca di Mosca hanno l’aria di una maggiore e più decisa ostilità, o perlomeno di un più chiuso riserbo.

Perché? Vecchie questioni a parte, il fatto è che quella russa non è soltanto la più importante tra le Chiese ortodosse del mondo, ma che essa è a sua volta ufficiosamente una Chiesa di stato: e “zar Vladimir”, il presidente Putin, appare molto geloso di quell’indipendenza della Chiesa moscovita dalle altre, che è implicitamente una dipendenza dal Cremlino che fatalmente si attenuerebbe nel caso che il patriarca moscovita e quello romano (il “vescovo di Roma”, come Francesco si fa chiamare per limare ulteriormente la differenza costituita dal titolo papale, che sa di primato romano) in qualche modo si unissero. E non si vede, anche alla luce della tradizione universale cristiana, come tale unione potrebbe avvenire, se non come unione conciliaristica e collegiale. In altri termini, papa Francesco lavora a un processo che dà le vertigini: il ritorno alla tradizione cristiana più autentica, a una Chiesa universale guidata dai grandi patriarcati che alle origini erano quattro o cinque (Alessandria, Roma, Antiochia, Costantinopoli, Gerusalemme), ma il numero dei quali potrebbe variare secondo le esigenze di un mondo ormai molto diverso da quello dei secoli IV-V.

Intanto, sembra pensare Francesco, andiamo per gradi: limiamo le difficoltà, spianiamo la strada. Favoriamo il mutuo riconoscimento dei cristiani fra loro, alla base, con opportuni provvedimenti che ne favoriscano l’unione sostanziale al di là degli ostacoli istituzionali. La concelebrazione della messa e dei sacramenti, per esempio; e, dove e quando si può, la celebrazione delle feste comuni.

Le due grandi solennità cristiane, in effetti, si celebrano in date differenti tra Chiese occidentali e Chiese orientali. Per il Natale, le prime sono fedeli all’antica tradizione romana del solstizio d’inverno, la festa imperiale del Sol Comes Invictus divenuta quella del Christus Sol, mentre le seconde tendono a celebrare il 6 gennaio – con alcune variabili locali – tanto la Natività quanto l’ Epifania. Poi c’è l’ostacolo della Pasqua, che non è una data solare “fissa”; bensì una data lunare “mobile”: gli ebrei la celebrano nel giorno di plenilunio del mese di nisan, quello più prossimo all’equinozio di primavera, e i cristiani tendono a spostarla alla domenica successiva a quel giorno.

Fin qui, ci sarebbe accordo. Il fatto è che le Chiese occidentali – su impulso di quella romana, che fu però seguita dalle altre – hanno nel XVI secolo messo in opera la riforma calendariale cosiddetta “gregoriana”, laddove ortodossi e cristiano-orientali sono rimasti fedeli al vecchio calendario giuliano, quello della riforma di Giulio Cesare.

Ora, il papa propone un’unificazione. Con quali mezzi, secondo quali metodi? Gli ortodossi, i russi soprattutto, sono molto fedeli alle loro tradizioni: e hanno ragione. Cercare un compromesso, una via di mezzo, non sarebbe né facile né opportuno: il legame con la Pasqua mosaica non può esser messo in discussione.

Lasciamo lavorare gli specialisti in questioni liturgiche e calendariali: e contentiamoci del fatto che nulla verrebbe a essere leso sul piano della dottrina e della Tradizione. Ma qualche osservazione pratica va pur fatta. Oggi, ormai tutto il mondo accetta a livello internazionale il còmputo degli anni a partire dalla data della nascita convenzionale di Gesù e il calendario gregoriano: esistono delle variabili, a cominciare dall’egira e dai tredici mesi lunari dell’Islam, ma ormai servono per le datazioni interne a tale cultura. Anche gli ortodossi e orientali hanno i loro orologi e i loro calendari sincronizzati su quello usato internazionalmente. Nella stessa Russia, del resto, la Rivoluzione d’Ottobre adottò il calendario gregoriano per quanto la Chiesa ortodossa restasse fedele a quello giuliano: il che non ha mai provocato grossi disagi, ma in fondo costituisce una difficoltà che si potrebbe appianare. Putin cerca un avvicinamento all’Europa: la sua intervista rilasciata al “Corriere della Sera” il 6 giugno scorso non lascia dubbi su ciò; ed egli ha ripreso con energia una linea ch’era già stata anticipata da Gorbaciov. Ecco un’occasione buona.

E allora, caro Zar Vladimir, siccome atteggiarti a “vescovo di quelli di fuori” come il tuo predecessore Costantino ti piace tanto, e visto che il calendario sulla tua scrivania al Cremlino segna il giorno gregoriano, il giorno romano, perché non dai un piccolo suggerimento al tuo patriarca? Il “primato romano”, come lo sta ridisegnando Francesco, è un primato in termini di  auctoritas, non di potestas. Tu e la tua Chiesa non ci perdereste nulla e ci guadagnereste moltissimo. E sarebbe un passo epocale, straordinario, una vera tappa storica nel senso pieno e totale di quest’espressione.

Franco Cardini