Domenica 28 giugno, XIII domenica del Tempo Ordinario
SE LA STORIA SI METTE A CORRERE
Cari Amici, scusate il ritardo con il quale immetto stavolta nel nostro solito modesto circolo le mie considerazioni settimanali: non è la prima volta né certamente sarà l’ultima. D’altronde, avrei pur le mie brave giustificazioni: rientro dal Brasile, solito giro per banche e uffici di quando si torna dopo un’assenza di una qualche durata, necessità di lavorare subito e intensamente…e zàcchete, il computer che ti pianta in asso. Come il frigorifero che si guasta a metà luglio o la caldaia verso i primi di gennaio. Sto adesso lavorando con un PC nuovo di zecca, lucente, elegantissimo, pieno di raffinate funzioni: e naturalmente non ci capisco un accidente. Frattanto, attorno a me succede il finimondo.
Appunto. Difatti ho detto che avrei le mie brave giustificazioni. Se intanto non fosse accaduto di tutto: dalla Grecia agli interessanti exploits balneari dell’IS. Sono queste cose, in realtà, ad avermi messo più in crisi del computer che non so usare. Perché il giorno è fatto di 24 ore, e ogni ora di 60 minuti. Hai voglia di far nottate…
DUE BANALI CONSIDERAZIONI SULLA GRECIA
Dovrò, per motivi di maggior impegno e di minore incompetenza, dedicare un po’ più di attenzione al califfo & Co. Solo due parole quindi sulla Grecia. Più che due parole, una doverosa e dolorosa dichiarazione di fede.
L’Europa è morta, viva l’Europa, dicevo pochi giorni fa. Lo ripeto. Se vogliamo salvare l’Europa e la sua unità (ch’è tutta da costruire), l’Unione Europea va abbattuta e rifondata. Non sono affatto un lettore devoto di “Repubblica”, ma quel che negli ultimi giorni ci hanno proposto su quel quotidiano Habermass, Krugman e la Spinelli è sostanzialmente esatto e sottoscrivibile. Che sia stato un crimine volontario o un tragico e grottesco errore, il fatto è che non si sarebbe mai dovuto procedere a una “unificazione” economica e monetaria dell’Europa senza prima aver messo a punto al sua unificazione politica. E non andiamo a tirar fuori alibi inappropriati: lo Zollverein non fu per nulla un precedente dell’unità tedesca, senza la forza e la lucidità politica della Prussia bismarckiana non sarebbe successo un bel niente. Ma nel caso della UE ha purtroppo vinto, una volta di più, il peccato originale della Modernità: il primato dell’economia. Ci siamo illusi – e qualcuno ha voluto illuderci – che dopo l’Eurolandia sarebbe arrivata deterministicamente, fatalmente, l’Europa.
Non era vero. E adesso, ha forse ragione chi paventa l’esito del plebiscito greco del 5 luglio. Perché i casi sono due: o la spunta Tzipras (mi chiedo poi perché lo si debba scrivere alla francese…); e allora è un salto nel buio che potrebbe davvero preludere a una tragica reazione a catena che coinvolgerebbe per prime Spagna, Portogallo e Italia; o la spuntano i partiti della destra che chiedono invece il reallineamento alla volontà dei banchieri che governano l’Eurolandia, i sacrifici ad ogni costo e il ritorno all’austerity, e allora nella migliore delle ipotesi il salto nel buio è solo rimandato.
Resta comunque certo e inevitabile che quest’Europa vada distrutta e rifondata. Ma come, con quali fasi, con quali metodi, questo è un altro discorso. Partiamo da poche semplici considerazioni e proviamo a ragionare.
Primo. A prescindere dai suoi stessi errori, non si doveva portare il governo Tzipras all’esasperazione e alla disperazione. Se l’Europa fosse quel che dovrebbe essere, non una “Unione” bensì una Comunità, la prima legge da rispettare sarebbe quella della solidarietà tra i paesi che ne sono membri. Quando in una qualunque comunità, dalla famiglia al condominio, c’è un debitore in cattive acque ma che dichiara di voler pagare, la prima misura è concedergli credito e respiro. Chi ha stabilito i ritmi e le scadenze di restituzione ai quali la Grecia dovrebbe sottostare? Si tratta delle ferme regola cosmiche o delle “ferree leggi del mercato”? Di pubbliche esigenze o d’interessi e di profitti privati, visto che a gestire l’euro sono, tramite la BCE, dei privati?
Secondo. Se è vero che un certo deficit è indice di salute economica, produttiva e politica, quando si eccede c’è pericolo: d’accordo. Ma l’ossessione del “pareggio di bilancio” non si è già rivelata una grottesca illusione fino dai tempi di Quintino Sella?
Terzo. Sarà senza dubbio vero che non ci sono soldi e che si debbono contenere le spese: ma allora, perché non rivediamo radicalmente e capitolo per capitolo i nostri capitoli di bilancio? Prendiamo l’Italia: se i dati e i calcoli proposti da Gino Strada sono veri, il nostro governo spende un miliardo di dollari all’anno per mantenere 4000 nostri militari in Afghanistan. E io ho fatto un sogno: una bella mattina di lunedì il Rottamatore si sveglia di buon’ora, più presto del solito; parte a razzo dalla sua Pontassieve, se corre alle 8,30 è già a Palazzo Chigi, convoca i ministri degli esteri e della Difesa e nel giro di poche ore dispone il ritiro dalle montagne e dai rocciosi passi afghani dei “nostri quattromila ragazzi”. Loro delusione per la perdita di sostanziose diarie, disperazione per la fine di ricche commesse militari e logistiche, sconcerto negli alti gradi delle nostre Forze Armate. E il miliardo così risparmiato lo passiamo alla Grecia (che con noi è già scoperta di parecchi altri soldi) per saldare la prima rata del suo disavanzo. Così, in un colpo solo, la facciamo finita con i postumi della nostra vergognosa complicità con l’aggressione di Bush all’Afghanistan nel 2001 e diamo una mano a una nazione sorella contro i pescicani della BCE.
ALL’ARMI ALL’ARMI, LA CAMPANA SONA, IL CALIFFO E’ SBARCATO ALLA MARINA…
Chi attacca? Chi è attaccato?
Di primo pomeriggio del 26 giugno mi chiamano affannosamente da due o tre quotidiani e debbo mettermi al lavoro con fretta febbrile. Tragiche, terribili notizie provengono da Lione, dalla Tunisia, dal Kuwait e dalla Somalia. E dal canto mio la cosa che mi sorprende, mi fa da una parte quasi ridere e dall’altra – lo confesso – mi spaventa è una coincidenza tra il fascinoso e l’agghiacciante. Appena il display del mio PC si è liberato della foresta iniziale di simboli e di sigle, quel che la invade è una luminosa visione del deserto tunisino: dune dorate a perdita d’occhio all’orizzonte, una coppia d’innamorati dinanzi a una tavola e a due coppe di champagne, in primo piano una cortina di lampade arabe di delicatissimo argento traforato. Ho pensato con una stretta al cuore che magari, qualche giorno fa, è stata proprio quell’immagine serena e fiabesca a condurre qualche ignaro turista al resort di sogno nel quale ha trovato la morte.
Mentre scrivo, il mio eterno hi-fi spande sulle colline di Firenze che si vedono dal mio studio le note della Sheherezade di Rimski-Korsakov (la colonna sonora del Lawrence d’Arabia interpretato da Peter O’ Toole: ricordate?). Più sogno d’oriente di così…E io mi chiedo, quasi atterrito: ma chi, ma che cosa ci sta circondando di tanto funesti presagi? In quale maledetto gorgo d’orrore stiamo per naufragare, o siamo già naufragati?
Calma. Tanto per parafrasare un noto adagio, è quando il gioco si fa serio che le persone serie debbono cominciar a giocare. Che cosa mai sappiamo di quel che è successo? Non fatevi accalappiare da chi, sui giornali o in TV, ve lo ha subito spiegato a colpi dei soliti luoghi comuni, sostenendo che tutto si tiene; che i disperati di Lampedusa, i tagliatori di teste di Lione e gli assassini di turisti sono la stessa cosa, una-faccia-una-razza; e che i musulmani vogliono portarci via o la vita o l’anima e che noi non dobbiamo dar loro né l’una né l’altra.
Purtroppo, un avvenimento non è ancora un fatto: ne è solo un sintomo. E anche due, tre, quattro, dieci, cento avvenimenti non sono ancora altrettanti fatti. Abbiamo avuto un episodio di sangue in una fabbrica francese, una testa umana separata dal corpo, una bandiera nera dell’ IS, un responsabile subito acchiappato ma che forse ha ancora dei complici a piede libero; una quarantina di turisti occidentali massacrati in un elegante resort di Sousse a sud-est di Tunisi, da un tizio (ma forse erano di più) che pare sia un ingegnere (come se “la cultura” mettesse al riparo dal fanatismo; e come se avere una laurea significasse aver cultura…); un’altra trentina di morti e circa duecento feriti in un attentato di un kamikaze sunnita nella moschea sciita di Al-Imam al-Sadek in Kuwait; un’autobomba lanciata contro le forze delle truppe di peacekeeping dell’Unione Africana a Leego in Somalia, 130 chilometri a sud di Mogadiscio, seguita da una sparatoria provocata dalle milizie di al-Shabaab, legate ad al-Qaeda, con un’ulteriore trentina di morti.
E qui si delinea anche se è ardua a comprendersi la logica interna di questi avvenimenti: essi divengono fatti. L’avvenimento, cioè l’evento (da evenire), è qualcosa che avviene, che càpita; il fatto (da facere) richiede in qualche modo l’intervento umano, sia pure soltanto sotto forma esegetica; e per sua intrinseca natura necessita d’interpretazione. Ora, non c’è bisogno di essere più decostruzionisti di Derrida per obiettare che quel che interessa dei fatti non sono i fatti in sé, bensì la plausibilità della loro interpretazione: ma le interpretazioni possono essere molteplici. A fatti del genere siamo ormai purtroppo abituati. Per tacere i precedenti – dal Vicino Oriente al sudest asiatico all’Africa all’America latina -, è dai tempi della crisi balcanica (vale a dire da un quarto di secolo) che viviamo in queste condizioni – altro che Anni di piombo… -, nonostante il nostro felice Occidente, che si riteneva un’isola più o meno immune dalla violenza che magari esportava nel mondo, sembra essersi accolto di esserne coinvolto anche come vittima solo dall’indomani dell’11 settembre 2001. Peraltro, abbiamo fino ad oggi convissuto con l’orrore quotidiano senza farcene poi troppo scuotere: come se un afghano o un irakeno o un somalo o un nigeriano, se feriti a morte, soffrissero di meno (o valessero di meno) di un americano o di un europeo. Anche nel quadruplice evento del 26 giugno scorso (a parte comunque il caso di Lione, che si va rivelando piuttosto come una faccenda di vendetta privata travestita da operazione terroristica), la quarantina di morti europei di Sousse ci ha fatto incommensurabilmente più impressione della settantina (feriti a parte) di morti tra Kuwait e Somalia: ma i nostri opinion makers, al solito, starnazzano di attacco all’Occidente e continuano a ignorare o a sottovalutare la fitna, la guerra intermusulmana tra sunniti e sciiti, tra sunniti “jihadisti” e sunniti “moderati”, tra sunniti “jihadisti” di differenti tendenze come quelli dell’IS e quelli dei vari rami di al-Qaeda.
L’Occidente quindi, e in particolare l’Europa, sono senza dubbio coinvolti: ma dev’esser chiaro che una cosa sarebbe l’attacco musulmano diretto ed esclusivo contro la “fortezza crociata”, lo Scontro di Civiltà, che è reale solo nelle architetture ideologico-politiche di qualche teorico islamista e nelle non innocenti “ricostruzioni” esegetico-pubblicistiche di quelli che da noi fantasticano di musulmani che vorrebbero portarci via “la vita o l’anima”; mentre un’altra sarebbe se si è dinanzi a un’offensiva di alcuni musulmani diretta prevalentemente contro altri, ma che coinvolge anche gravemente il mondo non-islamico.
E’ comunque un fatto che gli attentati ci siano stati e che ci si debba aspettare ancora qualcosa del genere, magari di peggio. Essi, chiunque li metta in scena, servono a intimidire o a indignare: cioè, in tutti e due i casi, sono segnali che hanno come obiettivo l’indurre l’avversario a valutazioni e a mosse sbagliate. E più la cosa sembra chiara, più è ingarbugliata. Gli episodi dell’11 settembre 2001 a New York e a Washington e del 7-10 gennaio 2015 a Parigi dovrebbero ben averci insegnato qualcosa (per quanto vi sia da dubitarne).
Lasciamo quindi ad altri il blaterare sullo Scontro di Civiltà e il farneticare sulla chiusura delle frontiere (la globalizzazione, nella e della quale viviamo tutti, significa anzitutto impossibilità di chiudere la frontiere; tanto più che gli attentatori di solito ci arrivano dall’interno di esse). Chiediamoci invece: chi può aver interesse a farci cadere nell’incubo – degno degli scenari del film Matrix – di una guerra totale scatenata dal Grande Satana Musulmano contro il libero e civile Occidente? E chi può giovarsi di un mondo nordafricano – una delle principali risorse delle quali è da decine di anni il turismo occidentale – preda del terrore e abbandonato dai suoi abituali prosperi visitatori? E che cosa significa l’accaduto, se non un nuovo anello della lunga catena di violenze e di delitti alla quale speravamo che le “primavere arabe” mettessero fine, mentre il loro fallimento ha segnato invece un passo avanti nella guerra senza quartiere delle differenti forze che si agitano nell’universo islamico?
La sincronia tra l’episodio lionese e quello tunisino era senza dubbio impressionante: tuttavia, era ingannevole. Si trattava a quanto apre di un episodio di vendetta che il protagonista aveva cercato di camuffare da attentato politico-religioso. Teniamolo presente, dovunque ciò torni a capitare. Una bandiera nera non basta e comunque non è una prova: può essere il biglietto da visita del regista al-Baghdadi, ma anche semplicemente l’insegna di un’adesione unilaterale e solitaria; o magari l’alibi sventolato (è il caso di dirlo) da qualcuno che ha interesse a farci vedere le cose diverse da come sembrano. Pensate a Matrix, appunto.
La vera domanda da porci oggi non è quindi tanto e soltanto chi abbia armato le mani degli attentatori di Sousse, di Kuwait City e di Leego, e se essi dipendano (e in quali modi) da una stessa centrale o da più centrali fra loro collegate o meno, quanto se ciò condurrà o no a una risposta del mondo occidentale – e dello stesso Islam – a quello Stato Islamico che ormai da molti mesi sembra unanimemente condannato il “nemico pubblico Numero Uno” della società civile mondiale ma contro il quale – a parte un pugno di guerriglieri e guerrigliere curdi, un po’ di soldati dell’esercito regolare siriano e alcuni volontari iraniani – nessuno o quasi si muove, a cominciare dagli Stati Unit paralizzati dal braccio di ferro tra il presidente Obama e il Congresso; e pare anzi perfino che qualche forza “filoccidentale” protegga il califfo. I turchi, ad esempio, che intendono fermamente impedire il profilarsi di uno stato curdo alle loro frontiere meridionali.
Poche migliaia di fanatici di varia provenienza musulmana, col pittoresco contorno di alcuni foreign fighters occidentali e un buon gruppo di quadri del vecchio esercito sunnita, socialista e praticamente ateo dell’esercito di Saddam Hussein: sono queste le forze armate del califfo. Ma la sua forza più vera è quella mediatica, quella propagandistica: qui siamo davanti a un conflitto che è anche virtuale, e da questo punto di vista l’IS è forte. E da chi prende fondi, da chi acquista armi, a quali lobbies vende il petrolio che continua a estrarre? Queste le domande alle quali l’ONU e i servizi occidentali dovrebbero rispondere: ed è impossibile che non abbiano informazioni per farlo.
Ma tutto tace, tutto è oscuro. Quel che sappiamo è che i due paesi più forti e più filoccidentali del mondo arabo-musulmano vicinorientale, l’Egitto semineonasseriano di al-Sisi e l’Arabia saudita wahhabita per il momento sono uniti, nonostante si detestino allegramente, per schiacciare non già al-Baghdadi bensì gli sciiti dello Yemen, gente che senza dubbio non ama i jihadisti: ed ecco un’altra “guerra dimenticata”, come quella che negli Anni 0ttanta Saddam Hussein, istigato dagli americani, scatenò contro l’Iran. Quante contraddizioni, quanti voltafaccia, quanto oblio… Notte e nebbia.
C’è del metodo, in questa follìa…
Quando qualcuno commette qualcosa di orribile contro qualcun altro, i casi sono due: o è molto arrabbiato con lui o agisce freddamente in quanto qualcuno l’ha pagato o comunque indotto al crimine. E quando qualcuno subisce un atto di violenza, o se ne sente comunque direttamente toccato, l’intenzione di chi l’ha colpito può avere di solito due soli scopi: l’indignarlo o l’intimidirlo. Comunque, l’indurlo a una risposta affrettata ed errata.
E alla base dell’errore di valutazione, in questi casi, c’è il semplicismo: chi, se non un pazzo fanatico, può macchiarsi appunto di un atto di fanatica pazzia come il decapitare un suo simile? E chi può essere così folle, così irresponsabile, da massacrare degli innocenti turisti oltretutto portatori non solo di valuta pregiata in un paese che ne ha estremo bisogno, ma soprattutto segno evidente che il mondo non si è lasciato scuotere più di tanto dai massacri come quelli del 19 marzo scorso nel Museo del Bardo di Tunisi e prova quindi, secondo gli attentatori, che si deve alzare il tiro e far di peggio per provocare il fuggi-fuggi generale, il si-salvi-chi-può suscettibile di gettare un paese intero nello scompiglio e nella miseria, di screditare per sempre il suo governo, di provocare magari dure e indiscriminate rappresaglie? In fondo, proprio a Tunisi, le bombe americane e israeliane di una trentina di anni fa se le ricordano ancora… Mentre noi abbiamo dimenticato le elezioni del dicembre del 2013, tutt’altro che ineccepibili, che portarono al governo una composita formazione “laica” e provocarono un discreto numero di arresti e una repressione (prontamente approvata dai governi occidentali e taciuta dai nostri media ) contro i gruppi fondamentalisti: il che deve aver fatto per reazione il gioco di al-Qaeda e poi dell’IS.
Suona dunque ancora saggia ed efficace, mezzo millennio circa più tardi, la battuta del buon Orazio dell’Amleto di Shakespeare dinanzi all’ostentata insensatezza del principe di Danimarca: “C’è del metodo in questa follìa…”.
Proviamo a partire da qui; proviamo a ordinare, movendo da due episodi terroristi differenti per località e qualità ma legati anzitutto da una semisincronicità ardua a credersi casuale, i “fatti” che potrebbero sembrare delle prove mentre sono ancora solo degli indizi.
Da dove viene la regia dei recenti attentati? Ce n’è davvero una sola? Davvero IS e i vari rami di al-Qaeda sono in grado di controllare e coordinare una complessa e disciplinata “piramide di comando”? Oppure, come accadeva nella “classica” al-Qaeda, siamo dinanzi a una maglia di cellule autonome e autocefale, una rete di gruppi che perseguono analogo compito e ostentato segni e riti simili (la decapitazione, ad esempio), magari in concorrenza e spesso in lotta. E tutto ciò sempre ammesso che il linguaggio esplicito delle prove dinanzi con le quali siamo chiamati a confrontarci non nasconda un inganno: che cioè per esempio l’attacco ai turisti di Sousse non sia qualcosa di simile al Reichstag incendiato del 1933 o allo Harvey L. Oswald, il “comunista “ presunto attentatore di John F. Kennedy provvidenzialmente caduto sotto i colpi di un “vendicatore”. Lo abbiamo già ripetuto altre volte, l’indignato grido del Gran Sacerdote dinanzi all’enormità delle supposte evidenze: “Che bisogno abbiamo di testimoni?”, abbiamo ripetuto con Caifa l’11 settembre del 2001 per le “Due Torri” e poi il 7 gennaio del 2015 per quelli di “Charlie Hebdo”. Eppure, su entrambi quei due casi, pur ancora richiamati e celebrati, il silenzio e l’oblìo sono di fatto caduti ben prima che ricevessimo, a proposito delle responsabilità e dei mandanti, le risposte che attendevamo e che in parte fingevamo di avere già avuto. Ad esempio, il governo tunisino ha risposto all’attentato di Sousse chiudendo un’ottantina di moschee nel paese: tutte centri di gruppi davvero sospetti di poter nascondere un’attività di appoggio o una tendenza alla simpatìa nei confronti dell’IS, oppure semplici oppositori del governo di Tunisi? E se la repressione politica è stata la risposta all’attentato, chi ci dice che esso non sia stato in qualche modo provocato da chi aveva appunto interesse a costituirsi un alibi per quel tipo di risposta? Da noi, alcuni imbecilli hanno lodato il governo di Tunisi e hanno auspicato anche da noi al chiusura di almeno alcune moschee: ma, a parte il fatto che in Italia non ce ne sono ottanta, chi ha alzato in tal senso la voce ha dimenticato che oggi in tutti i paesi musulmani aprire una nuova sala di preghiera è in un modo o nell’altro il mezzo più semplice per essere esentati da alcune tasse: altro che “jihadismo”…
E allora, cerchiamo di esser chiari. Il punto vero non è stabilire che il califfo è una specie di grande capo dell’Organizzazione Spettro come nei film di 007 e che è il “Pericolo pubblico Numero Uno” della società mondiale, quanto capire com’è stato possibile che una minaccia nata alcuni mesi fa tra un Iraq che mai si era ripreso dopo l’aggressione del 2003 e una Siria che la Francia di Hollande e l’Inghilterra di Cameron avevano deciso fin da quattro anni fa di destabilizzare abbia finito per partorire un grottesco mostriciattolo predicante e nerovestito che però ha unito come d’incanto una pittoresca – eppure efficace e ben disciplinata – legione straniera di musulmani sunniti estremisti provenienti da tutto il mondo, di ex ufficiali irakeni baathisti e saddamisti, quindi “laici” fin quasi a un “laicismo” semiateo (altro che jihad!…) degno di Mustafa Kemal Atatürk, e con essa spadroneggia tra Siria e Iraq trovando una resistenza solo in quel che rimane degli eserciti irakeno e siriano lealisti, in un pugno di curdi splendidamente coraggiosi e in alcuni volontari iraniani. Chi continua a finanziare e ad armare il califfo, chi compra il petrolio pompato dai pozzi che egli controlla? Fuori i nomi delle lobbies che sostengono i cacciatori di teste e delle centrali che riciclano i suoi soldi, subito!, è stato chiesto: senza che nessuno abbia risposto.
Intanto, la voce di Hollande s’innalza dall’Eliseo: e sarebbe patetica, se non facesse rabbia. “E’ terrorismo!”, annunzia lui con lapalissiana sicurezza. E che cos’altro era, anche allora, quello degli jihadisti dei quali il suo predecessore Sarkozy si servì per sbarazzarsi del libico Gheddafi e lui stesso per cercare insieme con Cameron di rovesciare il siriano Assad? E che cos’era quello dei talibani, i guerriglieri-missionari importati nell’Afghanistan degli Anni Ottanta dagli Stati Uniti e dal re dell’Arabia saudita in Afghanistan per combattervi il regime socialista sostenuto dall’URSS e sbarazzarsi del coraggioso e illuminato Massud? In passato, l’Occidente si è servito ipocritamente e spregiudicatamente dei terroristi tutte le volte che gli hanno fatto comodo, salvo poi meravigliarsi se e quando – cioè sempre – essi scappavano dal suo controllo. E allora, forti di queste esperienze, noi che un po’ di memoria ce l’abbiamo e che cerchiamo di ragionare secondo un briciolo di logica, ci chiediamo: com’è che questi quattro gattacci sia pur feroce, coraggiosi e ben armati di jihadisti dell’IS. Dichiarati “pericolo pubblico Numero Uno” della società mondiale, continuano a spadroneggiare tra Kurdistam Iraq e Siria? Che ne è di chi doveva fronteggiarli? Come mai con tanta leggerezza si parla ad esempio di un “probabile (?) appoggio” loro fornito dalla Turchia di Erdoğan che condivide i loro stessi nemici, vale a dire Assad e i curdi? E come mai l’egiziano al-Sisi e il re dell’Arabia saudita, entrambi sunniti e amici degli occidentali, bombardano gli yemeniti sciiti (avversari inflessibili del ramo yemenita di al-Qaeda, il più temibile) fingendo che il califfo non sia alle loro porte?
A meno che al-Baghdadi, predicando la Guerra Santa in conto terzi al ben pagato servizio di chi vorrebbe riorganizzare la sconquassata compagine siroirakena dopo tanti guai e tanti errori e magari riposizionarsi ai confini del vicino Iran (dovrà pure andarsene prima o poi qual negro pacifista di Obama dalla Casa Bianca, mugugnano i falchi repubblicani del Congresso…), non si sia montato un po’ troppo la testa e abbia deciso, come si dice, di “mettersi in proprio”. E allora, magari, un bel po’ d’indignazione per i fatti lionesi e tunisini potrebb’essere una buona base mediatica per una replica che, spazzando via l’IS, riorganizzasse una buona volta la disordinata situazione geopolitica e geopetrolifera del Vicino Oriente, magari portando casualmente un po’ di basi con tanto di missili a testata nucleare il più vicino possibile a quell’Iran che – come continuano a denunziare ispirati i professori Novak e Ledeen – resta il “Primo Vero Nemico dell’Occidente”.
D’altronde, anche da noi, non manca chi si lascia scappare sia pure a denti stretti qualche commento positivo nei confronti dei “jihadisti”. Feroci, ignoranti, fanatici quanto volete – si dice -, ma in fondo ( e magari proprio per questo) sinceri e decisi. Sincerità e decisione possono essere una conseguenza e un corollario del fanatismo, ma ne costituiscono comunque diciamo così l’ingrediente “virtuoso”: come faremo a vincere il confronto con questa gente che ha ideali ed è disposta a combattere e a morire per questo, noi che ormai crediamo solo nei soldi, nel consumo, nel profitto? Eppure, basterebbe una rapida inchiesta nei paesi musulmani – molti gestori anche italiani di alberghi tunisini lo hanno confermato – per sapere che là il jihad può essere un lavoro “la nero” ben retribuito, come da noi il manovalato della mafia e della malavita. Anche nella ‘Ndrangheta s’invoca la Madonna e di uccide in nome di Dio. Non affrettiamoci quindi, anche da questo punto di vita, a parlar di Scontro di Civiltà tra un Occidente ateo, edonista e materialista (come fa l’IS a proposito del politische Soldat di Sousse, annunziando che “un nostro militante è entrato nel covo del vizio e della corruzione” a seminar morte tra i bagnanti svestiti) contro un Oriente musulmano ancora in grado di schierare dei martiri Guerrieri. Tra loro ci sono un sacco di ragazzi che pensano all’occidentale come nelle banlieues parigine o nel sobborgo di Scampia, e che ammazzano perché sognano l’iPhone ultimo modello e la moto lucente. Altro che tenebre del fanatismo, come vorrebbero alcuni, o luce della fede, come proporrebbero altri! La corruzione occidentale è durissima da battere: tanto che, magari, marcia alla testa dei suoi stessi nemici.
“Muslim Summer”, ovvero strategie balneari.
Ma la fantasia di chi poco sa e ancor meno sa inventare non conosce ostacoli. E ora si sta parlando addirittura di una “nuova strategia” dell’IS consistente nel mettere a punto una serie di attacchi via mare sulle spiagge mediterranee; la paura è che tale strategia, dopo il caso tunisino, possa estendersi anche a quelle europee. Anche se oggi (sera del 29 giugno) sembra già assodato che l’attentatore di Sousse non era solo e tantomeno veniva al mare.
Certo, la situazione in corso è tanto grave quanto confusa; e che, se è vero che nessuno può sentirsi al riparo da nulla (il che del resto, a ben vedere, è l’ordinaria condizione umana che l’attuale contingenza sottolinea e aggrava), è non meno vero altresì che noi non sappiamo niente di preciso né sulla strategia dell’IS, ammesso che ce ne sia veramente una e coerente, né sul livello di centralizzazione e di dislocazione degli eventuali gangli di comando ed esecutivi.
Il campo è aperto a ogni ipotesi, anche a quella di un’estensione europea di questo tipo di attacchi: col pericolo tuttavia di spargere un allarme che potrebbe cronicizzarsi nei prossimi mesi, quelli estivi, nei quali le spiagge sono piene, e trasformarsi in una vera psicosi. E a questo bisogna prestare attenzione, perché sappiamo ormai che la strategia del califfo, se ne ha davvero una, è mediatica prima e più che non propriamente militare. In altri termini, è ovvio che il piccolo esercito dell’Isis ha dato esempi temibili di efficienza; ma è non meno ovvio che questa è soprattutto e anzitutto, almeno per il momento, una guerra mediatica.
I conflitti non si vincono né con le minacce, né con le teste tagliate, né con colpi di mano isolati, a meno che si collochino in una precisa contestualizzazione. Chiediamoci allora a che cosa potrebbe mirare un eventuale stendersi delle tecniche di assalto a spiagge piene di turisti. Ma di quali turisti? È più che evidente che i guerriglieri jihadisti oggi vogliono colpire il turismo occidentale in quei paesi arabo-musulmani in qualche modo schierati a fianco dell’Occidente o comunque contrari alla loro linea e i governi dei quali si sono resi responsabili di durissime repressioni nei loro confronti. In Algeria, in Tunisia e in Egitto, dove i fronti jihadisti erano tanto forti da riuscire a vincere persino in competizioni elettorali, ma dove dai governi che a un certo punto hanno controllato sono stati allontanati o con colpi di stato o con elezioni sospette di brogli, è ovvio che si verifichino reazioni tese soprattutto a colpire la fama di efficienza dei nuovi regimi filoccidentali – o supposti tali – e a minarne l’economia che in Africa settentrionale si fonda molto sul turismo
Ma una tecnica del genere è esportabile? Se i jihadisti vogliono impedire ai danarosi o benestanti turisti europei di affollare gli eleganti resorts algerini, tunisini e egiziani, siamo altrettanto sicuri che abbiano anche interesse a colpire le coste della Versilia, delle Cinque Terre o persino della Sicilia affollate da maestri di Vigevano e casalinghe di Voghera? Rispondere affermativamente a questa domanda significherebbe aver ceduto le armi all’idea dello Scontro di Civiltà; chi sostiene tale posizione non si accorge o finge di non accorgersi che quella dell’IS è anzitutto una guerra interna all’Islam, una fitna, e non (al di là delle ispirate farneticazioni di al-Baghdadi) un conflitto apocalittico teso a conquistare, convertire o distruggere l’Occidente cristiano, che tale non è più da ormai parecchi decenni. In Occidente ci sono, è vero, ancora dei cristiani: ma sono più di due secoli che esso ha cessato di essere una Cristianità.
Va inoltre fatto notare che, almeno per quanto sappiamo finora dall’unico esperimento che siamo in grado di giudicare, quello di Sousse, l’attacco via mare è stato condotto – forse – da uomini e natanti che venivano da pochi km di distanza sulla stessa costa. Praticamente, una sorta di semicerchio sul litorale dal punto di partenza alla meta. Non si vede proprio come una tecnica del genere potrebbe credibilmente riuscire in Europa, neppure sulle vicinissime coste siciliane che sono comunque pur sempre abbastanza lontane dalle basi degli jihadisti. Vero è che tra VIII e X secolo c’era una base di corsari saraceni a Fraxinetum, vicino a Saint-Tropez: potrebb’essere un buon suggerimento balneare per jihadisti à la mode di oggi…
Tirando le somme, i motivi tecnici o tattico-strategici che invitano alla prudenza sono molti, praticamente infiniti; ma le ragioni per pensare che una esportazione degli attacchi via mare diretti alle nostre coste e al turismo europeo sono molto tenui. Vero è che i sostenitori di sciocchezze del genere abbiano alto e forte.
Naturalmente, tutte queste considerazioni si scontrano con un problema di fondo, dato dal fatto che noi dell’IS, di com’è organizzato, dei suoi reali meccanismi interni, delle sue tecniche di espansione, e soprattutto (ed è la cosa più importante) dei suoi finanziatori e delle sue finalità – nonché dei suoi princìpi sociali, che gli procurano molti sostenitori – sappiamo ancora poco; e sotto il suo stendardo, l’ormai temibile bandiera nera che porta scritta la shahada, potrebbe celarsi ogni sorta di forza eversiva o provocatrice, ivi comprese quelle di delinquenti comuni o di provocatori intenzionati a intorbidire le acque e accrescere le nostre paure nell’evidente intento di indurci a risposte emozionali affrettate e probabilmente erronee.
Va da sé comunque che nulla va sottovalutato, nulla o il meno possibile lasciato al caso. Debbono esser prese le necessarie misure, intensificando la sorveglianza costiera e soprattutto l’azione dell’intelligence, tenendo tuttavia presenti le ragioni per le quali la prospettata strategia califfale in Occidente appare alquanto aleatoria.
Franco Cardini