Minima Cardiniana 88

Domenica 9 agosto, XIX domenica del Tempo Ordinario

“CHE SE LI PORTI LUI IN VATICANO”: OVVERO IL FUNERALE DELLA DESTRA

I migranti e gli altri poveri, papa Bergoglio in Vaticano se li è portati con sé sul serio, senza bisogno di aspettare il suggerimento di Salvini o di Calderoli. Chi in questi mesi ha visitato Piazza San Pietro e il colonnato del Bernini, chi ha visto le installazioni igieniche che il vescovo di Roma vi ha fatto installare (e che i suoi sindaci avrebbero da tempo dovuto a loro volta sistemare da qualche parte) si è reso conto una volta di più che quest’argentino fa sul serio.

Qualcuno si è onestamente ma ingenuamente meravigliato che la Coppia Verde sia scesa così duramente in crociata (le crociate, la Coppia le ama…) contro il pontefice, Ma sul piano tattico e demagogico i Due sanno bene quello che fanno: e il bisogno, si sa, aguzza l’ingegno. Se non trovano in tempi ragionevoli un’ampia ancorché non solida base elettorale, i Nostri Eroi rischiano di dover tornar l’uno all’odontotecnia (anche se un gruzzoletto, in tutti questi anni, lo avrà ben messo da parte), l’altro alla nullafacenza più o meno confortata di pensione parlamentare. E allora, sotto con i fuochi d’artificio. Tantopiù che la posta è ricca: contro Bergoglio sta da tempo montando una forte protesta che interessa vari ambienti “cattolici” (o, come diciamo noi fiorentini, cattolischeri) di varia obbedienza neocon e/o teocon. Non c’è inoltre dubbio che nella sostanza le intenzioni di papa Francesco, specie con l’enciclica Laudato si’, abbiano ormai acquistato un chiaro profilo: e, se molti fedeli ne sono rimasti convinti e conquistati, molti altri si stanno allontanando invece da una Chiesa nella quale ormai non si riconoscono più. Insomma, Bergoglio è popolarissimo ma anche l’antibergoglismo paga.

Il punto è capire una buona volta quali siano le intenzioni politiche immediate della Coppia Verde. Forse, definirle politiche è esagerato: per far politica occorrono una strategia e una tattica, e i Due sono invece tutta tattica e nulla strategia: ora, con la sola tattica al massimo c3i fanno le elezioni. E’ d’altronde non meno vero che in Italia la massima parte di quel che la gente definisce politica è invece pura tattica elettorale e parlamentare. Non è sempre stato così. La Lega aveva al tempo di Gianfranco Miglio, e in alcuni suoi esponenti magari defilati ha ancora (penso a un Renato Besana o a un Gilberto Oneto) degli intellettuali interessanti, animati tra l’altro da un forte disegno europeistico e da una buona cultura storica che lo renderebbe credibile (un antirisorgimentalismo tutt’latro che bécero, per esempio). Ma la Coppia Verde non sembra interessata a coltivare tali pianticelle, tutta presa com’è a tener insieme gli espontenti di vario tipo non confluiti nel M5S, i reduci di Forza Nuova, i ragazzacci di Casa Pound, i nostalgici del nostalgismo missino.

Già, il vecchio MSI, eutanasizzato una ventina di anni fa, metabolizzato in Alleanza Nazionale, quindi vampirizzato dal vecchio Berluska, poi quasi rinato dalle sue ceneri con i Fratelli d’Italia ma che ormai dalla Lega si lascia trascinare più o meno vivacchiando: ed è un vero peccato, in fondo, perché Giorgia Meloni, per esempio, è una che la politica la fa seriamente e decorosamente, e come leader sarebbe molto più presentabile di altri. Ma tant’è: forse non urla e non minaccia abbastanza.

E allora, eccolo ancora una volta, più e più volte riciclato, il fantasma della “Destra”. Nomi magici ma sempre più ambigui, questi di “Destra” e di “Sinistra”: nati con una connotazione metafisica e apocalittica, radicati nella topografia parlamentare con la glorious Revolution britannica e con la Rivoluzione francese, oggetti di equivoci e di slittamenti semantici (basti pensare al concetto di Nazione, nato “di sinistra” in opposizione al Trono e all’Altare di ancien régime e quindi finito “di estrema destra”. D’altronde, mentre “a sinistra” esistono valori comuni, magari pensati e vissuti a un diverso grado d’intensità, un forte iato sul piano qualitativo sembra essersi imposto invece (salvo momenti anche lunghi di reciproca sopportazione e di alleanza) tra la Destra moderata, quella che si potrebbe definire “storica”, e quella estrema o radicale. Se la Destra storica è il “luogo delle libertà”, contrapposta a una Sinistra che si qualifica semmai come il “luogo della giustizia”, la Destra radicale – inventata nel ’21 da Benito Mussolini, quando egli e la sua sparuta pattuglia di deputati fascisti (quasi tutti di provenienza socialista, sindacalista e repubblicana) scelsero la “Montagna” dell’estrema destra nella collocazione di Montecitorio – desunse in origine la sua qualifica in quanto presentantesi come opposta rispetto all’estrema Sinistra di allora, che nel’17 aveva trionfato con la Rivoluzione d’Ottobre, ma per quanto nel corso del Ventennio assorbisse e metabolizzasse istanze anche liberali e cattoliche restò sempre, quanto meno nella sua retorica e in quella che si sforzò di qualificarsi come “ideologia”, profondamente “antiborghese” e in particolare antiliberal-liberista. Nel MSI del dopoguerra tali istanze, mediate attraverso l’esperienza della Repubblica Sociale Italiana, riemersero ed ebbero a riproporsi più o meno inquinate da un elemento desunto dall’ultimo fascismo, il razzismo antisemita per quanto “corretto” da un certo filosionismo contrastato ma anche diffuso.

Ed è un succedaneo del razzismo, nella forma ambigua e più pratica ed esistenziale della xenofobia piuttosto che in una qualche teorizzazione (presente tuttavia in qualche modo, nella pseudocultura dello “scontro di civiltà”) , quello che adesso sta tornando a reimporsi nelle file della Neo-Destra dopo aver trovato un nuovo catalizzatore nella Lega con il suo anti-islamismo prima, con la lotta contro i migranti che “portano via il lavoro” o che “vorrebbero invaderci (e addirittura convertirci)”.

I temi collegati alla necessità di respingere i flussi migratorii sembrano ormai il cavallo di battaglia della Coppia Verde e dei suoi seguaci. E verranno intensificati, perché sono demagogicamente ed elettoralisticamente molto promettenti. La limatura dei nostalgici di un nostalgismo fascista che ormai – “nicchie” a parte – non paga più, si sta accorpando attorno a queste nuove parole d’ordine. Se in quegli ambienti vi fossero leaders e collaboratori intellettualmente più solidi e capaci, si potrebbe quasi auspicare un sia pur moderato successo di una posizione che, partendo da un’originaria istanza di arginare il movimento migratorio, riflettesse seriamente sulle sue cause profonde: che non stanno nella “fuga” dalle guerre” o “dalle dittature”, e tanto meno nel complotto jihadista teso a invadere l’Europa, ma nella situazione del continente africano nel quale gli interessi delle lobbies internazionali alleati con i locali governi corrotti hanno prodotto il profitto e lo sfruttamento a vantaggio di pochissimi e il degrado ambientale, la carenza di posti di lavoro, la fame, l’imbarbarimento e la disperazione di intere masse umane che oggi altra prospettiva non hanno se non abbracciare il radicalismo jihadista illudendosi di farsene scudo contro il disastro continentale oppure immigrare in quell’Occidente che da molti decenni è il ricettacolo della ricchezza dei loro paesi, drenata senza rispetto alcuno dei loro diritti. Una Neo-Destra che, partendo dalle istanze di limitazione e di eliminazione dei flussi migratori, si ponesse sul serio il problema politico e sociale di questa infausta dinamica che rischia di travolgerci tutti a vantaggio di pochissimi, sarebbe obiettivamente benemerita. Ma attenzione, perché ormai la classe politica al livello mondiale è divenuta quasi del tutto “comitato d’affari” dei gestori di questa dinamica, che sono strettamente connessi alle élites finanziarie mondiali. E quanti ne traggono giovamento sono poi i medesimi che, da noi, finanziano i movimenti xenofobi e i loro mazzieri. Questa cose, Giorgia Meloni ha l’aria di averle capite: e di trovarcisi a disagio. Forse le hanno capite anche i Nostri Eroi: ed è per questo che loro, invece, ci marciano.

Franco Cardini

ANCORA IN TEMA DI ANNIVERSARI

Settantun anni or sono, l’11 agosto 1944, le truppe alleate – da tempo ferme a sud di Firenze, in località Falciani, sulla Cassia – entrarono in Firenze dalla Porta Romana e, percorrendo Via Serragli, passarono l’Arno su un Ponte alla carraia che i tedeschi avevano fatto saltare non molte ore prima, che però fu subito ricostruito in elementi prefabbricati in ferro e che restò da allora in opera un bel po’ di anni, prima della sua ricostruzione abbastanza fedele all’originale. Di quella giornata conservo, bambino di appena quattro anni, qualche flash nella mia memoria in quanto la casa nella quale ero nato – anche se purtroppo non apparteneva alla mia famiglia, che ci viveva in affitto da circa cinque anni e l’avrebbe mantenuta per altri dodici – era esattamente quella d’angolo, al lato sud dell’incrocio tra Via dei Serragli e Via di Serumido, al numero civico 7 di quella seconda via dal nome un po’ ridicolo che univa la Via dei Serragli alla Via Romana, la quale altro non era se non il tratto intraurbano della nuova Cassia, che al capo meridionale del Ponte Vecchio si univa alla vecchia – la quale proveniva dalla Porta San Nicolò – per attraversare poi Firenze secondo il tracciato dell’antico cardo maximus di Florentia, da Via Por Santa Maria che poi diveniva Via Calimala e quindi Via Roma per giungere in Piazza San Giovanni – dove più o meno era sita la porta settentrionale dell’antica cerchia muraria – e proseguire poi bella dritta divenendo successivamente Borgo San Lorenzo, Via de’ Ginori, Via San Gallo e infine (passata la Porta San Gallo dell’ultima cerchia e l’arco di trionfo lorenese eretto in onore del granduca Francesco Stefano, marito dell’imperatrice Maria Teresa) riprendeva il tracciato della Cassia come Via Bolognese per affrontare il Mugello e il Passo della Futa.

Affacciato alla finestra della camera da letto dei miei, al primo piano della nostra modesta casa che ancora con commozione e affetto ricordo, assistevo in braccio al babbo (che era rimasto mesi nascosto in casa, rocambolescamente sfuggito alla leva di Salò anche con la complicità di suo cognato, zio Roberto, che militava invece nella GNR) alla sfilata delle unità alleate e dei partigiani che le seguivano. Il babbo cercava sobriamente di darmi qualche spiegazione di quel che vedevo, ma di esse non ricordo nulla: ricordo invece le armi, i colori, le bandiere, le voci, i canti, l’aria di festa, lo sferragliare delle macchine a motore.

Sono tornato più volte su quella giornata, che nella mia città ancor oggi si celebra come “festa della Liberazione” e addirittura “dell’Insurrezione” di Firenze. Ricordo vagamente che allora si parlava di “franchi tiratori” asserragliati dalle parti di piazza Torquato Tasso; più tardi avrei letta la pagine terribile eppure a modo suo quasi paradossalmente umoristica con la quale Curzio Malaparte – allora ufficiale del Corpo Volontari della Libertà – avrebbe descritto la fucilazione sommaria di qualche decina di ragazzi davanti alla facciata di Santa Maria Novella. Vennero ammazzati lì per lì, seduta stante, senza processo: nessuno ha mai capito se davvero erano i truci e vili “fascisti” che sparavano indiscriminatamente addosso alla gente, come li descrive Roberto Rossellini in Paisà. Qualcuno racconta quelle vecchie storie in modo diverso: e chissà, quando gli ultimi testimoni oculari in grado di ricordare qualcosa di preciso al riguardo (e parlo di gente che ormai è almeno sulla novantina) se ne saranno andati, ci sarà magari qualche storico che ricostruirà quelle vicende sulla base di documenti adesso perduti o dimenticati. Perché può sembrare strano, ma sovente i testimoni oculari sviano, ingannano, ricordano male (volontariamente o no). Come ben osserva Carlo Ginzburg, la testimonianza diretta non sempre è buona consigliera: quante povere donne, fra Tre e Settecento, sono morte bruciate su un rogo perché alcuni testimoni oculari assicuravano di averle viste volare di notte?

Ho conosciuto in seguito molti testimoni oculari della liberazione di Firenze: e anche qualche protagonista di essa, come il professor Carlo Francovich, finissimo studioso di storia sette-ottocentesca e a lungo presidente dell’Istituto Storico della resistenza in Toscana: un appassionato della musica di Mozart, fierissimo delle sue aristocratiche origini croate, padre di due amici meravigliosi entrambi purtroppo precocemente scomparsi, lo storico contemporaneista Giovanni e l’archeologo medievista Riccardo. Carlo aveva scritto, sulla liberazione di Firenze, pagine appassionate ma oneste, disincantate e convincenti. Un altro protagonista di quelle giornate era l’allora neppur trentenne Giorgio Spini, ufficiale di collegamento tra l’esercito britannico – del quale vestiva l’uniforme – e quello italiano del regno del Sud: più tardi, tra 1971 e 1985, fui suo assistente alla cattedra di Storia medievale e moderna della Facoltà di magistero dell’Università di Firenze ed egli (socialista e cristiano metodista) fu un Maestro e per molti versi quasi un padre per quel bizzarro aspirante studioso che gli era capitato in sorte e che era piovuto nella sua Facoltà avvolto da un’aura sulfurea di reazionarismo cattolico e neofascista. Da Giorgio Spini ho imparato non solo sulla troppo abusata “tolleranza”, bensì su cose ben più serie e concrete (il rispetto reciproco, lo sforzo di comprensione reciproca, il superamento dei pregiudizi, la curiosità materiata di simpatìa per l’”Altro” e il “Diverso”, il coraggio di mettersi continuamente in discussione, la consapevolezza della “relatività” – ch’è ben altra cosa dal “relativismo” – di tutto quel ch’è umano), una lezione che da allora in poi non mi ha mai abbandonato e a proposito della quale non cesserò mai di essergli riconoscente.

Più tardi ho avuto l’onore del tutto immeritato di goder della stima e dell’amicizia del grande filologo e boccaccista Vittore Branca che – savonese di nascita, lombardo d’origine e veneto di adozione – aveva trascorso il duro biennio 1943-44 a Firenze, dove studiava, lavorava ed era anche membro del CNLT, il clandestino Comitato Nazionale di Liberazione per la Toscana, dove insieme con Adone Zoli rappresentava la Democrazia Cristiana e all’interno del quale, nell’aprile del ’44, aveva con molto coraggio protestato contro l’assassinio del suo vecchio Maestro della Normale di Pisa, Giovanni Gentile. L’anziano filosofo aveva ricevuto pochi giorni prima di venir proditoriamente ucciso il suo giovane allievo, i sentimenti antifascisti del quale ben conosceva, e lo aveva pregato di collaborare con qualche saggio alla rivista “La Nuova Antologia”: Branca aveva rifiutato, con cortesia e rispetto ma anche con fermezza e quasi con durezza, in quanto si rendeva conto che quella collaborazione, in quel particolare momento, avrebbe significato una scelta di campo in contrasto con la sua militanza resistenziale. Anche più tardi Branca sarebbe tornato più volte, senza rimorsi ma con dolore, su quella pagina difficile della sua esistenza.

E proprio a Vittore Branca, che del resto l’ha rievocato nelle sue Memorie, debbo un altro ricordo relativo a quei giorni di guerra in Toscana. Immediatamente dopo il passaggio del fronte a nord dell’Arno si tenne la cerimonia formale della resa di quel che restava delle truppe germaniche (quasi tutte ritiratesi a settentrione). In quell’occasione, su un’idea e una proposta di Giorgio La Pira, si realizzò quasi una “prova generale” di quella pace per la quale si sarebbero dovuti attendere ancora circa otto duri mesi. La Pira trasformò la cerimonia militare e civile in una specie di laico Te Deum nel corso del quale i firmatari, a turno, recitarono una strofa del Cantico delle Creature di Francesco d’Assisi. L’onore della lettura di un brano di quel poema che parla della pace e dell’amore universale fu sollecitato anche dall’alto ufficiale tedesco firmatario del documento: il quale, dignitosamente chiuso nella sua uniforme feldgrau dalla quale – come si addice a un militare che si è arreso ed è prigioniero del nemico – aveva rimosso gradi, insegne e decorazioni, recitò venuto il suo turno le poche righe redatte oltre sette secoli prima dal Povero di Assisi.

Torno adesso a quel lontano ricordo di un tempo in cui, pur in mezzo alla ferocia e alla crudeltà, si era ancora capaci di gesti d’umanità e di cavalleria, perché mi sembra che nella barbarie postmoderna nella quale oggi siamo precipitati – fra devoti tagliatori di teste e democratici invocatori di mitragliate su poveri migranti a bordo di fatiscenti imbarcazioni – l’immagine di quell’ufficiale della Wermacht di cui non ho mai saputo il nome e dei suoi colleghi e nemici angloamericani e partigiani che con lui pregarono in quel giorno d’agosto appartenga alle cose che è necessario tenere a mente oggi, per non smarrire quella dignità umana che per troppi segni sembra oggi in pericolo.

Franco Cardini