Domenica 18 ottobre 2015. San Luca Evangelista
SE LA RABBIA DIVENTA SPIRALE DELL’ODIO
Temo che ormai si possa solo temere il peggio, almeno nei prossimi giorni. Ma, questo è il punto, il peggio di che cosa, il peggio rispetto a che cosa?
Tutto il Vicino Oriente appare ormai in preda alla destabilizzazione: e non si fa purtroppo del complottismo o della “dietrologia” se accordiamo credito, sia pur con tutta la prudenza del caso, all’ipotesi che dietro al gravissimo attentato di Sichem/Nablus (Samaria) vi sia un’attenta regia: e che molte altre attente regie, parallele o concomitanti o avversarie rispetto ad essa, stiano lavorando. Diverse e magari opposte nei “segni” tattico-strategici che le animano, convergenti purtroppo nello scopo. Che è l’escalation d’uno scontro i coprotagonisti del quale sono molteplici: le forze palestinesi dell’Olp di Abu Mazen e di Hamas, tra loro contrapposte; il governo di Netanyahu e i servizi, che non sembrano reciprocamente concordi; il variopinto panorama degli jihadisti che soffiano sul fuoco; e magari, in disparte ma non troppo, perfino i principati sunniti della penisola arabica e l’Iran. Un gran bel puzzle, forse un cocktail esplosivo.
Nella notte di venerdì scorso, 16 ottobre, un centinaio di palestinesi tutti o quasi giovani hanno dato l’assalto a colpi di Molotov al piccolo ma veneratissimo santuario della “tomba del patriarca Giuseppe” (lui, il Sognatore, quello del romanzo di Thomas Mann) a Sichem in Samaria, nell’area centrale dei cosiddetti “territori occupati”, tra Galilea a nord e Giudea a sud. Gli arabi chiamano quella località Nablus: vi sorge il santuario detto “del pozzo di Giacobbe”, veneratissimo anche dai pellegrini cristiani fino dal IV secolo. La Samaria, un’area densamente popolata da palestinesi molti dei quali cristiani, era stata tra Anni Sessanta e Anni Settanta area di duri scontri ed era difficilissimo per turisti e visitatori l’accedervi: ma, negli ultimi tempi, al situazione sembrava essersi avviata verso un maggiore equilibrio. Al rogo di un santuario ebraico, ch’era però mèta di venerazione condivisa anche per cristiani e musulmani (come tanti altri luoghi d’Israele e di Palestina: la tomba di Rachele presso Betlemme, quella di Samuele presso Emmaus, i sepolcri dei patriarchi a Hebron e così ) si sono aggiunti altri gravi episodi a catena, che hanno fatto altre vittime.
Sul piano più immediato e ristretto, è chiaro che dopo gli incidenti dei giorni scorsi a Gerusalemme e il duro regime di segregazione imposto dal governo israeliano alla popolazione araba della capitale (composta per la maggior parte da arabi che, non essendo in rapporto con l’Authority palestinese la quale non ha titoli di controllo in città e avendo rifiutato la cittadinanza israeliana, sono obiettivamente degli apolidi privi di passaporto, di rappresentanza e di personalità giuridica: ultimo episodio, la costruzione di un altro “muro”, a separare stavolta un quartiere arabo gerosolimitano da uno ebraico contiguo), il rogo di Sichem è una prima risposta all’appello di Hamas, quello di un “Venerdì della Rabbia” teso a rivendicare i diritti arabi sulla Città Santa. Il punto è che ormai i confini politici e nazionali della questione sembrano tracimare sul religioso, com’è del resto già successo sulla “spianata delle moschee”. Abu Mazen ha condannato l’episodio di Sichem, ma ora la paura è che l’Intifada proclamata da Hamas dilaghi dalla Giudea verso la Samaria – com’è or ora successo – e da lì verso la Galilea.
Sono ohimè troppi i soggetti interessati all’escalation della violenza. Nei mesi scorsi si era assistituo allo spettacolo del governo israeliano e dei media che più gli sono vicini i quali battevano ossessivamente su un tasto: il problema palestinese non esiste più (il “Muro” e il programma d’intercettazione antimissilistica iron dome hanno reso obiettivamente impotenti i palestinesi che, con le loro azioni militanti, si prefiggono lo scopo fondamentale di tener desta l’attenzione internazionale sui loro problemi); ora, il vero pericolo è solo la prosecuzione del programma d’armamento nucleare iraniano. E’ evidente che Netanyahu, la leadership del quale è compromessa sia sul piano della trasparenza morale sia su quello dell’affidabilità sociopolitica – gli israeliani non navigano in buone acque e il lavoro fa difetto – per sostenersi ha bisogno di un nemico da sbattere in prima pagina: i palestinesi da tempo non giocavano più tale ruolo, egregiamente sostituiti dall’Iran e dal suo “pericolo nucleare”. Le fiamme di Sichem obiettivamente gli fanno un gran comodo; così come servono ad Hamas che sembra aver ripreso il progetto dell’intifada. Ma a chi potrà giovare la nuova fase di destabilizzazione palestinese nel composito schieramento delle forza vicino-orientali in gioco?
Hamas è notoriamente prossima ai miliziani sciiti libanesi di Hezbollah, a loro volta in contatto con l’Iran e che si stanno movendo in Siria per sostenere i fiancheggiatori di Assad. D’altronde, il fronte antiassadista è molto composito: ad esempio, le milizie più vicine all’ISIS che in questo momento sono presenti nell’area del Golan sembrano guardarsi bene dal provocare in alcun modo Israele. Anzi, quello del reciproco ignorarsi tra Israele e ISIS è un dato di fatto che ha incuriosito più di un osservatore: la risposta ufficiale del governo di Netanyahu è che il califfo al-Baghdadi non tocca Israele in quanto ne teme a ragione le reazioni, ma c’è chi obietta che lo stato ebraico e le potenze sunnite dell’area (quindi gli stati della penisola arabica, ma perfino la Turchia) sembrano piuttosto interessate a favorire la fitna (la “guerra civile”) dei sunniti contro gli sciiti, che tra Siria e Iraq è uno degli elementi fondamentali dell’attuale crisi. Ciò sarebbe un ulteriore elemento di discordia, in Palestina, tra Hamas (sunnita, ma alleata degli sciiti Hezbollah) e OLP di Abu Mazen, che riunisce musulmani sunniti e cristiani.
Come si esce da questo pasticcio? In Israele, Netanyahu e Hamas, nemici acerrimi, appaiono per opposte ragioni entrambi interessati all’escalation. La maggioranza dei palestinesi è fatta di povera gente che nella sostanza non ha più voce e che subisce la lotta tra le fazioni al suo interno e la pressione dei coloni che ormai hanno di fatto fagocitato quasi tutto il territorio sul quale avrebbe dovuto impiantarsi il futuro e sempre più improbabile stato palestinese. L’unico possibile arbitrato, quello statunitense, è paralizzato dalla divergenza profonda tra il presidente Obama e il Congresso. L’unico soggetto che obiettivamente e razionalmente potrebbe proporre e magari perfino imporre un arbitrato, l’ONU, è emarginato e reso impotente di fatto dalla sue stesse divergenze interne. Come direbbero Benigni e Troisi, “non ci resta che piangere”. Almeno per ora. L’unico che si è fato sentire, al solito, è stato ovviamente il papa: e sarà, una volta di più, vox clamantis in deserto.
Franco Cardini