Minima Cardiniana 95

Domenica 25 ottobre 2015, San Crispino

BERGOGLIO CE LA FA

Il sinodo sulla famiglia è andato come aveva dato segno di andare, per quanto le Cassandre non siano fino all’ultimo istante mancate. Ha vinto la linea del realismo, della moderazione, della concretezza: insomma, della saggezza. Su tutti i punti messi al voto, la maggioranza dei 2/3 è stata raggiunta e superata: il vertice della Chiesa, pur con molte esitazioni, qualche ambiguità e parecchi distinguo, si è confermato d’accordo con Bergoglio.

Non che ci sia da farsi illusioni. Papa Francesco ha vinto una battaglia importante: non ha ancora vinto la guerra. Anzi, può darsi che in seno alla Chiesa la guerra – quella vera – non sia ancora nemmeno scoppiata. Ammesso, e forse anche concesso, che scoppi.

Comunque, sulla famiglia si sta procedendo come il papa aveva sostenuto e sperato: i capisaldi della dottrina cattolica sono salvi, anzi per la verità non erano mai nemmeno stati messi in discussione. La famiglia formata dall’unione di un uomo e di una donna, fondata sulla solida base dell’amore reciproco e volta allo scopo della procreazione nonché legittimata dal sacramento del matrimonio è il fulcro attorno al quale ruota la vita della Chiesa e della società; rispetto a qualunque altra forma di unione la Chiesa mantiene un atteggiamento di vigile attenzione ispirato al presupposto della carità, quindi della comprensione.

La dottrina è chiarissima e vincolante per chiunque si dica cattolico: non si è sposati se non si è celebrato il sacramento del matrimonio religioso, a cospetto del sacerdote testimone benedicente (ma i ministri del sacramento sono gli sposi stessi). La Chiesa non può ritenere coniugato nessuno che abbia contratto un patto d’unione in altro modo: né col matrimonio civile, né mediante un’unione di fatto. Tali unioni sono dal punto di vista cattolico inesistenti, eterosessuali o omosessuali che siano, abbiano o no dato adito alla nascita di figli.

Ma la disciplina e la pastorale varate dal sinodo sulla famiglia prescrivono che qualunque forma di unione debba essere guardata con rispetto e con positivo spirito di carità, alla luce del bene che può derivare anche da scelte che in sé la Chiesa non approva ma alla base delle quali vi sia comunque spirito di amore, di solidarietà, di collaborazione. La società odierna, con la sua vita resa più lunga dal progresso e dal benessere (per chi ce l’ha), vede in concreto prolungarsi la vecchiaia, che può essere triste e dura quando si è soli. La solitudine è una condizione critica e pericolosa sul piano tanto materiale quanto spirituale. Vivere con altri, aiutarsi a vicenda, è sempre e comunque cosa buona: e, con i tempi ai quali stiamo andando incontro dal punto di vista economico, anche molto opportuna. Quanto alle adozioni, la cautela e il discernimento sono un obbligo: ma che esse siano positive e consigliabili ogni volta che sul loro cammino non si presentino ostacoli è comunque un dato di fatto. Disciplina e pastorale debbono quindi ispirarsi alla misericordia: soprattutto è da evitare che persone incerte e disorientate, le quali però non vogliono rinunziare a restar nella Chiesa o a tornarvi, si sentano respinte e si lascino vincere per questo dalla disperazione. Nessuno che chiede aiuto dev’essere abbandonato.

Tutto ciò vale anche e soprattutto sul punto più controverso e delicato, quello della possibilità di amministrare l’eucarestia ai divorziati risposati. Su ciò ha prevalso si potrebbe dire la pastorale pura, lasciando ai singoli sacerdoti confessori libertà di decidere in merito sotto la propria responsabilità, giudicando concretamente caso per caso: cioè valutando la sincerità e la serietà delle intenzioni di chi chiede l’assoluzione a proposito di qualcosa il giudizio sulla quale era, fino ad oggi, strettamente riservato.

Molti grideranno all’ambiguità, quindi alla malafede. E avranno torto. La pastorale si traduce sempre in un caso di coscienza per il ministro di Dio, una responsabilità che ricade su di lui e su lui solo. Ma sul piano teologico e giuridico-canonicale, oserei dire che tutto è invece lampante.

Quel che la Chiesa proibisce ai fedeli cattolici è il matrimonio civile: se si fosse voluto troncare il male alla radice, era esso – in quanto pubblico concubinato – che avrebbe dovuto essere colpito con la scomunica. Si è giudicato inopportuno il farlo: ancora una volta, per una questione non già dottrinale, bensì disciplinare e pastorale. Ma, contratto il matrimonio civile, tutti gli atti consequenti non possono che svolgersi su una linea del tutto estranea alla Chiesa: non valido il matrimonio civile, a fortiori è non valido ai suoi occhi il divorzio; e un nuovo matrimonio civile ad esso successivo è ugualmente atto del tutto vano. Ciò non ha nulla a che vedere con la vita e la disciplina ecclesiali: vero è che chi agisce divorziando e risposandosi itera e ribadisce la sua condizione di ribelle alla Chiesa e con ciò l’aggrava, ma questo è tutto. O si fa scattare la scomunica all’atto dell’unione civile, o tutto ciò che può conseguirne non è di per sé passibile di essa.

Ma chi, avendo errato, si presenta a chiedere il perdono di Dio, mostra la volontà di ritrovare la strada giusta. Vista la gravità e la delicatezza della cosa, la Chiesa lascia ai suoi singoli ministri il potere e la responsabilità di decidere. Tutto ciò è nella linea della più rigorosa ortodossia e della più limpida Tradizione. Chi sostiene il contrario è in malafede o non ha capito nulla di che cosa sia la Chiesa cattolica.

CONVERSANDO DI STORIA

Il nostro paese, l’Occidente, l’età che stiamo vivendo, sono un pozzo senza fondo di contraddizioni. Prendiamone una di quelle in apparenza meno allarmanti: la storia. Per certi versi sembrerebbe una delle grandi passioni del nostro tempo: il cinema, i serials televisivi, i war games, le feste e i festivals, la gadgettistica di ogni genere, la straripante divulgazione con i suoi immancabili “misteri” (i disegni sulle Ande visibili solo dall’alto, le piramidi, il Graal, i templari, il “nazismo magico”). Con queste premesse, si potrebbe pensare che anche a scuola e nelle università le discipline storiche vadano alla grande.

Macché. A scuola, i professori insegnano di malavoglia e gli scolari restano assenti e disinteressati. All’università, i corsi di storia vanno deserti e il numero delle relative cattedre si sta riducendo a vista d’occhio: chi può emigra all’estero dove non è detto che trovi una situazione migliore. Pochi fra i ragazzi che appena possono si vestono da balestrieri a Gubbio o a Borgo Sansepolcro o da granatieri di Napoleone a Waterloo pensano poi a iscriversi a una facoltà di storia. La storia-evasione, la storia-divertimento, addirittura la storia-passione o la storiomania vanno benissimo. La storia-studio, la storia-scienza, manco per idea. Perché?

Tutto ciò almeno in parte si spiega con la congiuntura. Le discipline storiche sono socialmente e civicamente importanti nelle società e nei momenti nei quali esistono forti passioni civili o in cui s’impone comunque un modello “forte” da seguire o da contrastare. Da noi, immediatamente dopo l’unità del paese oppure durante il fascismo e nell’età ad esso immediatamente successiva, le riflessioni sull’antica Roma sull’età comunale e signorile o sul Risorgimento avevano un senso e un’urgenza evidenti: ma in un tempo come il nostro è ovvio che altre siano le cose dotate di appeal.

Ciò non toglie che sia la scuola, che siano gli insegnanti, i maggiori responsabili della generale caduta d’interesse che strappa a Clio tanti ammiratori. Come antidoto, è davvero raccomandabile la lettura di un piccolo libro or ora edito dalla Laterza, il Dialogo sulla storia tra due eccezionali – e anche popolari – protagonisti della ricerca, il medievista Jacques Le Goff e l’antichista Jean-Pierre Vernant: due studiosi di successo ai quali la definizione che li collega alla loro rispettiva specializzazione va senza dubbio stretta. Entrambi hanno saputo difatti coniugare in modo e a livello differente discipline quali la storia, l’antropologia, la filologia, l’iconologia. In questo libro, resoconto di un’intervista a due voci condotta da Emmanuel Laurentin, essi riescono con straordinaria immediatezza a far piazza pulita di alcuni tra i più correnti falsi miti, i più noiosi pregiudizi e i più banali luoghi comuni che di solito rendono la storia una materia monotona per chi la insegna e insopportabile per chi cerca di capirci qualcosa (al di là dello sterile “imparare” nomi, date ed eventi).

Anzitutto, la “vocazione” storica. Alla base del grande lavoro sia di Le Goff, sia di Vernant, ci sono stati la vita e il caso: nulla di paludato, nulla di austeramente perseguito. I due studiosi insistono sulla loro giovinezza, sulle loro vocazioni politiche (socialista l’uno, comunista l’altro), sull’incontro con straordinari maestri quali Braudel e Dumézil. In entrambi è rimasto intatto, a distanza di decenni, lo stupore per la bellezza e il fascino d’una strada, quella della ricostruzione del passato, intrapresa quasi per gioco o per fatalità.

Quindi, l’evento. Le Goff e Vernant hanno fieramente combattuto contro la bestia nera degli insegnanti e degli studenti: l’histoire événementielle, la storia dei fatti. A questo proposito comunque si è distinto tra “evento” e “fatto” vero e proprio, e d’altra parte nel dibattito storiografico si è presentato anche quello ch’è stato definito il “ritorno dell’avvenimento”.

Ancora, il determinismo storico, la “causalità”:la pesante stolida catena di cose che sono accadute e che più o meno artificiosamente sono collegate (di solito con espedienti quali il post hoc, ergo propter hoc) a dimostrare che quel ch’è accaduto doveva accadere, e che doveva accadere perché è accaduto. Su tali artifizi si sono costruite vere e proprie dottrine sul piano della filosofia della storia e sulla sua “ragione immanente”, sul suo “senso”.

Qui, al contrario, parlano due Maestri dell’antideterminismo, due ribelli alle basse scolastiche storicistiche, due fedeli alla tesi che le strutture profonde e le istituzioni storiche sono anzitutto radicate nella libertà: e che tale libertà è anzitutto quella dello storico e della sua interpretazione. Lo stesso “evento”, in sé, non è il dato obiettivo della storia a determinarlo, bensì l’interpretazione dello storico. Padroni, se volete, di stupirvi e perfino d’indignarvi. Certo, dopo Lévi-Strauss e lo strutturalismo, nemmeno Derrida e il decostruzionismo hanno attraversato invano la strada di quanti pensavano che, quanto al senso della storia, dopo l’hegelismo (di destra o di sinistra che fosse) non c’era più nulla da dire. E magari, anche il vecchio Nietzsche delle Considerazioni inattuali al suo tempo inascoltate ha in seguito avuto parecchio da dirci.

Infine, la biografia: grande passione degli amateurs e di alcuni insegnanti, abbastanza antipatica alla grande maggioranza degli storici (don Benedetto Croce a parte) per quanto poi molti di essi v’indulgano eccome. Ma al riguardo, discutendo la genesi del suo San Luigi e il rapporto tra il personaggio biografato e il suo tempo, Le Goff ha agio di rimetter le cose a posto.

E potremmo continuar a lungo: ma arrestiamoci qua. Oggi, cadute le illusioni della historia magistra vitae, resta forte la convinzione che la storia non è mai storia del passato: ha il passato come oggetto di studio, ma il presente in funzione del futuro come obiettivo finale. Una storia che non è progresso, bensì processo; che non ha uno scopo finale, non è teleologia, bensì gioco eternamente aperto a quel che l’abate Rosmini definiva “l’eterogenesi dei fini”. La testimonianza di Le Goff e di Vernant c’insegna, in sintesi, che il vero assoluto non è oggetto della ricerca storica, vòlta per contro ad affermare verità storiche sempre perfettibili in quanto il passato una volta passato non muta bensì mutiamo noi, le nostre esigenze, le domande che gli poniamo, i nostri strumenti e metodi di ricerca. Al di là dello stolido conformismo e dello sclerotico ideologismo che anima ad esempio la polemica sterile tra “revisionisti” e “antirevisionisti”, la storia resta una disciplina dalla quale i dogmi sono per loro natura banditi: ed è, per sua natura, revisione. O non è nulla.

Dalla ricerca di Le Goff e di Vernant la storia risulta sottratta alla polverosa noia dei banchi di scuola e proiettata in un futuro fatto di spregiudicata ricerca scientifica da una parte, di originalità epistemologica e perfino di qualità artistica (le necessarie doti di finezza, di eleganza e di efficacia dell’esposizione, il “fascino del raccontare”) dall’altra. Questa, amici, è la storia di cui abbiamo bisogno per migliorare noi stessi e la società.

IL TRIANGOLO RUSSO-SIRIANO-IRANIANO E LA NATO: OVVERO LA GEOPOLITICA DEL DISINCANTO E LE MANOVRE DELL’IRRESPONSABILITA’

Che sia già iniziata la terza guerra mondiale, o che essa fosse in realtà quella cosiddetta “fredda” e questa sia la quarta, non è a dir le cose come stanno un troppo appassionante oggetto di discussione. Certo è che tutto è cominciato da Versailles, la pace per farla finita per sempre con le paci, la Madre di Tutte le Guerre del XX e a quel che pare anche del XXI secolo. E, va aggiunto, tutto è finito in quel tragico gorgo nel quale, nel giro di un lustro, sono scomparsi fra 1914 e 1919 i tre grandi imperi sovranazionali e plurinazionali – l’asburgico, l’ottomano e lo czarista – che inquadravano il Behemoth megacontinentale eurasiatico vanificando però nel contempo anche le illusioni di Francia e Gran Bretagna che, in seguito a quella scomparsa, speravano di conseguire una durevole egemonia mondiale.

La principale novità comunque di questa nuova guerra mondiale, per ora combattuta “a bassa intensità”, consiste nel palese, nudo, cinico disincanto che la caratterizza. Alla base quanto meno apparente e conclamata delle due guerre mondiali “calde” e di quella “fredda” v’erano in un modo o nell’altro forse ideali o quanto meno ideologie in conflitto: nazionalismi, irredentismi, differenti modi di concepire la democrazia e il rapporto fra il potere e i popoli, esiti diversi e contrastanti della dialettica tra liberismo, nazionalismo e socialismo che si ponevano comunque, con soluzioni lontane e ostili tra loro, la soluzione dei problemi posti dalla società di massa. Oggi, a parte la questione in sé e per sé ambigua delle nuove forme assunte nell’ultimo quarantennio circa – e con più forza nell’ultimo quindicennio – da quello che in sintesi potremmo definire il radicalismo musulmano, potremmo affermare senza esitazioni che, parafrasando il vecchio Andersen, il re è davvero finalmente nudo. Vi sono certo, nel Vicino Oriente, istanze che vanno al di là del puro e semplice conflitto animato dalla volontà di potenza e dal bisogno e/o interesse a egemonizzare e gestire i centri di produzione e le vie di circolazione delle risorse energetiche: la forma propriamente iraniana e sciita e quella propriamente araba e sunnita di concepire e di gestire il rapporto fra Islam e istituzioni statuali; la fitna sunnito-sciita e tutti gli scontri e le tensioni che da essa si ramificano; l’eterno tormentone della sicurezza d’Israele e il nodo problematico del rapporto tra opinione pubblica mondiale, movimento sionista nella diaspora ebraica e questione israelo-palestinese con tutti gli innumerevoli annessi e connessi; il dilagare dell’apprensione legata al diffondersi e all’espandersi dell’attività dell’ISIS, alle paure di nuove ondate terroristiche in Occidente che ciò determina e alla strumentalizzazione di esse nella direzione di un’islamofobia tanto generica e culturalmente miserabile quanto mediaticamente diffusa e sostenuta. Non vogliamo ridurre tutte queste complesse e contraddittorie faccende a pure sovrastrutture nel senso marxiano del termine, non intendiamo appiattire questa massa ingente d’istanze e di apprensioni sulla misura banalizzante dell’illusione o del pretesto: resta tuttavia il fatto che molti nodi sembrano ormai venuti al pettine e che dobbiamo pur cominciar a chiamare le cose con il loro nome.

Sappiamo ormai molto di quel che c’è da sapere sulle “primavere arabe”, sulla situazione siriana, sulle responsabilità del regime assadista, sul peso della politica e della diplomazia di alcune potenze occidentali – e non solo… – nel processo di destabilizazione di tutta l’area nevralgica del nordovest vicino-orientale, tra l’area di confine turco-siriano-curda e le vicine aree libanese, israeliana, irakena e iraniana. Dal momento che i paesi occidentali e la NATO sono in quell’area tra i protagonisti di una vicenda annosa, ma che ha avuto una drammatica svolta a partire del 2011, c’era da aspettarsi che nel gioco sarebbe entrata prima o poi la Russia: tantopiù che dopo le vicende caucasiche (e più specificamente georgiano-ossete) del 2008 e quelle successive ucraine è apparso impensabile che Putin possa accettare tranquillamente modifiche di assetti geopolitici suscettibili di compromettere in qualche modo una presenza russa sulle sponde di quel Mediterraneo orientale ad affacciarsi sul quale il suo paese ambisce da oltre due secoli. In altre parole, la crisi georgiana e quella ucraina hanno dimostrato che la Russia non è disposta a tollerare l’ipotesi che basi militari dotate di armi nucleari possano ulteriormente avvicinarsi al suo territorio o che possano venir perdute basi navali importanti come quelle installate in Crimea. Ora, al di là della più volte ribadita amicizia tra i governi di Mosca e di Damasco e fra entrambi essi e quello di Teheran – un’amicizia che si configura entro i classici schemi schmittiani di amicus/hostis e che s’inquadra nella non meno classica disposizione “a scacchiera” delle alleanze e delle inimicizie geopolitiche -, due cose appaiono limpide: i russi non hanno alcuna intenzione di mettere in discussione le loro installazioni navali di Lattakia e la comunità internazionale è incerta e discorde a proposito dei modi e dei tempi relativi alla necessità di procedere militarmente nei confronti del “comune nemico” costituito dall’ISIS, che con ogni evidenza non è, nella realtà, nemico di tutti nella stessa maniera. Nell’area del Golan, ad esempio, forze israeliane e milizie dell’ISIS sembrano giunte per ora a un tacito compromesso.

In altri termini, il puzzle siriano è in apparenza quanto mai intricato. Tuttavia, qualche linea di fondo è discernibile nell’apparente caos delle alleanze e delle lotte incrociate. C’è del metodo in quella follia. Si può tentare di metter un po’ d’ordine in questo groviglio partendo dal bel saggio di Lorenzo Trombetta, corrispondente dell’ANSA da Beirut, dal titolo Le Sirie in vendita (“Limes”, 9, 2015, pp. 149-158). Purtroppo, c’è solo una cosa peggiore delle cose intricate: quelle che in realtà sarebbero chiare, se fosse possibile parlarne apertamente e liberamente. Ma quando la politica incontra la diplomazia ed entrambe s’imbattono in reticenze dovute a questioni etiche o come tali presentate, il discutere e il comprendere diventano davvero difficili.

D’altro canto, che interesse effettivo ha l’Italia – visto che un’Europa politica per il momento purtroppo non esiste, né l’Eurolandia può rimpiazzarla – a schierarsi nell’uno o nell’altro dei due fronti che si vanno con sempre maggior chiarezza contrapponendo nel Vicino Oriente? Potremmo senza dubbio affiancare la parte che vuole con maggiore chiarezza contrastare il terrorismo musulmano, sia di matrice al-Qaeda sia di marca ISIS: ma in entrambi i casi il governo siriano, i curdi e gli iraniani sono quelli che hanno finora agito con maggiore affidabilità. Se credessimo all’intenso battage propagandistico relativo al “pericolo nucleare” iraniano, organizzato e gestito dal governo di una potenza regionale piuttosto piccola quanto a estensione territoriale e a popolazione ma fortissima proprio sul piano di quel tipo di armamento contro un’altra potenza regionale di ben più ampia entità ma dotata per quel che ne sappiano solo di un sia pur notevole armamento convenzionale, dovremmo appoggiare gli avversari dell’Iran: ma le loro ragioni, fondate su prove piuttosto deboli e su un’energica rivendicazione per contro del diritto unilaterale alla “difesa preventiva” (quella per intendersi che Hitler adottò nel ’41 contro l’Unione Sovietica e Bush jr. nel 2003 contro l’Iraq), non appaiono convincenti.

Intanto, la NATO mobilita: e l’aeroporto militare di Birgi presso Trapani, base del 37° Stormo della nostra Aeronautica Militare, ha già l’aspetto di una base in guerra. Le manovre dell’esercitazione Trident Juncture, prevista dal 21 ottobre al 6 novembre, coinvolgendo 150 velivoli e 60 navi, interesserà 36.000 soldati dei 28 paesi NATO affiancati da altri 7 partner tra i quali Finlandia e Ucraina (il che già la dice lunga sulle sue intenzioni tattico-strategiche). Il nostro paese partecipa con 4000 uomini, 35 velivoli e 3 unità navali. L’oggetto dell’esercitazione è il “fianco sud” dello schieramento NATO, vale a dire il Mediterraneo del sudest; l’ipotesi tattico-strategica è quella di una grande potenza che invada un piccolo paese confinante e ne minacci un altro. Fuor di metafora: se la Russia “invadesse” la Siria – il governo legittimo della quale, riconosciuto dall’ONU, ne ha però chiesto l’appoggio – e qualcuno in qualche sede politica o militare stimasse che ciò potesse costituire una minaccia per un altro piccolo stato, per esempio Israele, i frutti della Trident Juncture si potrebbero verificare in sede di autentico scontro. Il viceministro della difesa Alfano ha dichiarato che la scelta dell’area mediterranea conferma l’intenzione della NAO di tener d’occhio il suo fianco sudorientale: un’osservazione di acutezza degna addirittura di Monsieur de la Palisse. Il nostro capo di stato maggiore, generale Graziano, aggiunge che “non possiamo affrontare la crisi in modo isolato. Ci serve un approccio sistematico, una strategia onnicomprensiva”. Si vede che ha studiato all’Accademia Militare: ma la prima persona plurale a chi allude? All’Iatlia? O alla NATO nel suo complesso? E le strategie della NATO chi le dirige? Il ministro degli esteri Gentiloni si dichiara soddisfatto delle linee scelte: è d’accordo con quegli ufficiali della NATO che hanno dichiarato in privato ma non troppo che le scelte di Mosca in ordine al pasticcio siriano rischiano di “porre seri limiti alla libertà di manovra, sia in cielo che in mare, della NATO”? Non sarà che, al contrario, è proprio la NATO a voler “porre seri limiti” a un’azione militare russa magari energica ma che finora è stata rispettosa del diritto internazionale, si è mantenuta nei limiti dell’appoggio a un paese amico e semmai si è mossa contro l’ISIS, laddove altri soggetti – aderenti alla NATO – finora hanno fatto poco o nulla?

Insomma, Putin a Lattakia è un “fattore destabilizzante”, quelli della NATO in Iraq e in Afghanistan al contrario difendono evidentemente la democrazia. Obama ha deciso di lasciare i suoi uomini in Afghanistan, e l’Italia si è subito “liberamente” allineata disponendo altrettanto: al pari del resto di Germania e Turchia. Per ora i nostri soldati in Afghanistan sono 760: per il prolungamento della missione il voto del parlamento non è necessario (ma per il finanziamento sì). A proposito: “soldato”, in arabo, si dice askeri. Vi suggerisce qualcosa questo termine?

Le grandi manovre NATO somigliano tanto a una mobilitazione generale, anche se meno drammatica in quanto non siamo più ai tempi delle leve obbligatorie. Ma la storia qualcosa ce l’insegna. Nel ’14 l’avvio al primo conflitto mondiale lo dette proprio la Russia, mobilitando e costringendo in tale modo la Germania a intervenire in favore dell’Austria-Ungheria, poiché un secolo fa una mobilitazione generale corrispondeva a una dichiarazione di guerra. Se lo czar Nicola II non si fosse deciso a quel passo, probabilmente ci si sarebbe trovato dinanzi a un’ulteriore guerra balcanica di quelle che si erano combattute nel lustro precedente. Invece cominciò al tragedia della quale ancor oggi scontiamo l’immane prezzo.

Rimedi? Non ce ne sono. Non siamo certo in grado di fermare la macchina militare (e politica, ed economico-finanziaria) della NATO. Una sola cosa possiamo fare: uscire da quell’alleanza potenzialmente criminale che in nulla serve al nostro interesse nazionale. Se fossero ancora vivi e in politica, un Craxi o un Andreotti probabilmente a questo punto non avrebbero esitato. Noialtri siamo realistici: via, via al più presto dalla Pazza Folla, cioè dalla Pazza Alleanza. Siamo realistici, chiediamo l’impossibile: fuori della NATO, subito, e sbattendo la porta.

Franco Cardini