Minima Cardiniana 97

DOMENICA 8 NOVEMBRE 2015 – XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO, SAN GOFFREDO

IL CONFRONTO CON L’ISLAM

PER LE REGOLE DEL GIOCO, SCEGLIAMO BENE I PALETTI. UNA REPLICA A ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Galli della LoggiaIl mio caro e vecchio amico Ernesto Galli della Loggia – “collega, e ciò nonostante amico”, come usiamo dire all’Università –, ha pubblicato il 7 ottobre scorso su “Il Corriere della Sera” Religioni e paletti. Il difficile rapporto con l’Islam: una lunga messa a punto di quella che potremmo ormai definire la “questione islamica”.

Fra Galli della Loggia e me esiste una grossa distanza – a suo totale favore – in termini di qualità scientifica, di valore accademico, di autorevolezza e di notorietà; distanti siamo anche sia per rispettive origini d’impegno intellettuale e lato sensu politico, sia per differenti e talora divergenti valutazioni a proposito del cristianesimo e della Chiesa cattolica, temi che peraltro c’interessano e ci appassionano entrambi. Aggiungo per onestà intellettuale – e mi fa piacere rivolgergli qui un pubblico riconoscimento – che, oltre al rispetto e all’affetto, nutro per lui una profonda gratitudine per l’atteggiamento ch’egli ebbe ad assumere oltre quarant’anni or sono nei confronti di un mio libro dedicato alle radici della cavalleria medievale che aveva dato adito a una rumorosa polemica per motivi anche, anzi soprattutto, extrascientifici. Galli della Loggia intervenne con un piglio tanto deciso quanto scomodo, ponendosi in contrasto con personaggi di rilievo intellettuale e politico: per far ciò occorrevano onestà e coraggio, qualità in teoria doverose ma in pratica non sempre comuni fra gli studiosi. Non cesserò mai di essergli riconoscente quanto fece, e che lo onora. 

Ciò premesso, va detto che sull’Islam, il mondo islamico, il rapporto fra Occidente e terrorismo jihadista e altri argomenti analoghi, i nostri rispettivi pareri sono molto diversi, forse per più versi lontani. Vedrò di chiarire qui fino a che punto e in che senso.

Ecco pertanto, citato alla lettera e in extenso, quello che ai primi dell’ottobre del 2015 era in merito il parere di Ernesto Galli della Loggia:

“Due grandi fenomeni storici stanno svolgendosi sotto i nostri occhi nel Medio Oriente, alle nostre porte di casa (di noi europei e italiani in particolare). Da un lato la disintegrazione di fatto dell’intero sistema di stati nato dopo la prima guerra mondiale sulle rovine dell’impero ottomano, dunque la ridefinizione di interessi, alleanze, rivalità, con la conseguente caduta di gran parte delle élite e dei movimenti alla loro guida da decenni, spesso legate in un modo o nell’altro ai paesi europei (anche l’Unione Sovietica da questo punto di vista lo era). Dall’altro lato assistiamo all’affermarsi di una versione ultraradicale e quanto mai aggressiva della umma musulmana, della «comunità dei fedeli» che pretende di non conoscere confini e regole che non siano quelli della religione.

Da entrambi questi fenomeni siamo presi come tra due fuochi: in una condizione d’incertezza non solo politica, resa più inquietante dal fatto che ormai milioni di immigrati musulmani sono tra noi, popolano l’Italia e l’Europa. Fuori e dentro i nostri confini, insomma, ci troviamo di fronte al gigantesco problema di un nuovo rapporto con l’Islam. Come risolvere i suoi mille aspetti non lo sappiamo. Preliminarmente però a ogni possibile ricerca di soluzione dovremmo almeno fissare dei punti-chiave, una sorta di paletti concettuali, entro i quali non solo la discussione pubblica in questo campo, ma anche gli atteggiamenti concreti che ne derivano dovrebbero cercare di restare.
Mi sembrano fondamentali almeno i cinque seguenti.

1) Va innanzitutto limitato al massimo l’uso del termine polemico «islamofobia». Criticare la religione islamica, i suoi testi, le sue prescrizioni, mostrarne le contraddizioni e i risultati negativi nei suoi insediamenti storici (per esempio verso le donne), deve essere sempre lecito. Dovrebbe essere stigmatizzato come «islamofobia» solo l’atteggiamento aggressivo, discriminatorio o violento, verso le persone di religione musulmana a causa della loro fede.

2) Va poi recisamente confutata l’affermazione di uso corrente secondo la quale «tutte le religioni monoteiste sono fondamentalmente eguali». Non è vero. L’eguaglianza davanti a Dio di tutti gli essere umani indipendentemente dal proprio sesso, la titolarità da parte di ognuno di loro di certi diritti «naturali», il rapporto riguardo alla propria specifica tradizione dottrinale e all’interpretazione dei testi sacri, l’atteggiamento nei confronti della violenza e della guerra, la presenza o no di un clero organizzato stabilmente in un organismo gerarchico, sono solo alcuni dei principali ambiti di radicali differenze tra le varie religioni monoteiste. Che a loro volta producono, com’è ovvio, una fortissima diversità tra di esse nella costruzione della soggettività, del legame sociale, nonché del modo di stare con gli altri e nel mondo.

3) Ancora: i reciproci torti storici (ammesso che una simile espressione abbia un senso) tra mondo islamico e mondo cristiano come minimo si equivalgono. L’Islam attuale, infatti, si stende su un territorio in grandissima parte originariamente non suo né arabo, conquistato grazie a un paio di secoli di guerre che tra l’altro portarono, oltre che alla lunga occupazione della Sicilia e di due terzi della penisola iberica, all’occupazione militare da parte musulmana dei cosiddetti Luoghi Santi (le Crociate furono un fallimentare tentativo di risposta precisamente a tale occupazione), nonché alla virtuale cancellazione della presenza cristiana fino allora maggioritaria specialmente nel Nord Africa. Anche la cancellazione dall’Anatolia e dintorni dell’impero cristiano di Bisanzio, da parte degli ottomani, non avvenne proprio con mezzi pacifici.
D’altro canto la conquista coloniale di parti dell’Islam compiuta da alcune potenze europee a partire dal ‘700 e durata fino alla metà del ‘900 appare più o meno «equivalente» – se proprio dobbiamo ragionare in questi termini alquanto ridicoli – all’occupazione per secoli dell’Europa balcanica da parte dell’Islam. In conclusione non sembra proprio, se i fatti contano qualcosa, che storicamente gli occidentali e l’Europa abbiano qualcosa da farsi perdonare dal mondo islamico.

4) Per convalidare l’effettiva «moderazione» dell’Islam che si dice tale non dovrebbe bastare la sua astensione dalla violenza. Dovrebbe anche essere considerata necessaria l’aperta condanna da parte sua dei propri correligionari quando questi, invece, ne fanno uso.

5) Infine, il dialogo interreligioso, se non vuole essere inutile apparenza, se per l’appunto vuole essere un dialogo e non un monologo, non può fare a meno di prevedere che ad ogni sua manifestazione pubblica «da noi» ne corrisponda una analoga pubblica (sottolineo pubblica) «da loro». Solo una simile pratica può contribuire a instaurare un costume di autentica, reciproca tolleranza. Continuerà altrimenti a sussistere sempre la situazione attuale che nel complesso vede il tasso di tolleranza delle società islamiche nei confronti dei cristiani e della loro cultura enormemente inferiore a quello delle società cristiane verso i musulmani.

Mentre i punti chiave appena indicati, se non mi sbaglio, sono largamente condivisi dall’opinione pubblica, temo che invece essi siano disattesi, e anzi guardati con sospetto, dalle élite politiche e intellettuali che guidano le nostre società: affezionate ancora oggi, specie nei rapporti internazionali, a un’ideologia buonista, a una voglia di illudersi e di chiudere gli occhi di fronte alla realtà, che finora non hanno mai portato a nulla di buono. E destinate, è certo, a portarne ancora meno in futuro.”

Una pagina che consta di una breve premessa, di un’ancor più breve conclusione, e di cinque punti: il tutto merita di essere accuratamente letto e commentato.

Quanto alla premessa, che peraltro andrebbe a sua volta accuratamente discussa (la definizione “versione ultraradicale” mi lascia perplesso, e temo che al riguardo si dovrebbe comunque usar il plurale – le versioni ultraradicali sono molteplici – e aggiungere che anche in mondi differenti da quello musulmano, e per ragioni ben diverse dalle religiose, stanno affiorando o si sono già affermate varie forme di ultraradicalismo), va, credo, sottolineato che “il sistema di stati nato dopo la prima guerra mondiale” era sorto in seguito a una serie di crimini e di errori compiuti dai vincitori di quel conflitto, e che anzi alcuni di essi – come l’inganno e il tradimento anglofrancese nei confronti dello sceicco hashemita Hussein e la slealtà nella gestione del problema sionista impostato senza alcun riguardo per le necessità e i diritti delle popolazioni arabe che i futuri insediamenti coloniali ebraici sarebbero andati a interessare – avevano addirittura costituito la condizioni sulla base delle quali si era impostata la vittoria delle armi anglofrancesi tra la “rivolta araba nel deserto” e la capitolazione delle armate sultaniali. Se poi si tratta di far attenzione ai legami tra molti stati vicinorientali e i loro “alleati” (o patrons) occidentali, si dovrà anche tener presente i livelli tutt’altro che paritari di tali legami e la loro natura sostanzialmente post- o neocolonialista, magari mediata attraverso l’attività delle lobbies statunitensi o europee che sistematicamente hanno gestito finanze, economia, tecnologia di quei paesi ricavandone immensi profitti in qualche misura spartiti magari con i governi locali, ma senza che le popolazioni delle aree interessate ne ricevessero apprezzabili benefici. Anche su ciò poggia quell’annoso “rancore” che molti osservatori hanno rilevato da parte di molti ambienti musulmani nei nostri confronti, e che hanno magari semplicisticamente e superficialmente attribuito a cause generiche quali il “fanatismo”, l’”intolleranza”, la “mancanza di democrazia”, insomma lo scontro di civiltà” del quale il mondo musulmano sarebbe il responsabile e il nostro l’obiettivo se non la vittima innocente.

Galli della Loggia rammenta poi, tra i motivi – sembra di capire da lui ritenuti legittimi – di preoccupazione che ci assillano in una “condizione d’incertezza non solo religiosa” (che del resto è specchio anche della carenza o mancanza di princìpi solidi e condivisi nella nostra società, una colpa e una debolezza inerenti allo sviluppo che noi abbiamo impresso alla Modernità impostandola sui valori primari della finanza, dell’economia e del profitto: sull’Avere, direbbe Eric Fromm, anziché sull’Essere; e di ciò gli altri non sono responsabili), l’afflusso di “milioni di migranti”, sottintendendo una loro pericolosità che giungerebbe forse fino alla collusione obiettiva col terrorismo, se non vogliamo parlar d’invasione in termini cari ai discepoli di Oriana Fallaci e di Magdi Cristiano Allam. Ma questi “milioni di migranti” che si riversano in paesi in regressione demografica, che chiedono lavori che i nostri concittadini – specie i più giovani – non vogliono fare, che almeno fino ad oggi hanno dimostrato di essere nella maggioranza dei casi, quando ne hanno avuto la possibilità, persone brave e oneste (ma, si sa, la bravura e l’onestà non fanno mediaticamente parlando notizia, mentre i loro opposti – anche quando si tratta di casi rari se non sporadici – la fanno eccome), costituiscono davvero un fenomeno che giustifica l’allarme sparso nei loro confronti soprattutto a scopo demagogico da politici che intendono sfruttare sul paino elettorale l’inquietudine e la paura della gente?

Ma Galli della Loggia propone di fissare almeno dei “paletti concettuali” all’interno dei quali dovrebbe inquadrarsi la nostra cognizione del problema islamico e svilupparsi la problematica dei rapporti con i musulmani. Vediamo partitamente quali: e cercherò di rispondere punto per punto.

  1. Che termini come “islamofobia” vadano usati con prudenza, siamo d’accordo; che sia lecito criticare l’Islam da un punto di vista non-islamico, al pari di qualunque altra religione, parimenti d’accordo a patto tuttavia che tale critica non parta dal pregiudizio dipendente dall’adesione ad altre verità precostituite. Ad esempio, a proposito della donna, mettere sullo stesso piano l‘uso del hijab – la sola copertura dei capelli e del collo – con altre e ben più gravi forme di velatura e addirittura di repressione e umiliazione nei suoi confronti è evidentemente inappropriato, così come criticare usanze e tradizioni musulmane solo perché e nella misura in cui esse non corrispondono ai nostri parametri e alla nostra mentalità corrente è un atteggiamento eurocentrico al quale ha già risposto il celebre principio metodologico rivendicato da Claude Lévi-Strauss e consistente nel dovere di giudicare ciascuna cultura iuxta sua propria principia, rinunziando alla tentazione di redigere una classifica qualitativa delle civiltà. E dir ciò non è relativismo: è puro senso della distinzione, della relatività. Quanto all’abuso del termine “islamofobia” in sé e per sé, personalmente ho esperienza anche del suo opposto, “filoislamismo”, del quale sono accusati coloro che tentano di riportare il discorso sull’Islam a un analisi serenamente storico relativo alla natura e alla storia dell’Islam, sottolineando la sua altissima civiltà e i menzogneri stereotipi di chi basandosi su versetti coranici estrapolati o su esemplificazioni poco attendibili cerchi di far passare l’immagine di un Islam esclusivamente o prevalentemente fondato sulla violenza, al repressione, la guerra. Io credo in ultima analisi che parole come “islamofobia”, “filoislamismo” e “antisemitismo” andrebbero sempre usate con grande prudenza e precisa cognizione di causa.
  2. L’affermazione che “tutte le religioni monoteistiche sono uguali” corrisponde in generale a un generico e volgare pregiudizio “laicistico” che non vale nemmeno la pena di discutere. E’ tuttavia importante riconoscere la radice non semplicemente monoteistica, bensì propriamente abramitica e quindi la dipendenza reciproca di ebraismo, cristianesimo e Islam, tenendo presente che l’esperienza cristiana non può prescindere dall’ebraismo né quella musulmana da ebraismo e cristianesimo. Ciò detto, resta il fatto che siamo dinanzi a teologie, a discipline, ad etiche e a pratiche devote diverse nell’àmbito di ciascuna fede e nel rapporto fra   ciascuna di esse e le altre due. D’altro canto quel che Galli della Loggia osserva – lasciando intendere che il cristianesimo sia quanto meno in termini etici e civici ben diverso e superiore alle altre due fedi abramitiche – si risolve in una visione globale del cristianesimo francamente troppo cattolicizzante. Se distinzioni vanno fatte – ed è giusto che siano fatte –, vale allora la pena dio osservare che non tutte le confessioni cristiane hanno le caratteristiche dal Galli implicitamente ma evidentemente al solo cristianesimo ascritte. Non a caso, durante le polemiche postriformistiche e controriformistiche, i cattolici parlavano ad esempio di un “calvinoturcismo” (e i protestanti, insieme con gli ortodossi, rispondevano che il turbante era preferibile alla tiara). Esistono poi sètte cristiane per molti versi molto vicine a certe forme di ebraismo e gruppi musulmani considerati dai loro correligionari troppo affini ai cristiani. Infine ebraismo, cristianesimo e islam hanno sviluppato forme di misticismo che obiettivamente li avvicinano. Insomma, le religioni monoteistiche non sono “tutte eguali”, ma certo il monoteismo abramitico ha dato luogo a tre fedi che hanno tra loro una parentela forte ed evidente, che non si può né disconoscere né sottovalutare.
  3. E’, come lo stesso Galli della Loggia argomenta, ridicolo parlare di “colpe” storiche; e il problema non è certo il conteggiare in termini di ampiezza o d’intensità le rispettive conquiste. D’altro canto, parlare di terre e di popolazioni strappate al cristianesimo da parte dell’Islam corrisponde a porre implicitamente anche il problema di come tali terre e tali popolazioni erano diventate appunto cristiane, di come erano state eliminate le culture “pagane” e via discorrendo. Ebbene, per quanto la fede coranica ammetta la liceità della cancellazione del paganesimo dalla faccia delle terra con emzzi anche violenti (ma i pagani, kuffar, sono gli idolatri e i politeisti: ebrei, cristiani, zoroastriani e secondo alcune scuole anche buddhisti non sono pagani bensì ahl al-Kitab, “gente del Libro” alle quali si riconosce il possesso di una Verità rivelata d’origine divina e che come djimmi – “soggetti”, ma anche “protetti” – hanno il diritto al mantenimento del loro culto sia pure con alcune restrizioni. Inoltre l’equivalenza sia pur approssimativa e sostanziale nelle pratiche violente dal punto di vista storico non regge: per quanto “autorizzati” dal Corano i musulmani non si sono mai resi responsabili di pratiche sterminatorie e genocide che si possono mettere in rapporto a quello che hanno fatto i cristiani (contro al lettera e lo spirito della propria fede) dal IV-V secolo in poi contro eretici, barbari pagani (sassoni, bulgari, wendi, lituani eccetera) e quindi, dal Cinquecento in poi, nei confronti dei native Americans tanto nell’area centrale e meridionale quanto in quella settentrionale del continente americano nonché in Africa e in Oceania. La storia dell’Islam, pur ricca di episodi di violenza, non conosce alcun tale e tanto sistematico impiego della barbarie omicida. Va inoltre considerato che negli ultimi due-tre secoli i metodi con i quali i colonialismi soprattutto britannico, francese e russo (guarda caso: i membri della Triplice Intesa largamente responsabili di avere scatenato al prima guerra mondiale) si sono imposti ai grandi imperi musulmani – l’ottomano, il persiano, il moghul – sottomettendoli al loro sistemi colonialistici o comunque egemonici (e spietatamente organizzando lo sfruttamento delle loro ricchezze: il fondamentalismo musulmano è nato anche dall’Egitto all’India all’Iran come risposta a questa pratica egemonica) hanno provocato l’indignata risposta di molti membri delle élites ma anche di larghe porzioni della società civile musulmana nei suoi stessi starti subalterni). Tutto ciò ha causato il “rancore” del mondo musulmano nei confronti del mondo occidentale: non al cattiva coscienza di uno “smacco”, di un “fallimento”, come semplicisticamente e tendenziosamente ha cercato di far credere anche qualche studioso serio.
  4. Da quando il terrorismo islamico ha mosso i suoi primi passi attraverso organizzazioni che del resto erano state in un primo tempo incoraggiate dagli occidentali (come quelle dei guerriglieri del jihad impiegati dagli statunitensi col tramite saudita nella guerra antisovietica in Afghanistan), ci sono sempre state organizzazioni musulmane che hanno contestato e condannato l’uso della violenza e del terrore. Esistono innumerevoli organizzazioni musulmane, come il World Muslami Congress, che lavorano in questo senso da anni: il manuale L’Islam in 100 mappe Alle-Laure Dupont (tr.it. Gorizia, LEG, 2015) ce ne offre un’esauriente panoramica; l’università cairota di al-Azhar ha parlato più volte chiaro in questo senso, ed in modo estremamente duro. Ma il punto è che l’Islam non conosce organizzazioni come quelle di tipo ecclesiale che siano abilitate a parlare in modo responsabile a nome di tutte le comunità: ogni comunità islamica, concettualmente, è autocefala. Inoltre i media occidentali hanno ormai la cronicizzata e sistematica abitudine di sottovalutare le voci davvero “moderate”, cioè ispirate a buon senso e ad equilibrio, che provengono dal mondo musulmano. La notizia di una manifestazione antioccidentale, anche se chiaramente provocatoria e politicamente irrilevante, viene da noi subito notata, diffusa, iterata più e più volte fino a creare un effetto-eco assordante; al contrario, iniziative musulmane e voci autorevoli di quell’area che condannano e combattono con forza terrorismo ed estremismo vengono di solito ignorate, o sottovalutate, o trattate al massimo come sia pur “illuminate” eccezioni. Dal canto nostro, specialisti a parte, non mi pare che gli occidentali brillino per quelle doti la carenza delle quali sono pronti a rimproverare ai musulmani. L’Islam viene trattato di solito come una realtà barbara e arretrata, alla quale non resterebbe per redimersi se non divenire “moderata”: vale a dire, nella mentalità corrente tra noi, rinunziare progressivamente a se stesso per accettare in pieno i nostri punti di vista. Se quello fra noi e l’Islam è un “discorso fra sordi”, senza dubbio l’Islam non ne è del tutto colpevole, né noi del tutto innocenti. Ma ciò detto va anche aggiunto che tale sordità è molto relativa e va progressivamente attenuandosi. Le occasioni concrete di dialogo si moltiplicano, sono proficue, ed esiterei a definire “inutile apparenza” occasioni come quelle degli incontri interreligiosi di Assisi. Infine, il diverso grado di “tasso di tolleranza” tra cristiani e musulmani (e chi conosce Israele, e in particolare Gerusalemme, sa che il problema riguarda anche gli ebrei). Francamente, a giudicare certi movimenti – più o meno “spontanei” – che si creano o vengono suscitati “fra la gente” dalle nostre parti appena una comunità musulmana chiede di poter aprire una sala di preghiera, o peggio, costruire una moschea, non direi che il taso di tolleranza dei musulmani a casa loro nei confronti dei cristiani sia enormemente inferiore rispetto a quello di questi ultimi. Certo, casi di veri e propri assalti di moschee e di uccisioni di fedeli in Occidente (finora) non si sono dati: ma al riguardo va tenuto conto di due fatti. Primo: il rancore e la diffidenza dei musulmani nei confronti dei cristiani dipende non propriamente da elementi intrinsecamente religiosi, bensì dal fatto che questi ultimi vengono considerati, in molte regioni asiatiche o africane, come dei battistrada e dei compici dello sfruttamento colonialista e postcolonialista, a torto (e va sottolineato: senza dubbio a torto) ritenuto qualcosa che ha a che fare con la cultura cristiana mentre è figlio semmai di quella ormai secolarizzata dell’Occidente moderno (e qui agisce la difficoltà, da parte musulmana, a capire che l’Occidente – anche se molti occidentali sono individualmente dei cristiani – non è più una “società cristiana”, una “Cristianità”. Secondo: un altro motivo del minore tasso di tolleranza” dei musulmani nei confronti dei cristiani dipende dal fatto che appunto la tolleranza religiosa è nata come valore europeo moderno e certo anche cristiano, ma proprio però di una società cristiana che andava secolarizzandosi e perdendo il senso della fede come elemento centrale dell’esistenza. Noi siamo “tolleranti” in materia di fede religiosa e magari accettiamo su cose della fede perfino la satira, l’ironia e il dileggio: i musulmani lo sono molto meno. Ma ognuno ha il “senso del sacro” e quindi le forme di suscettibilità che si merita. Provate a toccare gli occidentali su quello che davvero conta per loro – il profitto, le fonti energetiche, i beni materiali – e vi accorgete subito che rapida fine faccia il loro senso di tolleranza. Nel nome di Dio, certo, noi riteniamo indegno e blasfemo l’uccidere. Nel nome del petrolio, no.
  5. Ognuno adora il Dio che vuole; e che, magari, si merita.

Galli della Loggia conclude osservando che i punti da lui presentati e difesi sono “largamente condivisi dall’opinione pubblica”, ma temendo che “essi siano disattesi, e anzi guardati con sospetto, dalle élite politiche e intellettuali che guidano le nostre società”. Sugli intellettuali, o forse sugli studiosi, egli può avere ragione: sulle élites politiche, e sui media che in qualche modo le fiancheggiano (per non dire sulle lobbies delle quali le une e gli altri sono ormai da tempo “comitati d’affari”) non direi proprio. Esiste al contrario, e si va affermando, un politically correct mediamente (e “moderatamente”) islamofobo – anche se Galli non desidera che si usino aggettivi del genere – che è divenuto diffuso fino al conformismo e al politically correct, e che fa sì che voci equilibrate e ragionevoli del panorama intellettuale musulmano (anche dei pochi che vengono tradotti e letti da noi, come Fatima Mernissi, Tahar ben Jallud, Abdennour Bidar) siano sottovalutate o considerate con sufficienza, come eccezioni che confermano la regola se non addirittura come espressioni di doppiezza e di malafede, maschere “presentabili” di una cultura feroce, mentre voci che pur ammettendo responsabilità e colpe di parte musulmana insistono nel denunziare anche quelle occidentali – e penso a personaggi come Tariq Ramadan – siano calunniate come filoterroristiche e messe a tacere con procedimenti obiettivamente liberticidi. Non dimentichiamo i politici e i pubblicisti che hanno fondato le loro fortune anche elettorali o mediatiche su quell’islamofobia che secondo Galli della Loggia sarebbe tanto rara e che tanto a sproposito verrebbe denunziata.

Nella migliore delle ipotesi, appunto, chi cerchi di accedere a un discorso un po’ più prudente e articolato nei confronti di una condanna dell’Islam praticamente totale, che ammette qualche eccezione solo nei confronti del cosiddetto “Islam moderato” in quanto esso è considerato un Islam in via di liberarsi da se stesso, viene stimato un “buonista” che ha “voglia di illudersi e di chiudere gli occhi di fronte alla realtà”. Una “realtà”, appunto, fatta prevalentemente se non soltanto di musulmani terroristi o fiancheggiatori di terroristi, che quando si sforzano di adattarsi al nostro modo id vivere e ai nostri valori sono invariabilmente degli ipocriti, che quando arrivano da noi in cerca di un lavoro e di una dignità che in gran parte sono stati loro tolti o negati da un sistema economico-produttivo dominato dalla politica, dalla finanza e dalla tecnologia occidentali sono invece solo gente che ci vuole “invadere”, “sottomettere” e “convertire”. Paure che non tengono alcun conto degli effettivi rapporti di forza nel mondo, nemmeno di quelli numerici: ma che in ultima analisi palesano semmai la malafede di coloro che ne sono portatori e che in fondo sono ben consci della violenza fino ad oggi intrinseca nella politica e nei sistemi di produzione e di profitto degli occidentali nonché della debolezza etica e culturale, del vuoto interiore che la “società dell’Avere” hanno determinato tra noi e che ci fa temere chi appare privo di tutto meno che di quella fede religiosa e di quel senso di solidarietà di gruppo che da noi fanno da generazioni difetto.

In realtà, il punto debole della “realistica” e “concreta” analisi di Galli della Loggia – opposta alle “illusioni” dei “buonisti” – consiste proprio nel suo essere del tutto avulsa dalla realtà. Una realtà che deve considerare l’Islam (ch’è al tempo stesso una fede religiosa, un sistema teologico-giuridico, un modo di considerare il mondo, un insieme di paesi, un’area storico-culturale) nella sua complessità e nelle infinite variabili alle quali ha dato vita e forma: oltre un miliardo e mezzo di persone – quasi il 23% dell’umanità – in gran parte insediate in regioni del mondo che, quali il Vicino Oriente e l’Africa settentrionale – sono ricchissime di risorse ma abitate da popoli poveri o molto poveri in quanto a tali risorse, in gran parte drenate da organizzazioni socio-economico-tecnico-finanziarie occidentali, non possono se non in ben limitata misura accedere. Oltre un miliardo e mezzo di persone che da tempo sono variamente entrate in contatto con la Modernità occidentale, che ne apprezzano alcuni aspetti ma tendono a diffidare di altri se non a respingerli in quanto sembrano loro contrarie alla loro fede, ai loro costumi, al loro modo di vivere e di pensare mentre per altri versi vorrebbero sinceramente accedervi. L’Islam è oggi inquadrato civicamente paesi i governi dei quali sono spesso autoritari, talora addirittura tirannici, ma hanno con il mondo occidentale rapporti di amicizia e di collaborazione fortissimi; e, se non sempre i musulmani si mostrano aperti nei confronti dei nostri valori, grande considerazione anzi spesso ammirazione e desiderio dimostrano per le nostre cose, per gli oggetti, per quel che siamo in grado di costruire e di produrre.

Più di un miliardo e mezzo di musulmani, si è detto. Tra i quali tuttavia c’è di tutto: credenti sinceri e scrupolosi, credenti abitudinari e distratti, mistici, devoti, fanatici, praticanti devoti e gente che prega di rado e segue svogliata le norme principali – gli arkan al-Islam – come lo haj, il pellegrinaggio alla Mecca, o il digiuno del Ramadan, gente che addirittura si sente atea anche se ha difficoltà a tale proclamarsi in quanto appunto l’Islam oltre a una fede religiosa, è anche un orizzonte culturale e una coscienza etica. Il sociologo Clifford Geertz ha dimostrato come sia l’Islam maghrebino sia quello indonesiano hanno conservato rapporti strettissimi con le rispettive culture preislamiche ma siano, se paragonate loro, tanto reciprocamente estranei da parere due religioni addirittura diverse.

L’umma islamica, la comunità dei fedeli coesa e compatta che le ideologie jihadiste vorrebbero ricostituire, non esiste più da tempo. La stessa estensione fisica dei territori nei quali i musulmani sono distribuiti, gli stati moderni in un modo o nell’altro costituiti secondo modelli ”occidentali” che li inquadrano, i milioni di fedeli che ormai vivono, lavorano e sono radicati anche da più di una generazione in aree che non hanno mai conosciuto una maggioranza islamica – dall’Europa all’America alla Russia alla Cina all’Australia -: tutto insomma converge nel presentarci un Islam il cui dialogo con quella cultura ch’è ormai da oltre mezzo millennio la koiné mondiale (e ch’è la cultura appunto che, magari con molta genericità e approssimazione nonché con parecchie variabili significative, sentiamo come quella occidentale: la cultura del progresso sociale, delle libertà civili, dei diritti umani) si va sempre iù stringendo per quanto abbia provocato e continui a provocare, com’è peraltro storicamente comprensibili, reazioni e contraccolpi anche violenti quali il radicalismo jihadista nelle sue molte e per fortuna non coerenti espressioni e il terrorismo che ne è parte per quanto, e per fortuna, non riesca   comunque ad egemonizzare del tutto nemmeno le aree più estremiste di esso.

Secoli fa l’Islam era sentito come un “nemico esterno”, per quanto a volte esso si presentasse al contrario come un amico, un alleato, un partner sotto i profili politico, economico, sociale, diplomatico, culturale, artistico: d’altronde ad esso noi dovevamo gran parte di quel che appunto aveva consentito alla nostra civiltà di prevalere, vale a dire le cognizioni matematico-fisiologico-scientifiche. Oggi non è né può essere più così: dai governi e dai paesi che collaborano straordinariamente al nostro sviluppo e che anzi hanno acquisito all’interno di esso una solida e crescente egemonia finanziaria e tecnologica fino ai numerosi “migranti” che giungono da noi e si radicano nei nostri paesi, la globalizzazione ha imposto una serie di ponti e di vie di comunicazione che sta dando e darà senza dubbio adito a crisi e a scontri, ma che nel suo complesso è irreversibile.

Il cammino da fare è certo lungo: e non si può percorrere all’insegna né di un illusorio “buonismo” né di pregiudizi neocrociati o jihadisti. Se per determinare uno scontro basta a volte un nulla, la strada per la comprensione reciproca, il rispetto e la convivenza è invece lunga ed irta di ostacoli e di trappole. A guidarci non possono essere generiche espressioni di “buona volontà”, bensì un fermo, coerente, lucido e sereno progresso sia nella consapevolezza della propria identità, sia la sempre più approfondita conoscenza di quella altrui: se la superficialità genera diffidenza e antipatìa, la cognizione crea coscienza di affinità, simpatia, fiducia. Oggi, è ancora troppo diffuso il malvagio effetto mediatico secondo il quale se un musulmano sceglie la strada dell’estremismo o compie un qualunque crimine “tutti” i musulmani vengono presentati come fanatici o come criminali mentre invece i milioni di musulmani che vivono e lavorano onestamente tra noi, che sostengono le nostre imprese, che collaborano con le nostre famiglie, che ci aiutano ad accudire ai nostri anziani e ai nostri disabili, quelli “non fanno notizia”. E’ da questo equivoco che bisogna uscire; è da questo grave atteggiamento mentale che bisogna liberarci.

Ma non è detto che il tempo lavori per noi. Non bisogna né affidarsi alla “cultura della resa” né disperare, ma tantomeno bisogna pensare che i problemi si risolvano da soli. A dirla con Arnold Toynbee, la Modernità ha lanciato una “sfida” alla quale l’Islam ha replicato con più risposte. Trovare un equilibrio, individuare una sintesi che tuttavia non sia omologazione, che salvi del differenze e le specificità, sta a noi. Questo è il còmpito che ci aspetta.

E ADESSO, CHE COSA FARA’ IL SULTANO? 

Possiamo forse adesso cominciar a capire come sfrutterà Erdoğan la sua prestigiosa vittoria nelle costruito, ma da qui a sostenere che ci sono stati dei brogli, delle intimidazioni, delle violenze, ce ne corre. Anzi, diciamolo pure: a parte qualche caso particolare e qualche diceria, sostanzialmente non è vero. L’affluenza ai seggi è stata alta ma ordinata, com’è del resto nelle tradizioni turche. Gente abituata alla disciplina, e non da ieri, i turchi sono disciplinati perfino quando protestano. Chi ha visto le accese manifestazioni di piazza Taksim di qualche mese fa ha avuto la sensazione di trovarsi al massimo a un concerto rock di quelli educati. La Turchia si è espressa liberamente e a larga maggioranza: sta con Erdoğan, ed è perfettamente inutile rispolverare la solita obiezione idiota che “anche Hitler andò al potere vincendo libere elezioni”. Un paragone che non vuol dir nulla.

“Chissà se davvero sta sognando di riportare la capitale a Istanbul…”, mi diceva giorni fa un vecchio collega, kemalista tutto d’un pezzo, al tavolino di un caffè del Ponte di Galata. Ciò costituirebbe un segnale d’una gravità senza pari: equivarrebbe a rinnegare il senso della rivoluzione nazionale e “laica” e di quasi un secolo di storia turca, riallacciarsi esplicitamente al passato ottomano e al ritorno al sogno califfale: in concorrenza ad al-Baghdadi, in un folle assalto alla leadership sul mondo islamista sunnita. Ma davvero ha di queste intenzioni? “Boh…- è l’esitante risposta -; riportar la capitale qui dopo essersi edificato il palazzo-reggia di Ankara sarebbe una manovra azzardata, costerebbe un sacco di soldi, creerebbe un terremoto; e poi vorrebbe proprio significare lo strappo definitivo rispetto alla tradizione del ghazi”. Il ghazi, il “comandante vittorioso”, è Lui: il Padre della Patria, Mustafa Kemal Atatürk, la cui effigie ti controlla in ogni recesso della Turchia, appesa dipinta o fotografata dappertutto. Il ghazi è l’eroe di Gallipoli, il vincitore della guerra greco-turca del ’18-’24, il salvatore della Patria, il fondatore della Repubblica, il riformatore “laico” dell’Islam (continuiamo ad usare questa espressione, che in un contesto musulmano è incongrua, per alludere al drastico ridimensionamento da lui imposto al ruolo della religione nel paese), il demiurgo della riforma grafico-fonetica che ha sostituito l’alfabeto arabo con quello latino nella lingua turca scritta, il modernizzatore per eccellenza, colui che ha fermamente voluto traghettare la Turchia in Europa e in Occidente.

La rivoluzione nazionale e laicizzatrice turca ebbe, dagli Anni Venti del secolo scorso, molti punti in comune con quella del paese che della Turchia è lo storico nemico e concorrente, l’Iran. Con una somiglianza forte: in entrambi i paesi la tradizione musulmana – sunnita in Turchia, sciita in Iran – era ed è rimasta forte e autorevole, ma i governi progressisti e occidentalizzanti del movimento kemalista nell’uno, dei due successivi shah della dinastia Palhavi nell’altro, la contennero e la limitarono fino ai limiti dell’umiliazione, evidentemente suscitando molto scontento specie nelle aree rurali più tradizionaliste. Ma con una differenza decisiva: i turchi seguirono Mustafa Kemal, anche se molti di loro erano nostalgici del sultano-califfo e non approvavano l’evidente agnosticismo del loro leader in quanto egli aveva saputo restituire loro la dignità e l’orgoglio nazionale; gli iraniani rimproveravano a Mohammed Reza Palhavi non tanto il regime autoritario, non tanto la vita privata brillante e dispendiosa condotta troppo spesso in lussuose località straniere, non tanto la scarsa pietas islamica, quanto piuttosto, anzitutto e soprattutto, la situazione di scarsa dignità nella quale aveva precipitato il paese, la sudditanza nei confronti dei governi britannico prima e statunitense poi nonché alle rispettive compagnie petrolifere, la pavidità e la doppiezza dimostrata in casi come quello della liquidazione nel 1953 del ministro nazionalradicale Mossadeq.

Oggi, l’eredità kemalista è per la prima volta messa in discussione dall’ascesa dell’AKP, il partito “religioso-moderato” di Erdoğan che con i suoi 316 seggi in parlamento conquistati su 550 (ben oltre il 50%, quindi) può permettersi di governare senza alleati. D’altronde, il partito del presidente ha fagocitato molte piccole formazioni che, sia pure generalizzando, si potrebbero definire “estremiste”, “radicali”, insomma simpatizzanti per un Islam rigoristicamente inteso o per il jihadismo (e, attenzione, non sono la stessa cosa) all’interno del quale negli ultimi tempi si è registrato la volontà di un avvicinamento tra i gruppi vicini ad al-Qaeda (come il siriano al-Nusra) e l’ISIS.

D’altronde, le scelte di campo di Erdoğan parlano chiaro: nonostante l’esplicito anzi conclamato impegno contro il califfo al-Baghdadi, il presidente turco – fedele al principio formalmente ineccepibile che una guerra come quella dell’ISIS non si vince se non la si combatte con formazioni di terra (mentre Obama preferisce l’aeronautica, dove non corre rischi in quanto il califfo ne è sprovvisto, in quanto sa di non potersi permettere dinanzi all’opinione pubblica statunitense altre perdite di vite umane nel Vicino Oriente) – ha finora consentito pochi e poco efficaci raids aerei durante i quali ha colpito prevalentemente le forze siriane fedeli ad Assad e i curdi. A dire il vero, c’è anche di più: Erdoğan e al-Baghdadi hanno esattamente gli stessi avversari (Assad, i curdi, l’Iran); e, questione curda a parte, tali avversari sono esattamente i medesimi dell’Arabia saudita e d’Israele. A ciò aggiungiamo un altro elemento fondamentale nel garbuglio del Vicino Oriente, forse più grave ancora ma anche meno incomprensibile di quanto possa sembrare: la fitna (in arabo “discordia”, “guerra civile”) che ormai alcune potenze sunnite – Arabia saudita e Qatar prime fra tutte, ma validamente sostenute de facto dall’Egitto di al-Sisi che li appoggia nella lotta contro gli sciiti dello Yemen – hanno irreversibilmente scatenato contro l’Islam sciita, rappresentato principalmente come sappiamo dall’Iran, dagli sciiiti irakeni (il 60% della popolazione del paese) e siriani e dagli hezbollah libanesi.

Il recente deciso intervento di Putin – che non può certo perdere le basi russe di Lattakia e di Tartus nel Mediterraneo – ha impresso alla situazione il deciso sigillo geopolitico della stabilizzazione del fronte di una nuova “guerra fredda” che si sta ormai avviando a divenir tiepida. E’ sostanzialmente falso che gli aerei russi hanno colpito anzitutto e soprattutto le basi del composito schieramento siriano antiassadista (che ormai però è costituito quasi soltanto di formazioni jihadiste: i “laici” dell’Armata di Liberazione Nazionale sono quasi scomparsi); e difatti, se possiamo ammettere come probabile che l’incidente del 31 ottobre che ha causato l’esplosione dell’aereo della compagnia russo-siberiana Metrojet nel cielo del Sinai si sia dovuto alla “vendetta” dell’ISIS, il quadro diventa più chiaro. Da oltre un anno una “coalizione internazionale” sta “combattendo” il califfo, con esiti fino ad oggi inconsistenti: a contrastare efficacemente l’ISIS sul campo fino ad oggi si sono schierati solo i siriani lealisti, i curdi e i pasdaran iraniani. Il califfo non ha mai dato segno di preoccuparsi troppo della coalizione internazionale che sostiene di contrastarlo, mentre sembra aver risposto immediatamente con lo strumento dell’attentato terroristico di ritorsione all’affacciarsi della Russia sul teatro del conflitto. Più chiaro di così…

Ma c’è di più. Su quali e quanti tavoli sta giocando il “sultano” Erdoğan? Si può scartare l’inquietante ipotesi che egli miri a sovvertire l’ordine democratico del suo paese: certo intende appropriarsi sempre di più del potere ed esercitarlo in modo autoritario condizionando le opposizioni e controllando i media. Che all’indomani della vittoria dell’ AKP 71 giornalisti abbiano perduto il lavoro (e 2 di essi siano stati arrestati), che 54 magistrati siano stati sospesi dall’incarico e 46 poliziotti messi in stato di fermo è cosa che parla l’esplicito linguaggio dell’epurazione e dell’intimidazione.

Erdoğan, dopo le elezioni, si sente più sicuro. Aveva già incassato prima di esse l’appoggio obiettivo di Angela Merkel e del presidente dell’europarlamento Martin Schulz che si erano incontrati con lui: il problema dei profughi dalla Siria che premono sui paesi dell’Unione Europea è troppo urgente ed egli se ne serve come arma costante di ricatto politico. Al tempo stesso sente che il paese è con lui: i radical-shic dei caffè d’Istanbul possono anche detestarlo, ma i suoi fedeli contadini anatolici inurbati presidiano ormai le immense periferie con le quali egli ha voluto blindare l’ex capitale ottomana per mutarne l’equilibrio politico-demografico-urbanistico.

E’ evidente che Erdoğan sta ora puntando a consolidare il ruolo della Turchia come potenza regionale tra Mediterraneo orientale (Mar Nero compreso) e Vicino Oriente, in una posizione privilegiata come alleata dell’Occidente e dei paesi della penisola arabica, partecipe della fitna sunnita contro gli sciiti e in sostanzialmente buoni rapporti con Israele dal quale lo separa soltanto il permanere di un certo appoggio turco all’OLP (ma non ad Hamas, alleata degli sciiti Hezbollah). Dall’Egitto e dal mondo occidentale lo separa la questione libica, rispetto alla quale la Turchia, a differenza di entrambi loro, appoggia non il governo di Tobruk bensì quello jihadista di Tripoli: il che lo collega avvicina ulteriormente – sempre con tutta la prudenza del caso – sia ad al-Qaeda, sia all’ISIS i quali a sua volta stanno dando in questo momento qualche segno di convergenza tra loro. Nello schieramento geopolitico della nuova “guerra fredda” la Turchia, vecchio membro della NATO, è un tassello fondamentale della linea che si oppone all’asse russo-siro-iraniano. Non aspettiamoci da Erdoğan nuovi troppo solleciti segnali di richiesta d’entrare nell’Unione Europea: un traguardo che gl’interessa molto meno di qualche anno fa, quando essa trovava ogni sorta di pretesti per scoraggiarlo dichiarando il suo paese “non ancora maturo”, “non abbastanza democratico” e via discorrendo. Ora che il flusso degli esuli siriani verso nord-ovest dipende dal suo controllo, egli sa di poter negoziare con gli europei da posizioni di superiorità; e intanto guarda al sudest mediterraneo, allo specchio d’acqua tra Anatolia, Cipro, Siria-Libano-Israele ed Egitto (sul quale si affaccia però anche la palestinese Gaza) nel sottofondo del quale sono stati individuati recenti giacimenti petroliferi. Resterà a guardare, la Turchia, nella nuova caccia all’oro nero?

Né questo basta ancora. Chi segue la stampa e la produzione storico-divulgativa turca ha forse notato come, negli ultimi tempi, un personaggio di un secolo fa avverso a Mustafa Kemal e per questo colpito da una sorta di damnatio memoriae sia tornando alla ribalta della storia paria: si tratta di Enver Pasha, il politico-militare-avventuriero caduto nel’24 in Asia centrale combattendo l’Armata Rossa e paladino dell’idea panturanica sostenuta dall’ala “grande-turca” dei Giovani Turchi, gli aderenti alla quale sognavano una futura unione tra la Turchia e i popoli fratelli turco-mongoli ad ovest (Azerbajan) come ad ovest del Caspio, tra Syr-Darya e Amu-Darya, fino alle pendici dell’Indo Kush: ma un grande impero macroetnico da Smirne a Samarcanda. E’ a questa ripresa del Great Game ottocentesco, con NATO e Turchia al posto della Gran Bretagna ma sempre contro la Russia, che sta pensando in una prospettiva ovviamente non immediata il ben lungimirante “sultano” Erdoğan?

La posta in gioco sarebbe molto più alta di quella di una semplice partecipazione alla fitna antisciita.Ovviamente, il sultano sa bene di non poter sottovalutare il legame delle repubbliche altaiche centroasiatiche con l’organizzazione della CSI (“Confederazione degli Stati Indipendenti”) che è succeduta all’URSS, ne ha perso il posto e continua ad essere egemonizzata dalla Russia. Ma la CSI non è l’URSS: il legame è molto meno forte e sussistono gli spazi per insinuarsi attraverso di esso. D’altronde, Russia e USA non sono poi – e, almeno finché alla Casa Bianca resterà Obama – così lontane, stanno collaborando in Siria e per il momento non è l’America a sognare quel blocco antisiriano e antiraniano che sia in realtà anzitutto antirusso e che farebbe tanto piacere sia a Parigi, sia a Riad e forse magari ad Ankara.

La mappa vicinorientale si sta velocemente ridisegnando: vedremo come. Le inopportune manovre della NATO nel Mediterraneo del sudest – una vera e propria provocazione gratuita – potrebbero costituire la chiave per un decisivo cambiamento. Purtroppo, e presumibilmente, non in meglio.

Franco Cardini