Domenica 15 novembre, Avvento ambrosiano
DOPO PARIGI: CHE FARE?
E’ presto per qualsiasi tipo di deduzione. Il molteplice attacco parigino è stato un vero e proprio atto di guerra, per molti aspetti più grave ancora dell’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001. Tralasciamo ogni considerazione accessoria, che sarebbe ormai superflua, e atteniamoci ad alcuni fatti.
Primo: l’IS – prendendo come buona la sua rivedicazione di responsabilità – non è un vero stato riconosciuto come tale a livello internazionale, per quanto si stia dotando di molti strumenti istituzionali che vorrebbero abilitarlo a comportarsi come tale: è un’organizzazione criminale che sta comportandosi in modo terroristico all’interno di due stati internazionalmente riconosciuti e legittimi, la Siria e l’Iraq, per quanto le loro istituzioni siano a loro volta compromesse e il loro funzionamento problematico. Se la Francia o l’Unione Europea, ritenendosi attaccate direttamente e in modo così brutale, volessero reagire, non potrebbero certo dichiarargli guerra; né attaccare militarmente territori che appartengono a due stati diversi, salvo compiere prima tutta una serie di atti politici e diplomatici. In territorio irakeno agisce una coalizione militare che contrasta – poco e male – l’IS con il consenso del governo di Baghdad. In Siria, l’intervento militare russo si è svolto – con efficacia – su richiesta del governo di Damasco. I propositi belluini manifestati adesso da vari politici (“andar lì e attaccare”, o baggianate del genere) sono fuori della realtà.
Secondo: all’IS non si può attribuire a tutt’oggi (qualunque siano l’entità e la frequenza delle sue minacce e delle sue vanterie) il controllo e la gestione di alcuna rete terroristica. Ammesso che nel mondo occidentale vi siano cellule terroristiche ad esso affiliate, nulla sappiamo sulla qualità e sulle modalità dei loro rapporti di dipendenza con la supposta centrale. Per quanto a tutt’oggi ne sappiamo, per i territori che esso non controlla direttamente, l’IS agisce “in franchising”: vi sono gruppi che adottano la sua sigla e la sua bandiera, insomma il suo trade mark, ma agiscono dove si trovano in piena autonomia. Quelle eventuali reti terroristiche e i loro fiancheggiatori, sostenitori e complici vanno individuati e contrastati in loco: con adeguate operazioni d’intelligence e d’infiltrazione. Chi parla di “colpire le centrali del terrorismo” non sa quelle che dice. Contro questo tipo di nemico, in questa “guerra asimmetrica”, non servono né divisioni corazzate, né missili, né aerei, né droni.
Terzo: criminalizzare con un’indiscriminata ostilità e con un’ingiustificata presunzione di complicità associazioni o centri di cultura musulmani è illegittimo sul piano civico e giuridico, insensato su quello tattico-strategico. Le stragi parigine non sono un episodio di alcuna “guerra di religione”, di alcuno “scontro di civiltà”: sono il risultato delle mosse di un’organizzazione criminale che sta facendo proselitismo sulla base di una tesi ideologica, quella che tratta l’Islam non come una fede religiosa bensì come un’ideologia e postula arbitrariamente la necessità che tutti i musulmani sunniti del mondo (un miliardo e mezzo circa) si riuniscano in una sola umma (“matria”, comunità) per combattere sia gli “atei”, gli “idolatri”, i “crociati” (cioè i vari non-musulmani del pianeta), sia gli sciiti (perché la fitna, la guerra civile antisciita, fa parte del programma del califfo esattamente come di quelli arabo-saudita e qatariota). La stragrande maggioranza dei musulmani di tutto il mondo è del tutto estranea a questa follìa: ne è anzi concettualmente parlando la prima vittima, in quanto le azioni criminali dell’IS si riflettono in termini di sospetto e di ostilità da parte dei non-musulmani proprio su di loro.
Quarto: i migranti non c’entrano. Tutti i “servizi” d’intelligence del mondo concordano sul fatto che non esiste alcun legame sistematico e strutturale fra il movimento di migrazione, nelle sue varie e diverse componenti, e le centrali terroristiche. Casi isolati d’infiltrazione o d’indottrinamento sono sempre possibili, così come sappiamo bene che none siste alcuna città, alcuna installazione che non sia in linea teorica “a rischio”. E’ una delle leggi di base delle “guerre asimmetriche”. Ma il reclutamento di simpatizzanti o di aspiranti terroristi non avviane nei centri di raccolta o di smistamento dei profughi: vi sono luoghi specifici, come le prigioni oppure certe aree urbane o suborbane (le banlieues parigine, ad esempio), dove gli agenti provocatori e i “predicatori” dell’IS raccolgono possibili adepti. Prendersela con i migranti serve solo, semmai, a facilitare il sorgere in alcuni di loro di simpatìe filoterroristiche “di reazione”. I veri complici dell’IS non sono i “buonisti”, bensì quelli che se la prendono senza criterio alcuno con chiunque appaia loro un possibile fiancheggiatore dei terroristi e quelli che contribuiscono a spargere timori e ostilità infondate. Né serve “chiudere le frontiere”, a meno che non si voglia impedire l’espatrio clandestino di qualche sospetto.
Quinto: cerchiamo di capire le ragioni che possono aver indotto gli organizzatori degli attentati parigini a un tanto grave crimine. Non certo “punire la Francia”: il governo francese ha sostenuto i guerriglieri jihadisti sia in Libia contro Gheddafi sia in Siria contro Assad e non ha mai fatto nulla di concreto contro l’IS (a differenza della Russia, sulla quale dopo i raids di qualche giorno fa si è puntualmente abbattuta la vendetta terroristica con l’attenatto all’aereo partito da Sharm al-Sheykh). L’azione terroristica cruenta e spettacolare serve, nelle intenzioni del califfo (se è davvero lui il diretto mandante) per concentrare contro di lui l’azione dei “crociati” occidentali: in tal modo egli potrà presentarsi nei confronti dei tanti musulmani disorientati e incerti che sono la potenziale area d’espansione dei suoi fedeli e/o simpatizzanti come il vero paladino del puro islam, l’autentico martire designato contro cui si sia abbattuta la rabbia degli infedeli. E’ un vantaggio mediatico e propagandistico ch’egli cerca: seminare paura e provocare reazioni inconsulte che si abbattano su innocenti e indirizzino su di lui le simpatie di questi ultimi. Non dobbiamo fare il suo gioco. Le armi delle quali disponiamo sono le seguenti: intelligence, infiltrazione, informazione corretta, massima collaborazione tra musulmani e non musulmani contro il comune avversario terrorista, mantenimento della calma e svolgimento di una normale, serena vita civile nelle nostre città.
Sesto: un po’ di equità non guasterebbe. All’attentato contro l’aereo russo in Occidente si è reagito con noncuranza, in qualche caso quasi con soddisfazione. Eppure la Russia aveva dimostrato da poco di prendere la minaccia dell’IS molto più sul serio della maggior parte dei paesi occidentali. Inoltre, non troppo tempo fa c’è stato un grave attentato terroristico all’aeroporto di Beirut: e della stessa presumibile matrice di quelli di Parigi del 13 scorso; ma da noi non ne ha parlato quasi nessuno. Infine – e ciò sia detto con forza – gli occidentali blaterano sempre sul fatto che “la comunità musulmana moderata” non condanna i terroristi. Contro l’attentato di Parigi si sono espressi con la massima durezza, tra l’altro, l’Associazione Mondiale delle Comunità musulmane, l’università di al-Azhar, il dottor Ezzeddin, presidente dell’unione delle Comunità Islamiche d’Italia (UCOII), e anche Hamas ed Hezbollah. I nostri media non hanno accordato alcuna attenzione a quelle voci. Andiamo avanti così, continuiamo a farci del male…
Settimo: questa tragedia ci ha ricordato una volta di più che per essere dei militanti dell’IS non c’è bisogno di essere arabi, né di venire da chissaddove. Bisogna abituarci all’idea che i terroristi li abbiamo fra noi, che possono essere dei ragazzi nati anche a Liverpool, a Bordeaux, oppure – perché no? – a Pontassieve. Non facciamo la politica dello struzzo, non nascondiamoci dietro la virtù pelosa della nostra cattiva coscienza (noi pacifici, noi razionali, noi democratici…), piantiamola di buttar sempre la colpa tutta addosso agli altri. Perché l’altroieri i ragazzi di vent’anni partivano volontari in camicia nera, perché ieri altri ragazzi di vent’anni sognavano il “Che” e la guerriglia, perché oggi altri ragazzi ancora – allevati in famiglie nelle quali sono magari stati riempiti di computers, di telefonini, di capi firmati e altre belle cose ancora – scelgono la Bella Morte nel nome di Allah? Ci ha mai sfiorato il dubbio che la società dei consumi e dei profitti possa apparire a qualcuno vuota e inutile e viziosa, che qualcuno dei nostri ragazzi voglia guardare oltre, anche a prezzo della vita propria e altrui? Sbaglieranno, certo, questi “fanatici”: ma quali sono stati i disvalori che noi abbiamo offerto loro, e che tali li hanno fatti divenire?
Franco Cardini
CHE COSA VUOLE ERDOĞAN?
Dopo la grande vittoria elettorale del 1° novembre scorso, Recep Tayyp Erdoğan ha alzato il tiro e si sta candidando a divenire un punto di riferimento per la politica estmediterranea e vicino-orientale. Le grandi linee della sua politica sono evidenti: nell’area siroirakena, egli tende ad appoggiare la fitna sunnita contro gli sciiti sostenuta anche dall’Arabia saudita, dal Qatar e indirettamente dall’Egitto di al-Sisi, che prosegue la sua campagna nello Yemen settentrionale insieme con l’Arabia saudita per combattere gli sciiti di quell’area, i quali storicamente hanno sempre contrastato il ramo yemenita di al-Qaeda, considerato uno dei più pericolosi; d’altro canto, per quel che riguarda la Libia egli costituisce un sicuro supporto del governo “fondamentalista” di Tripoli, il che lo pone in una linea di collisione sia con l’Egitto, sia con l’Unione europea, che preferiscono invece di gran lunga il governo di Tobruk; è evidente che egli tende, in Siria, a favorire una “normalizzazione” che abbia come presupposto l’eliminazione politica di Assad, esattamente come vuole il francese Hollande. Con la differenza che, mentre Parigi punta sull’opposizione diciamo così “laica” al governo di Damasco, l’opposizione dei gruppi collegati con l’associazione franco-siriana “Les Amis de la Syrie”, che però è piuttosto debole, Erdoğan mira invece più realisticamente ad appoggiare soluzioni che nel paese diano più spazio ai gruppi radicali. Essi sono molti, ma ostili fra loro: tuttavia, negli ultimi tempi, si sono sentite levarsi da quegli ambienti voci che auspicherebbero un riavvicinamento, se non proprio un’unità d’azione, tra chi guarda ad al-Qaeda o ad al-Nusra e chi invece all’ISIS.
E’ a una Siria frammentata, con un residuo potere di Assad limitato all’area occidentale addossata al Libano (se non addirittura alla riproposizione di uno staterello alawita, come c’era nei primi Anni Venti) e magari l’istituzione di nuovi soggetti politici che controllino il resto del paese e che favoriscano la fitna sunnita, che pensa il presidente turco? Se così avvenisse, egli potrebbe considerarsi egemone in quell’area: e già sta ergendosi ad autoreferenziale protettore delle minoranza turche in territorio siriano, mentre mira a stabilire una “zona protetta” nel nord del paese, circa 46 chilometri di territorio siriano tra le città di Azaz ad ovest e Jarablus ad est (quest’ultima a pochissima distanza da Kobane), in un’area di confine tra Siria e Turchia attualmente controllata dall’ISIS e incastrata tra un’ampia regione in mano ai ribelli anti-Assad a occidente e un’altra non meno ampia a oriente con le città di Kobane e di Tal Abyad dove sono insediati i curdi. Ed è evidentemente nei loro confronti, oltre che in quelli di Assad, che le intenzioni poco amichevoli del presidente turco sono rivolte. Il califfo controlla a sua volta le sponde dell’Alto Eufrate, ma va almeno direttamente poco al di là di esse: se davvero avessero l’intenzione di combatterlo, i turchi potrebbero colpire là, ma certo questo significherebbe addentrarsi parecchio in territorio siriano ed Erdoğan, adesso, teme se ciò facesse le reazioni di Mosca.
La “zona protetta”, il quadrilatero di 46 chilometri tra Azaz e Jarablus a ridosso della sua frontiera, il presidente turco lo vuole per un’altra ragione. Si dice pronto a dislocarvi nelle due prime settimane di dicembre ben 10.700 soldati: ciò, almeno stando a quanto dichiara la stampa che ufficialmente l’appoggia (vale a dire che egli direttamente controlla, come il quotidiano “Yeni Shafak”), è contenuto in un memoriale corposo, una cinquantina di pagine, che sarà presentato domenica 15 prossimo appunto in Turchia, alla riunione dei G20 che si terrà nella città di Antalya che dà il nome al golfo omonimo, appunto a ridosso della frontiera con la Siria e non lontano dalla base militare di Incirlik. Il documento prevede 6 grossi campi di raccolta per rifugiati, 11 basi logistiche e 17 “punti di sicurezza” – eufemistica espressione per indicare basi militari – e insomma la fondazione di un vero e proprio “bacino di contenimento” dei profughi siriani a spese e sotto il controllo della Turchia ma in territorio siriano (peraltro controllato per ora dall’ISIS, che dovrebbe arretrare). Mantenendo a sue complete spese e controllando circa 2 milioni di profughi siriani, Erdoğan sta “facendo un piacere all’Europa”. Ma la sta anche ricattando, con la minaccia di cacciarli verso il Mediterraneo, il che significherebbe Cipro, la Grecia e quindi l’Italia. E’ davvero finito il tempo nel quale gli europei rivedevano le bucce ai turchi e giudicavano sulla loro democrazia, che adesso il presidente uscito dalla vittoria elettorale sta ulteriormente imbrigliando. Se l’Unione Europea non fosse quell’ameba politica che invece è, ci sarebbe da chiedersi se non fosse il caso, oggi, di essere semmai noialtri dell’Unione a rinnovare a Erdoğan la proposta di adesione, ma ormai a condizioni che non potrebbero non essere a suo eccessivo favore. Insomma, piaccia o no, ci siamo fatti scappare la Turchia, che avrebbe potuto essere il ventottesimo stato di Eurolandia e magari aderire all’area dell’euro (altra cosa che sembra interessare poco i turchi, specie ora che la loro “lira” appare risanata).
Che l’occasione di una Turchia nell’UE sia sfumata potrà anche far piacere a molti: ma il fatto è che Erdoğan adesso, anche in alternativa a quella prospettiva ormai messa da canto, si sta molto impegnando tanto nell’adesione sostanziale alla fitna antisciita (il che vuol dire, fra l’altro, appoggiare implicitamente Israele nella sua linea duramente antiraniana che infastidisce non poco sia Putin sia Obama i quali stanno cercando di trovare un accordo per la Siria) quanto in un non meno implicito ma anche non meno sostanziale appoggio indiretto all’ISIS, espresso sia con la non-belligeranza nei confronti di esso che certo non viene proclamata ma viene praticata (e la simpatia del governo turco per quello libico di Tripoli è un’altra prova in questo senso).
Poi c’è l’arma segreta di riserva, il coltello che il presidente turco si tiene in tasca. Ma il fatto che in questi giorni l’opinione politica erdoğanista, dopo la vittoria elettorale, stia smorzando ancora di più quei toni di ossequio alla memoria del “laicista” Mustafa Kemal Atatürk mentre dalla memoria “identitaria” del paese sta timidamente riemergendo il nome fino ad oggi impronunziabile di Enver Pasha, l’eroe del panturanismo che sognava la Grande Turchia da Smirne a Samarcanda, suona come la preparazione propagandistica di un latro siluro politico che ci si prepara a lanciare da Ankara e Mosca: l’appello a una maggiore collaborazione tra la “madrepatria” turca e le repubbliche turcomongole dell’Asia centrale, ricche di petrolio e di metano e ancora aderenti alla Confederazione degli Stati indipendenti guidata dalla Russia. Con la repubblica turcomongola ciscaspica, l’Azerbaijan, la manovra ha sostanzialmente avuto successo. Se ne avesse anche con le altre – il Turkmenistan, il Kazakhstan, l’Uzbekistan, il Kirgizistan -, sarebbe un bel terremoto geopolitico: e la mappa della nuova guerra fredda (per tacere di quella almeno potenziale dei pipelines) verrebbe notevolmente modificata. Come la prenderebbero, a Mosca e a Teheran?
QUALCOSA DI NUOVO (E DI NON BUONO) SUL FRONTE ORIENTALE (E MERIDIONALE)
Fino a quali livelli possono spingersi l’acquiescenza (per non parlar di collaborazionismo), la disinformazione, la mancanza di spirito critico e di coraggio, il cinico ma pericoloso sfruttamento dell’ignoranza d’un’opinione pubblica ormai inesistente?
In un parlamento semiassente, o in quel che del parlamento rimane, il ministro della difesa ha cinicamente confermato l’impegno di un contingente militare italiano in Afghanistan. La cosa può aver ricevuto il consenso di alcuni generali di stato maggiore, che da tempo sono preoccupati dalla prospettiva di dover render conto prima o poi a proposito dello spinoso problema dell’utilità di un esercito italiano e delle relative spese militari che USA e NATO c’impongono ma che non servono né alla nostra dignità nazionale né al nostro interesse. E può aver fatto piacere a un pugno di militari che contano su qualche mese di più di un “servizio” mercenario ben pagato e che comporta possibilità di avanzamenti.
Ma noi che cosa c’entriamo, che cosa c’entra l’Italia, nel mantenimento di un regime-fantoccio come quello di Kabul, dove i talibani spadroneggiano ben più di quanto non facessero nel 2001 allorché dovettero sopportare l’ingiustificata e criminale aggressione di Bush, preludio a quell’altra, quella contro l’Irak di due anni dopo, della quale si è vergognato e pentito perfino Tony Blair?
Nei giorni scorsi, si sono tenuti a Kabul i funerali di sette membri della comunità di minoranza etnoreligiosa hazara decapitati dai talibani. Erano presenti 10.000 persone, esasperate perché il governo non fa nulla per proteggere le minoranze. Ma che il governo di Kabul non faccia proprio niente, è inesatto: quando la folla ha cercato di dar l’assalto al palazzo presidenziale, la polizia non ha esitato a sparare facendo una decina di feriti. Sempre in Afghanistan, nei giorni scorsi è stata lapidata una ragazza che si era spinta a chissà quali atti osceni in luogo pubblico con il suo fidanzato, tenendogli al mano o roba del genere. Del resto, noi sopportiamo cose ancora peggiori commesse contro la minoranze etniche (gli sciiti, ad esempio) e le donne negli emirati della penisola arabica. Ma, certo, gli emiri hanno i soldi, hanno il petrolio, ospitano i nostri super-ricchi negli alberghi esclusivi di Dubai e di Abu Dhabi, ci comprano le imprese e perfino le squadre di calcio: possono fare quel che vogliono, non cadranno mai sotto gli strali degli antimusulmani di casa nostra, quelli che se la prendono con i migranti e non vogliono che le piccole moschee costruite a spese delle comunità “deturpino” l’armonioso paesaggio della Valdelsa, della pianura Padana, del Triveneto, della Brianza. A proposito di Assad si è detto che “massacra il suo popolo”. Quando lo massacrano i nostri partners politici ed economici, allora va bene. E mi raccomando, non usate il termine “islamofobia”. Galli della Loggia lo sconsiglia e lo stigmatizza. Difatti, il nostro governo non è affatto islamofobo. Guardate i nostri rapporti con l’Arabia saudita, che vanno a gonfie vele specie dopo la visita di Renzi a Riad, nonostante il re di quel paese auspichi, insieme con Israele anche se separatamente rispetto a esso, un attacco contro l’Iran. A proposito del quale Iran, sarebbe opportuno che a Palazzo Chigi, alla Farnesina e altrove si leggesse con molta attenzione l’intervista rilasciata dal premier iraniano Hassan Rouhani a David Pujadas e Jean-Pierre Elkabbach e pubblicata su “La Repubblica” di giovedì 12 novembre 2015 a p. 18.
C’è una sola cosa a proposito della quale dissento da Rouhani: l’atteggiamento iraniano nei confronti dello stato d’Israele, che del resto è reciproco e che anzi si è andato negli ultimi mesi aggravando in seguito alle dissennate dichiarazioni di un Netanyahu irritato dalla mano che Obama ha teso all’Iran e che sta conducendo verso una normalizzazione dei rapporti tra la repubblica islamica e la società civile mondiale. E’ folle non favorire un iter del genere, folle minacciare addirittura un’azione militare unilaterale che si configurerebbe come “guerra difensiva preventiva”, cioè obiettivamente come aggressione. Il premier israeliano è ormai alla frutta e prende fischi per fiaschi. La sua ultima trovata isterica, la protesta contro la direttiva europea che ha imposto un’etichettatura specifica per i prodotti israeliani provenienti dalla Cisgiordania occupata (al posto dell’impropria made in Israel, che continua giustamente a valere per i prodotti provenienti dal territorio israeliano), lo ha mandato in delirio (“una vergogna per l’Europa”, l’ha dichiarata). Ma appunto per questo è grave che proprio una proposta italiana abbia ammesso “osservatori” israeliani e sauditi alle manovre militari della NATO nel bacino mediterraneo orientale: dal momento che Israele e Arabia saudita si sono espressamente dichiarati a favore di un’azione militare “preventiva” contro l’Iran, la loro presenza accanto alla NATO ha per la repubblica islamica il valore obiettivo di un atto di guerra. Né l’Italia dovrebbe legittimare scelte del genere nel momento stesso in cui sta avviando con l’Iran buoni e pacifici affari.
Vie d’uscita? Ohimè, una sola: e al momento improponibile in quanto impraticabile. La vera “spina infettiva” che contagia l’equilibrio dell’intero Vicino Oriente è, insieme con la fitna sunnita contro gli sciiti voluta da sauditi e qatarioti e appoggiata da turchi ed egiziani, che va a rafforzare la pregiudiziale antiraniana di Netanyahu e alimenta la spirale antisraeliana degli iraniani, è l’irrisolta questione israelo-palestinese. Per risolverla, il cammino è uno solo e a tutt’oggi impercorribile: gli USA ritirino il loro pregiudiziale diritto di veto contro la risoluzione 242 dell’ONU che impone a Israele di rientrare entro i confini anteriori al 1967 e, contestualmente, l’ONU riformuli la 242 in termini nuovi e più favorevoli a Israele dal momento che nell’ultimo mezzo secolo la situazione in quello scacchiere è profondamente mutata. Non abbiamo scelta. Bisogna essere realisti: chiedere l’impossibile.
Facciamo poi attenzione a quel che sta succedendo in Africa. L’Europa si è decisa a prendere in considerazione il fatto che arginare le migrazioni equivale anzitutto a rimuovere le ragioni per le quali gli africani fuggono da loro continente: che non sono – contrariamente a quel che semplicisticamente si sostiene – solo la fuga dalle guerre e dalle dittature. C’è di più e di peggio. Si fugge dalla fame, dall’impossibilità di vivere: tutte cose che costituiscono in gran parte il pessimo risultato della politica dei governi locali corrotti e della mano libera che essi hanno lasciato (in cambio di laute prebende) alle lobbies multinazionali che stanno indiscriminatamente sfruttando suolo e sottosuolo africani drenandone le materie prime, deforestando, inquinando, impedendo il mantenimento dell’autosufficienza alimentare di interi popoli, sottraendo loro la terra e il lavoro. I milioni che gli europei stanno promettendo ai governi africani per “aiutare lo sviluppo” rischiano di finire nelle tasche di speculatori e di politici corrotti. Missionari e membri di organizzazioni volontarie stanno denunziando da tempo questa situazione: perché non vengono ascoltati?
Franco Cardini